Dichiarazione infedele: quali conseguenze per il contribuente?

Si parla di dichiarazione dei redditi infedele, quando il reddito indicato è minore rispetto a quello reale, oppure se le passività indicate sono maggiori di quelle effettive. Se ciò dovesse verificarsi, a prescindere dalla buona fede o da un errore da parte del contribuente, lo Stato prevede sanzioni amministrative o addirittura, per casi estremi, la reclusione.

Quando si configura la dichiarazione infedele

La dichiarazione è infedele quando gli errori compiuti dal contribuente gli consentono di pagare meno tasse di quelle dovute. La cosa si concretizza se sussiste anche uno dei casi seguenti:

  • il contribuente dichiara redditi inferiori a quelli realmente conseguiti;
  • il contribuente inserisce elementi passivi che non sono reali, dove per passività s’intendono importi deducibili che permettono la riduzione del reddito imponibile.

La dichiarazione infedele costituisce reato?

Il reato si configura in situazioni estremamente gravi, tanto che il contribuente può essere condannato con la reclusione da 1 a 3 anni. Per essere più precisi, il contribuente può essere perseguito penalmente se si verificano contemporaneamente due condizioni:

  • l’evasione delle tasse è superiore a 150.000 euro;
  • l’ammontare dei redditi non dichiarati supera il 10% dell’importo totale del reddito riportato in dichiarazione, oppure se supera i 3.000.000 euro.

Diversamente, ossia se l’evasione fiscale accertata resta sotto le suddette soglie, la dichiarazione infedele non è perseguibile penalmente, ma resta soggetta alle sanzioni amministrative.

Quali sono le sanzioni?

Scartata l’ipotesi di reato, per una dichiarazione infedele compiuta dal contribuente, sono previste delle sanzioni amministrative:

  • dal 90% al 180% di maggiorazione sull’imposta realmente dovuta, quindi calcolata sull’importo dei redditi effettivi;
  • dal 90% al 180% della differenza del credito utilizzato, ossia la parte di credito d’imposta di cui beneficerebbe il contribuente per aver indicato passività superiori a quelle reali.

Qualora la maggiore imposta o il minor credito sono inferiori al 3% dell’imposta o del credito dichiarati, oppure comunque inferiori a 30.000 euro, la sanzione amministrativa si riduce di un terzo, ma mai inferiore al limite minimo previsto per dichiarazione infedele, ovvero 200 euro.

E’ possibile sanare la dichiarazione infedele?

Per correggere gli errori commessi in sede di dichiarazione dei redditi, il contribuente può fare due cose:

  • Presentare una dichiarazione integrativa che rende noto all’Agenzia delle Entrate i redditi non dichiarati in precedenza. Deve essere compilata su un modello aggiuntivo e presentata entro 90 giorni dalla scadenza del termine ordinario previsto dalla legge per la dichiarazione dei redditi. Le scadenze variano di anno in anno.
  • Effettuare il ravvedimento operoso che completa il processo di regolarizzazione avvenuto con la dichiarazione integrativa e consiste nel versamento delle somme dovute allo Stato. In caso di provvedimento operoso, il contribuente avrà diritto ad una riduzione della sanzione amministrativa.

E’ importante sottolineare che si può ricorrere al ravvedimento operoso e fruire della riduzione della sanzione, solo nel caso in cui la violazione non sia già stata contestata dall’Agenzia delle Entrate, quindi, prima dell’eventuale accertamento dell’illecito compiuto a seguito di verifiche e ispezioni da parte del Fisco.

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Riforma pensioni: quota 103 è la novità

Sembra non terminare mai la disquisizione sulla riforma pensioni e sulla necessità di evitare lo scalone della Legge Fornero. Dopo aver parlato di Quota 102 (64 anni + 38 anni di contributi) e Quota 104 (66 anni + 38 anni di contributi), ci potrebbe essere l’introduzione di Quota 103, praticamente uno scalino aggiuntivo per rendere la transizione più graduale.

Attualmente, il governo Draghi sembra orientato a introdurre Quota 102 nel 2022 e Quota 104 nel 2023. La nuova proposta proviene della Lega di Matteo Salvini che per rendere più graduale il passaggio alla Legge Fornero, vorrebbe inserire Quota 103 nel 2023 e far slittare Quota 104 nel 2024.

In tal caso, il lavoratore potrebbe andare in pensione dopo aver compiuto 65 anni d’età e maturato 38 anni di contributi. Chi non vuole uscire anticipatamente potrà restare al lavoro fino a 67 anni.

Chi ha fruito di Quota 100, è andato in pensione a 62 anni con 38 anni di contributi, percependo un assegno medio di 1.300 euro calcolato su una retribuzione di 1.600 euro. Nessuna penalità, dunque, visto che il lavoratore in questione ha versato 5 anni in meno di contribuzione.

Con la legge Fornero, infatti, la pensione sarebbe scattata a 67 anni, o anche prima in base al requisito contributivo: 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne. Con la pensione di vecchiaia il lavoratore avrebbe potuto aggiungere 2-300 euro al mese al suo assegno. Con Quota 102 lo stesso dipendente che non è uscito con Quota 100 potrebbe farlo con 64 anni e 38 di contributi, beneficiando dello stesso trattamento.

Quote penalizzanti per le donne

Tuttavia, si tratta di una soluzione penalizzante per le donne, tanto da provocare la reazione della sottosegretaria LEU Maria Cecilia Guerra:

L’ipotesi prospettata è di un rientro graduale da Quota 100 alla situazione Fornero. Adottare dei sistemi di ‘quota’ non penso sia una scelta giusta, perché le quote creano una deformità di genere molto forte, favoriscono gli uomini rispetto alle donne, richiedono una carriera contributiva lunga e costante, cosa che spesso le donne, dedicate al lavoro di cura e ai figli, non possono avere“.

Come se non bastasse, il sistema delle quote non prende in considerazione i lavori gravosi o usuranti per i quali potrebbe esserci un Super Ape Social che allarga la platea dei beneficiari.

In disaccordo anche i sindacati che pretendono una riforma pensionistica del tutto diversa da quella targata Fornero e che vada incontro ai giovani, alle donne, ai lavoratori e pensionati. In particolare il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, rivendica la proposta di accesso alla pensione sin dall’età di 62 anni, con una pensione per i giovani e un riconoscimento contributivo per le donne.

Il vicesegretario del PD, Peppe Provenzano ha considerato fallimentare la sperimentazione di Quota 100 ed è contrario al sistema delle quote e al ritorno alla legge Fornero a favore di forme di flessibilità di uscita dal lavoro. Inoltre, propone l’ampliamento dell’Ape Social e la proroga di Opzione Donna.

Insomma, cosa farà alla fine il governo Draghi? Il sistema delle quote pare non convincere quasi nessuno tra partiti e parti sociali.

Cos’è il consorzio: tipologie e cause di scioglimento

Quando un’impresa si rende conto di non poter raggiungere, con le proprie forze un obiettivo, valuta la possibilità di unirle con quelle di altre, nel tentativo di unire le risorse, le strutture, le idee e la manodopera di tutte per formare un consorzio.

Il contratto di consorzio

I partecipanti a un consorzio sono aziende che svolgono la stessa attività o le cui attività sono collegate. Basti pensare ai consorzi agricoli o alimentari.

Ma esistono anche consorzi misti, che coinvolgono oltre alle imprese, anche enti pubblici ed enti privati. Il consorzio è un contratto plurilaterale con scopo comune, esso viene disciplinato dal nostro codice civile per quanto concerne l’organizzazione e la forma.

All’interno del contratto devono essere indicati: l’oggetto, la durata, la sede dell’ufficio (se presente), gli obblighi e i contributi dei membri del consorzio, le condizioni di ammissione, i casi di recesso ed esclusione; le sanzioni per l’inadempimento degli obblighi.

Il contratto di consorzio non può essere modificato, a meno che non ci sia la volontà di tutte le parti di farlo. Le modifiche vanno messe per iscritto, pena di nullità.

Tipologie di consorzio

La legge prevede diverse tipologie di consorzi che il codice civile regola in modo diverso:

Consorzio interno: gli imprenditori partecipanti regolamentano tutte le attività e le fasi delle imprese consorziate: non hanno soggettività giuridica, né autonomia patrimoniale.

Consorzio con attività esterna, l’organizzazione delle imprese appartenenti è destinata ad attività rivolte all’esterno dello stesso consorzio, il quale è destinato a svolgere attività che lo mettono in relazione con soggetti terzi. In tal caso, il consorzio ha una propria soggettività e un’autonomia patrimoniale.

Esistono anche i consorzi in materia di appalti, nei quali le imprese si uniscono per organizzare e coordinare la partecipazione ad una procedura di appalto. Pertanto, tali consorzi sono autorizzati a presentare offerte a gare e trattative private. Le condizioni sono le stesse previste per la partecipazione delle riunioni di imprese. Infatti, i consorzi devono avere gli stessi requisiti richiesti ai raggruppamenti temporanei di imprese.

Costituzione di un consorzio

Il consorzio è un contratto stipulato da più imprese che hanno la stessa finalità. Per costituire un consorzio si deve scegliere la tipologia a cui aderire.

L’atto costitutivo può essere sottoscritto anche in assenza di un notaio, sotto forma di scrittura privata se si tratta di un consorzio interno. In caso contrario, ovvero di consorzio con attività esterna, l’atto va depositato al Registro delle Imprese entro 30 giorni.

Ogni consorzio deve dotarsi di un fondo costituito dai contributi degli imprenditori partecipanti e dai beni acquistati per mezzo di questi contributi.

I consorzi hanno un regime fiscale che varia a seconda della tipologia, per questo sono tenuti all’adempimento degli obblighi fiscali (iscrizione alla Camera di Commercio e apertura di partita IVA, nonché iscrizione all’INPS.

Cause di scioglimento del consorzio

Il consorzio può essere sciolto per scadenza della sua durata (10 anni se non c’è stata una determinazione differente).

Perché l’oggetto per il quale è stato costituito è stato raggiunto o perché è stato impossibile raggiungerlo. Oppure per volontà unanime di tutti i consorziati. Altresì, viene sciolto per deliberazione dei consorziati qualora sussista una giusta causa, così come prevede l’art. 2606 c.c. e infine per provvedimento dell’autorità governativa nei casi ammessi dalla legge o per altre cause previste nel contratto.

 

Concorsi pubblici 2021: 125 funzionari per il MUR, il bando

Il Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) ha pubblicato un bando di concorso volto all’assunzione di 125 funzionari divisi in tre categorie: amministrativo giuridico e contabile, comunicazione e informazione, informazione e statistica.

La selezione del suddetto concorso è riservata ai laureati e dottorati o con master. Le 125 figure professionali saranno assunte con un contratto a tempo indeterminato nell’area funzionale III, posizione economica F1. Bisogna affrettarsi nel presentare la propria candidatura, in quanto l’ultimo termine utile per inviare la domanda di partecipazione al concorso è il 30 ottobre 2021, come precisato nel bando.

Concorso MUR 125 funzionari

Il concorso è per titoli ed esami ed è stato indetto per inquadrare 125 unità di personale non dirigenziale, cosi suddivise:

  • 85 funzionari: profilo professionale amministrativo giuridico e contabile;
  • 10 funzionari: profil0 professionale comunicazione e informazione;
  • 30 funzionari: profilo professionale informazione e statistica.

Requisti di ammissione al concorso

Per candidarsi e partecipare al concorso MUR volto all’assunzione di 125 funzionari si deve essere in possesso dei consueti requisiti generali richiesti da tutti i concorsi pubblici, ossia: essere cittadino italiano o di uno degli Stati membri UE; aver compiuto la maggiore età; godere dei diritti civili e politici; non essere mai stato destituito o decaduto da un pubblico impiego; non aver riportato condanne penali; idoneità allo svolgimento del ruolo di funzionario; Diploma di Laurea del vecchio ordinamento (DL), Laurea Magistrale (LM) oppure Laurea Specialistica (LS) rilasciati da Università statali e non statali accreditate dal Ministero dell’Università e della Ricerca; Dottorato di ricerca oppure master universitario di secondo livello oppure diploma di scuola di specializzazione post – universitaria.

Ad ogni profilo corrisponde un titolo di studio specifico di cui essere in possesso entro la scadenza del termine della domanda di partecipazione.

QUI TROVI IL BANDO con tutte le informazioni utili riguardanti il concorso MUR 125 funzionari, compresi tutti i titoli di studio richiesti come requisiti di partecipazione per ricoprire i ruoli di:

  • Funzionario amministrativo giuridico e contabile
  • Funzionario per la comunicazione e per l’informazione
  • Funzionario informatico – statistico

Prove d’esame del c0ncorso MUR per 125 posti

Il punteggio massimo assegnabile ad ogni candidato è di 30/30, con riferimento alla valutazione dei titoli, alla prova orale, all’attività di lavoro e formazione, alla prova scritta.

La domanda

Il bando di concorso suddetto scade alle ore 18 del 30 ottobre 2021. Per candidarsi e partecipare al suddetto concorso bisogna compilare l’apposito modulo e inviarlo esclusivamente per via telematica all’indirizzo https://concorsi.mur.gov.it/. Per accedere alla piattaforma è necessario utilizzare lo SPID. Il candidato deve essere munito di PEC.

Cos’è il MUR

Da non confondere con il MIUR, il MUR (Ministero dell’università e della ricerca) è un dicastero del governo italiano. Esso si occupa di amministrare l’università e la ricerca scientifica e tecnologica dell’Italia. L’attuale ministra è Maria Cristina Messa (dal 13 febbraio 2021).

Il suddetto Ministero è organizzato, principalmente, in cinque Direzioni Generali (delle istituzioni della formazione superiore; degli ordinamenti della formazione superiore e del diritto allo studio; della ricerca; dell’internazionalizzazione e della comunicazione; del personale, del bilancio e dei servizi strumentali) e in un Segretario Generale. Altri organi di rappresentanza si sono aggiunti nel corso degli anni (CUN, CNAM, CNSU, CNVSU, CIVR, CNSI).

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Categoria protetta e licenziamento: è possibile licenziare il dipendente?

Nel mondo del lavoro esistono particolari tutele, come quelle delle categorie protette. Si tratta della tutela più importante prevista dal Diritto del Lavoro ed è relativa all’inserimento di un numero di posti riservato alle persone appartenenti a questa categoria.

Le categorie protette sono previste dalla legge n. 68 del 1999, in cui vi rientrano tutte le persone affette da disabilità o invalidità. Ci riferiamo agli invalidi di guerra e civili di guerra, ai non udenti, non vedenti, invalidi per servizio, ma anche orfani e coniugi di grandi invalidi o deceduti in guerra o lavoro, coniugi e figli di profughi italiani rimpatriati.

Puoi leggere anche l’approfondimento su: chi ha diritto all’assunzione come categoria protetta.

E’ possibile licenziare un lavoratore in categoria protetta?

Quanto sopra indicato, vuol dire che non è possibile licenziare un lavoratore appartenente a una categoria protetta? La risposta è “NO”. In realtà, è possibile licenziare un dipendente che rientra nelle predetta categoria, ma solo in determinati casi. E’ l’art. 10 della legge sopra indicata a disciplinarlo. Inoltre, a chiarire la situazione è intervenuta più volte la Corte di Cassazione con l’emissione di precise sentenze.

I casi in cui si può licenziare un dipendente in categoria protetta

Tutti i lavoratori, e non fanno eccezioni i dipendenti appartenenti alle categorie protette, possono essere licenziati per giusta causa. Ricordiamo che essa ricorre quando il lavoratore alle dipendenze di un datore di lavoro, assume un grave comportamento tale o si mostra inadempiente da non permettere la prosecuzione del rapporto di lavoro, in quanto viene scalfita irrimediabilmente il rapporto di fiducia. E’ pur vero, che spetta sempre al tribunale stabilire la sussistenza dei fatti.

LEGGI ANCHE: Licenziamento giusta causa, quando ricorre e come impugnarlo

Il dipendente appartenente alle categorie protette può essere licenziato anche per giustificato motivo oggettivo e soggettivo. Quindi, per necessità di riduzione del personale da parte del datore di lavoro o per l’aggravamento delle condizioni di salute del lavoratore, tale da non consentire la prosecuzione dell’attività e contemporaneamente non sussiste la possibilità di affidargli un’altra mansione per ricollocarlo in un altro settore o reparto dell’azienda.

Tuttavia, è bene precisare che il licenziamento per riduzione del personale o per giustificato motivo oggettivo può venire annullato se, in seguito al licenziamento, il numero dei dipendenti alle categorie protette assunti è minore della quota di riserva, così come stabilito dall’art. 3 della legge n. 68 del 1999.

Aggravamento

Nel caso di aggravamento delle condizioni di salute del dipendente appartenente alle categorie protette oppure a causa di rilevanti modifiche nell’organizzazione aziendale, il datore di lavoro può chiedere agli organi competenti l’accertamento dell’idoneità del dipendente alla mansione. Se il lavoratore alle sue dipendenze non dovesse risultare idoneo, quest’ultimo acquisisce il diritto alla sospensione dal lavoro senza ricevere alcun stipendio, sino al momento in cui le condizioni di salute dovessero migliorare e rendere possibile un reinserimento.

Diversamente, se l’aggravamento resta tale, rendendo impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro, in quanto non consente al dipendente in categoria protetta di far fronte alla propria attività di lavoro, quindi, diventa impossibile reinserirlo anche in altri reparti aziendali, il licenziamento è legittimo. Lo stesso discorso vale dopo le variazioni avvenute all’interno dell’organizzazione del lavoro, nonostante tutti i tentativi di reinserimento per lo svolgimento di altre mansioni.

A supporto della legge sono arrivate anche delle sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione Civile che ha dichiarato legittimo il licenziamento di dipendenti appartenenti alle categorie protette, una volta dimostrata l’impossibilità del dipendente anche a svolgere compiti lavoratori minori.

Licenziamenti collettivi

I lavoratori appartenenti alle categorie protette sono tutelati qualora sia attuata una riduzione del personale da parte del datore di lavoro, licenziamento collettivo, o soppressione del posto di lavoro avvenuto per ragioni economiche. Infatti, in tali casi, il dipendente non può essere licenziato se, a seguito di questa decisione, in azienda resta un numero di lavoratori affetti da disabilità o invalidità, inferiore alla quota di riserva prevista dalla legge suddetta.

Associazione temporanea di imprese: come funziona e cos’è

Qualsiasi imprenditore che vuole far crescere la propria azienda per espanderla ha bisogno di risorse o strutture, le quali non sempre sono disponibili a sufficienza. Per ovviare a questa mancanza esiste l’associazione temporanea di imprese: vediamo di cosa si tratta.

Cos’è e come funziona un’associazione temporanea di imprese

ATI è l’acronimo di associazione temporanea di imprese, si tratta di un gruppo che decide di mettere insieme tutte le loro risorse al fine di poter perseguire gli scopi che si sono prefissati come altrimenti non avrebbero potuto raggiungere da sole.

La collaborazione è comunque temporanea, una sorta di joint venture dedita alla cooperazione tra imprese di importanti e piccole dimensioni. Può capitare che ci sia una grande commessa che un’impresa non abbia le risorse o le strutture necessarie per farvi fronte. E’ proprio questo il caso in cui varie imprese decidono di associarsi unendo le forze del personale e gli strumenti per affrontare questa commessa a cui, altrimenti, la singola impresa avrebbe dovuto rinunciare.

Un altro grande vantaggio dell’associazione temporanea di imprese è di portare avanti un lavoro senza bisogno di creare un’altra società con tutte le conseguenze e i costi del caso.

Appalti pubblici

L’associazione temporanea di imprese mira a uno scopo specifico: aggiudicarsi un appalto pubblico. Diversamente, le piccole imprese, prese singolarmente, non potrebbero permettersi di partecipare a causa delle limitate risorse, ma ecco che come si suol dire “l’unione fa la forza” e tutte le garanzie possono essere poste sul tavolo dell’ente pubblico con buone possibilità di vincere la gara.

Costituzione ATI

A questo punto, la domanda sorge spontanea: “come costituire un’associazione temporanea di imprese?”. La prima mossa non può che farla chi ha ricevuto la commessa e non ha i mezzi per soddisfarla. Partono le chiamate per contattare altre imprese ed eventualmente prendere accordi. Lo si fa sottoponendo una pianificazione dove vengono indicati i diritti e i doveri di ogni impresa partecipante. Non capita di rado che si debba mettere mano al programma originale per apportare delle modifiche su chi è disposto o meno ad accettare dei compiti e a prendere degli impegni specifici.

Una volta raggiunto l’accordo comune, si deve formalizzare l’atto costitutivo della A.T.I. nominando un rappresentante legale, il tutto in presenza di un legale o di un commercialista che di solito lo redigono, ma la redazione può anche essere a carico dell’impresa che ha maturato l’idea di formare un’associazione temporanea di imprese.

Poiché si tratta di un atto costitutivo, è necessaria l’autenticazione di un notaio. L’associazione temporanea di imprese infatti, si costituisce per scrittura privata autenticata. Può essere anche il notaio ad assumersi il compito di redigere l’atto, in sostituzione del commercialista o del legale, ma in tal caso i costi lieviterebbero.

Tutti i partecipanti all’ATI conferiscono con un unico atto, il potere di rappresentanza ad un’impresa che funge da capo gruppo, la stessa che avrà a che fare con la stazione appaltante.

I costi

Non c’è un importo preciso che indichi il costo dell’atto costitutivo, dipende da quante imprese sono coinvolte nell’associazione temporanea, dalla complessità dell’atto. Come abbiamo detto, quest’ultimo avrà un costo nettamente superiore al normale, se dovesse essere redatto da zero dal notaio. In ogni caso, il costo è sicuramente minore a quello relativo la costituzione di un qualsiasi altro tipo di unione di imprese. Ovviamente, il carattere dell’associazione è temporaneo, in quanto si conclude con il termine dei lavori.

Tipi di struttura

Le associazione temporanee di imprese possono essere di diversi tipi per struttura:

  • Verticale: il mandatario si occupa delle opere della categoria principale oppure fornisce attrezzature e macchinari principali. Invece, i mandanti invece hanno l’obbligo di portare a termine i lavori secondari. Questo tipo di associazione è fattibile solamente dove è prevista la determinazione di lavori principali e secondari.
  • Orizzontale: tutte le imprese appartenenti all’ATI hanno le stesse competenze e doveri per lo svolgimento dei lavori;
  • Misto: si tratta di un mix tra struttura verticale e orizzontale, ma imperfetto. Infatti, essenzialmente c’è un’unione di tipo verticale dove lo svolgimento di lavori di singole categorie o prestazioni si affidano a sub-associazioni di tipo orizzontale.

IVA esposta per acquisto auto usata: cosa significa

Quando si acquista un’auto usata o a chilometri zero, può capitare di leggere la scritta ‘IVA esposta’, cosa significa? Normalmente l’IVa sulle auto è fissata al 22% ed è un vantaggio per commercianti, piccoli professionisti e per tutti gli altri titolari di partita IVA che possono scaricarla.

Solitamente l’IVA si paga solo sulle auto di nuova immatricolazione, ovvero dove non è già stata scaricata. A questo punto, entra in gioco la questione dell’IVA esposta che in alcuni casi riguarda anche le auto usate.

Cosa significa IVA esposta

C0n la scritta IVA esposta si indica che il venditore può emettere una fattura su un veicolo usato oppure a km zero. Così facendo, l’acquirente titolare di partita IVA può scaricare l’imposta sul valore aggiunto al 22%, nonostante non si tratti di una vettura di nuova immatricolazione.

Le auto usate ma con IVA esposta vengono solitamente vendute da professionisti, quindi, autosaloni e concessionari: un privato che abbia comprato una macchina e che decidesse di venderla, non potrebbe garantire l’IVA esposta.

IVA auto e legge 104

Un esempio dell’IVA esposta riguarda anche i disabili che fruiscono della legge 104, la quale prevede che le persone disabili possano fruire di un’imposta sostitutiva agevolata al 4%. Comprando un’auto di 15.000 euro (IVA inclusa), l’imposta risulterebbe essere 3.300 euro, ma in questo caso si andrebbe a calcolarla al 4%, quindi 600 euro per un totale di 12.300 euro.

Per quanto concerne l’IVA per acquisto di vetture estere, nel caso di auto nuove, esse sono soggette all’applicazione dell’aliquota IVA applicata nel paese di destinazione, in caso di auto usata, l’imposta sarà compresa nel prezzo di vendita, quindi non da versare nel paese di destinazione.

Concetto di IVA esposta

A prescindere dalle auto, la dicitura IVA esposta può trovarsi negli annunci di vendita online. Ovviamente, la cosa assume rilevanza solo per chi possiede una partita IVA, tutti gli altri possono comprare quel bene ma senza che quella dicitura abbia per loro rilevanza.

Per risparmiare, molti cercano di acquistare beni usati, si può spaziare dalle automobili fino agli immobili, passando per gli elettrodomestici, mobili e via discorrendo.

Se tu vuoi comprare un mobile di 5.000 euro che riporti la scritta IVA esposta, vuol dire che l’IVA è già compresa nel prezzo. Motivo per cui, stai pagando 3.900 euro il mobile e 1.100 euro di IVA, ciò significa che quei 1.100 euro li puoi scaricare se sei possessore di un partita IVA. Solo in qualche caso, può capitare che venga specificato, come quel bene sia in vendita solo per un titolare di partita IVA.

Infermieri partita IVA: come aprirla, il regime fiscale e l’ENPAPI

Se dovessimo immaginarci la figura dell’infermiere, lo vedremmo nella sua classica divisa a lavorare in una corsia d’ospedale. In realtà, sarebbe sbagliato soffermarsi solo sul profilo da lavoratore assunto con un contratto a indeterminato, o comunque come un lavoratore subordinato.

L’infermiere professionista

Infatti, l’infermiere di oggi è un professionista a tutti gli effetti, laureato in scienze infermieristiche, con un lungo tirocinio svolto, e con un esame di abilitazione da affrontare e superare per iscriversi al relativo Albo. Non a caso, l’infermiere appartiene al gruppo delle professioni sanitarie, con la possibilità di scegliere se fare il dipendente in una struttura pubblica o privata, oppure se esercitare da libero professionista.

L’infermiere professionale può lavorare negli ospedali, ma anche nelle scuole, in associazione sportive e nelle comunità composta da tossicodipendenti o da pazienti psichiatrici.

Molto spesso, l’infermiere opera anche a domicilio, chiamato per la somministrazione dei farmaci, per seguire il decorso post operatorio di un paziente, per fare medicazioni etc.

Infermiere: come aprire partita IVA

L’infermiere che vuole esercitare la propria attività non da lavoratore subordinato, deve aprire la partita IVA e può farlo in pochi e semplici passi online. Per sicurezza, può avvalersi di una consulenza che lo guida negli step che lo porteranno a svolgere l’attività di infermiere libero professionista.

Come per tutte le attività economiche svolte con partita IVA, anche quella da infermiere professionista prevede l’attribuzione di un codice ATECO che nel caso specifico è 86.90.29 che comprende tutte le attività paramediche indipendenti nca (non classificato altrove).

Dovrà poi comunicare all’Ordine l’avvio della propria attività da libero professionista. Iscriversi all’Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza della Professione Infermieristica (ENPAPI) per quanto riguarda il versamento dei contributi. Ciò deve avvenire entro 60 giorni dall’apertura della partita IVA. La Cassa previdenza infermieri prevede delle riduzioni durante i primi quattro anni di apertura della partita IVA.

L’infermiere professionista deve fare un’Assicurazione responsabilità Civile, seguire un corso professionale di formazione costante e obbligatoria (ECM – Educazione continua in Medicina) uguale a quella di tutti gli operatori sanitari, che siano professionisti o dipendenti.

Effettuare la scelta del regime fiscale con cui operare.

Scelta del regime fiscale

L’infermiere professionista deve scegliere il regime fiscale. Solitamente, poiché le spese da scaricare sono esigue, si opta per il regime forfettario o per la contabilità semplificata. Brevemente, il regime forfettario è comunque il più adeguato per le piccole partite IVA. Esso prevede un’aliquota start-up al 5% sul reddito imponibile per i primi cinque anni di attività, per chi ne possiede i requisiti, per poi passare al 15%, sempre che i redditi rimangano sotto i 65.000 euro.

Il regime forfettario opera in base ai coefficienti di redditività che per gli infermieri è del 78%. Ciò vuol dire che contributi e tasse saranno pagati sul 78% degli incassi. L’unico costo che può abbassare l’imponibile fiscale è il pagamento dei contributi ENPAPI.

Quanto costa l’ENPAPI

I contributi si suddividono in tre tipologie: soggettivo, integrativo, maternità’.

  • Il contributo soggettivo viene calcolato in base al reddito dichiarato nella dichiarazione dei redditi e per il 2021 è pari al 16%. Esso ha un importo minimo che deve essere pagato anche in assenza di incassi, attualmente pari a 1.600 €. Se hai meno di 30 anni puoi chiedere la riduzione del 50% dei contributi soggettivi.
  • Il contributo integrativo è del 4% e deve essere aggiunto al tuo compenso in tutte le fatture che emetterai.

Il contributo maternità è versato una tantum e viene stabilito annualmente.

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Microimpresa: cos’è, limiti e vantaggi

Si sente spesso parlare di microimpresa, ma cosa la differenzia dagli altri tipi di impresa? L’appellativo “micro” già lascia intendere molte cose, ad esempio che stiamo parlando di una impresa molto piccola condotta dal classico piccolo imprenditore. Spesso, sono proprio le microimprese a poter beneficiare di qualche agevolazione concessa come incentivo per continuare l’attività e pensare, magari, in un secondo momento di espandersi.

Definizione di microimpresa

E’ l’ordinamento europeo a dare la definizione di micro impresa, ma riguarda anche tutti i tipi d’impresa. In sintesi, la commissione UE dal 2003 ha definito i vari status.

Innanzitutto, l’impresa è considerata un’entità che esercita un’attività economica. Solitamente, viene individuata come tale, un’entità che esercita un’attività artigianale o altre attività a titolo individuale o familiare, le società di persone o le associazioni che esercitano un’attività economica.

Quando si legge o si sente parlare di PMI, si vogliono indicare le microimprese e le piccole e medie imprese che hanno meno di 250 dipendenti, con un fatturato annuo che non supera i 50 milioni di euro o che presentano un bilancio non superiore ai 43 milioni.

Nello specifico, la piccola impresa occupa meno di 50 persone, con un fatturato annuo che non supera i 10 milioni di euro. La microimpresa, invece, deve occupare meno di 10 persone e conseguire un fatturato fino a 2 milioni di euro.

I vantaggi delle microimprese

Appartenere alle PMI e soprattutto alla microimpresa, vuol dire fruire di molte misure di sostegno all’economia e al mondo dell’impresa messe a disposizione dalle istituzioni pubbliche nazionali o locali, rivolte specificatamente ad esse. A livello regionale sono molte le iniziative adottate a favore delle PMI in generale, ad esempio il microcredito e altre agevolazioni di tipo finanziario.

A livello nazionale, esiste il Fondo di Garanzia per le PMI istituito dal MISE. Tale strumento ha la funzione di agevolare l’accesso al credito tramite la concessione di una garanzia pubblica che si affianca o sostituisce le reali garanzie che può offrire una micro, piccola o medio impresa.

Grazie alla fruizione del Fondo di Garanzia, la micro impresa può permettersi di evitare il sostenimento dei costi legati a fideiussioni o polizze assicurative che rappresentano delle garanzie aggiuntive. Il Fondo funge, dunque, da garante per i finanziamenti ottenuti dalle banche.

La microimpresa, ma non solo, costituisce in Italia una grande possibilità di offrire lavoro e di creare profitto.

Inoltre, una microimpresa non emette titoli sui mercati regolamentati e che, nel primo esercizio e successivamente per gli altri due esercizi, non deve aver superato due dei tre limiti dimensionali seguenti:

  • Totale attivo stato patrimoniale: euro 175.000;
  • Ricavi di vendite e prestazioni: euro 350.000;
  • Media dipendenti occupati durante l’esercizio: 5.

Come fare a diventare venditore ambulante?

Vuoi intraprendere una nuova attività e ti alletta l’idea di fare il venditore ambulante? Ecco cosa ti serve e se ci sono requisiti specifici.

Diventare venditore ambulante: titoli di studio

Se vuoi diventare un venditore ambulante è necessario essere in possesso di determinati titoli di studio. La prima possibilità è quella di conseguire il diploma di scuola alberghiera o frequentare un corso di formazione che riguarda specificatamente il settore alimentare, nel caso si voglia aprire una bancarella di vendita di generi alimentari ottenendo il relativo documento.

Per definizione il venditore ambulante è colui che esercita la propria attività di vendita non in un posto fisso, ma solitamente nei posti dove hanno luogo feste di piazza, fiere, mercati quotidiani o settimanali in certe zone o che si svolgono in estate o nel corso di manifestazioni musicali e sportive. Oltre ai titoli di studio suddetti, si devono ottenere permessi e licenze per diventare venditori ambulanti.

I passaggi da eseguire per diventare venditore ambulante

Dopo essere entrato in possesso del diploma di scuola alberghiera o se si vuole vendere prodotti alimentari, aver conseguito il certificato che indica il numero di ore frequentato nell’apposito corso con il nome dell’istituto che lo ha rilasciato, il venditore ambulante deve aprire una partita IVA che viene rilasciata dall’Agenzia delle Entrate. Dopodiché, deve procedere con l’iscrizione alla Camera di Commercio presso l’Ufficio del Registro, compilando il modulo R e versando il diritto camerale annuo di 90 euro. Inoltre, bisogna iscriversi all’INPS per il versamento dei contributi previdenziali e aprire una posizione INAIL.

Dopo aver eseguito tutti i passaggi predetti, se necessario, con l’aiuto di un esperto, si è diventati venditori ambulanti. Ma si può cominciare ad esercitare immediatamente?

Licenze e permessi per fare il venditore ambulante

Dopo aver conseguito i titoli di studio necessari e aver effettuato tutti gli step di cui sopra per diventare a tutti gli effetti un venditore ambulante, si devono ottenere i permessi e le licenze per cominciare l’attività di vendita aprendo una bancarella al mercato od a una fiera e via discorrendo.

Le licenze variano in base alla regione di appartenenza, in quanto ognuna ha le sue regole che consentono il commercio al dettaglio su un’area pubblica destinata a questo tipo di attività, siano che si tratti di generi alimentari sia di altri prodotti da vendere.

Esistono due tipi di licenze:

  • Tipo A: ti permette di diventare venditore ambulante con posto fisso, quella per cui hai una postazione assegnata in un mercato, un evento fieristico in un giorno definito della settimana. Questa licenza ti consente di svolgere attività itinerante in tutto il territorio regionale e di vendere i tuoi prodotti in tutte le ferie italiane. La licenza A va chiesta al Comune dove intendi svolgere la tua attività che ti permette di avere un posto fisso al mercato, quindi a tanti Comuni e per tanti mercati.
  • Tipo B: ti permette di esercitare la tua attività ambulante di vendita in modo itinerante in tutta Italia, quindi senza posto fisso nei mercati o nelle fiere. Ti autorizza a utilizzare i posti che trovi liberi, per un massimo di due ore. La peculiarità di tale licenza è che ti consente di vendere anche al domicilio del consumatore e devi richiederla soltanto presso il tuo Comune.

Requisti per ottenere la licenza di venditore ambulante

Oltre alle procedure da compiere sopra indicate, il venditore ambulante ottiene la licenza se è in possesso del requisito morale, ovvero non risulta condannato o comunque non ha problemi con la giustizia.

Il requisito professionale serve per la vendita di prodotti alimentari. Esso si ottiene se possiedi un attestato di frequenza a un corso regionale specifico del settore alimentare. Oppure se hai già lavorato per almeno cinque anni in questo settore, in proprio o come dipendente. Oppure se possiedi un diploma alberghiero o equivalente, o una laurea dove si studiano materie attinenti al commercio e la somministrazione di alimenti.

I costi

La licenza ha un costo irrisorio, ma ad esso devi aggiungere il costo del canone relativo al posteggio che si calcola in base a quanti metri occupi moltiplicandoli per il costo/mq.

Come evitare le procedure di rito per vendere?

Se vuoi evitare di aprire partita IVA, quindi di avere a che fare con la Camera di Commercio, l’INPS e l’INAIL, puoi farlo solo svolgendo un’attività di vendita occasionale, molto sporadica, fatta per piccoli guadagni e che puoi svolgere per questi motivi senza chiedere una licenza.