Eredità azienda di famiglia, ecco come gestire il passaggio generazionale

Per un’azienda di famiglia, nell’ambito del diritto successorio, è possibile gestire in Italia il passaggio generazionale da vivi? La risposta è affermativa in quanto, a partire dal 2006, nel nostro Paese, ed in particolare nell’ordinamento giuridico, sono stati introdotti i cosiddetti patti di famiglia.

Il patto di famiglia, nello specifico, permette all’imprenditore, che in genere è il capofamiglia, di trasferire da vivo la proprietà dell’azienda ad uno o più discendenti. Senza che, in questo modo, possano poi esserci delle contestazioni in sede di eredità.

Come funzionano i patti di famiglia per gestire ai sensi di legge il passaggio generazionale

Il patto di famiglia, essendo in tutto e per tutto un atto pubblico, si stipula dinanzi al notaio, e sancisce il trasferimento dell’impresa di famiglia con effetto immediato. Pur tuttavia, il capofamiglia che detiene tutte le quote dell’impresa non può presentarsi dal notaio da solo. Ma devono essere presenti pure e comunque almeno tutti coloro che sono i potenziali e legittimi beneficiari. Per esempio, nella stipula di un patto di famiglia deve essere presente il coniuge ed i figli. Come se in quel momento non si dovesse far altro che aprire la successione.

I legittimari, nell’ambito della stipula di un patto di famiglia, possono rinunciare in tutto o in parte alle quote spettanti dell’impresa di famiglia. Oppure possono ottenere, sempre in ragione delle quote spettanti, la liquidazione da parte degli altri legittimari. Una liquidazione che può essere in denaro ma anche in natura. Ovverosia, ricevendo altri beni al posto del cash.

Eredità azienda con patto di famiglia, cosa può succedere all’apertura della successione?

All’apertura della successione, il patto di famiglia stipulato in vita dinanzi al notaio ha piena efficacia. Pur tuttavia, potranno presentarsi nuovi legittimari a chiedere la loro parte spettante. Per esempio, i nuovi figli ma anche un nuovo coniuge. In tal caso, cosa succede? Nella fattispecie, riporta il sito Internet del Consiglio Nazionale del Notariato, i nuovi legittimari avranno il diritto a chiedere la liquidazione in denaro o in natura della parte che spetta loro ai sensi di legge.

Come e quando un patto di famiglia si può sciogliere oppure si può modificare

Sempre in presenza di un notaio, l’atto pubblico che è rappresentato dal patto di famiglia può essere modificato oppure può essere sciolto. In particolare, con la modifica del patto di famiglia originario si va e stipulare, sempre tramite un atto pubblico, il nuovo patto di famiglia. Oppure, se nel patto di famiglia originario è previsto, i legittimari possono pure esercitare il diritto di recesso.

Ma per farlo, con una comunicazione e quindi con una dichiarazione agli altri contraenti il patto di famiglia, servirà sempre la presenza del notaio. Dal punto di vista prettamente normativo, l’istituto giuridico che è rappresentato dal patto di famiglia è disciplinato in Italia dalla Legge numero 55 del 14 febbraio del 2006. Ed anche dal codice civile in corrispondenza degli articoli che vanno dal 768-bis al 768-octies.

Successione d’azienda, ecco tutto quello che c’è da sapere per gestire il passaggio

Quella della successione d’azienda è operazione che è sempre molto delicata, e che spesso può avere delle ricadute anche rilevanti sul piano fiscale. In linea generale, per la successione d’azienda le complessità da affrontare, tra l’altro, sono quelle legate pure al tipo di azienda per la quale c’è da gestire la successione.

Dalla successione d’azienda nel caso di ditta individuale alla successione d’azienda nel caso di società di persone, e passando per la successione d’azienda in caso di società di capitali. Inoltre, cosa accade se per la successione d’azienda gli eredi sono più di uno? Ecco allora tutto quello che c’è da sapere per gestire il passaggio.

Ecco tutto quello che c’è da sapere sulla successione d’azienda

Quando una o più persone ereditano un’aziende causa morte, a valere è il cosiddetto principio di neutralità fiscale. In pratica, i valori di carico dell’azienda nei riguardi degli eredi sono gli stessi di quelli fiscalmente riconosciuti al de cuius.

Inoltre, supponendo la continuazione aziendale, cosa succede se gli eredi di un’azienda sono più di uno? In tal caso questi ai sensi di legge costituiscono una società di fatto che, entro un anno, dovrà poi essere regolarizzata. Ovverosia, andando a costituire una società di capitali oppure una società di persone.

La successione d’azienda in caso di ditta individuale

In caso di ditta individuale, in assenza di testamento, tutti gli eredi sono soci con le quote paritarie. Il passaggio è automatico anche se magari uno degli eredi non è interessato all’attività. Entro un anno, come sopra accennato, la società deve essere regolarizzata con un atto costitutivo. Altrimenti si rischiano delle sanzioni pesanti specie se nella successione d’azienda in caso di ditta individuale ci sono inseriti in patrimonio degli immobili.

La successione d’azienda in caso di società di persone

Per la successione d’azienda in caso di società di persone, per esempio una S.N.C., la situazione potenzialmente si complica in base alle caratteristiche della compagine societaria. E precisamente se trattasi di una S.N.C. che è composta da due soci, oppure di una S.N.C. con figli e con o senza estranei, ovverosia soci senza vincoli di parentela.

Inoltre, per la successione d’azienda in caso di società di persone si guarda sempre ai patti sociali che sono stati stipulati. Per esempio, nei patti sociali di una S.N.C. possono essere state inserite delle clausole di continuazione anche obbligatorie in caso di decesso di uno dei soci. Così come possono essere presenti pure delle clausole di successione che sono automatiche.

La successione d’azienda in caso di società di capitali

Per la successione d’azienda in caso di società di capitali, il principio generale è quello della libera circolazione delle partecipazioni mortis causa. Pur tuttavia, ai sensi di legge, questo principio generale può essere bypassato tramite il testamento oppure in base ai contenuti dello statuto. Per esempio, nelle società per azioni in genere nello statuto c’è la cosiddetta clausola di gradimento. Un diritto di opzione, sostanzialmente, per l’acquisizione delle quote dell’azionista defunto a favore degli soci superstiti.

Riscatto contributi per periodi non versati: come si recuperano per Partita Iva?

L’INPS, Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, nel rispetto di opportuni requisiti, permette di andare a riscattare i contributi previdenziali per i periodi non versati. Si tratta di un’operazione e di una scelta che, in particolare, è alquanto vantaggiosa quando, per la maturazione dei requisiti di pensionamento, mancano poche annualità contributive da versare. Per esempio, per il riscatto contributi per periodi non versati, come si recuperano per chi è titolare di Partita Iva?

Ecco come si recuperano per i titolari di Partita Iva i contributi previdenziali per i periodi non versati

Al riguardo c’è da dire che per i titolari di Partita Iva, l’INPS permette il riscatto dei contributi per i periodi non versati agli iscritti ad una delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi. Inoltre, a differenza dei contributi figurativi, che sono gratuiti, è bene precisare che il riscatto dei contributi per i periodi non versati è sempre e rigorosamente a titolo oneroso. E quindi c’è sempre da pagare.

Ragion per cui, al fine di accelerare la maturazione dei requisiti per andare in pensione, occorre sempre valutare la convenienza dell’operazione a livello economico. La facoltà di riscatto dei contributi per i periodi non versati, tra l’altro, è permessa ed è concessa pure ai superstiti del lavoratore deceduto.

Lavoratori a partita Iva, ecco come si presenta la domanda di riscatto dei contributi previdenziali

La domanda per il riscatto dei contributi per i periodi non versati si presenta online dal sito Internet dell’INPS, oppure recandosi presso l’ufficio dall’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale che è competente per territorio.
La domanda sarà poi lavorata dall’INPS allegando pure tutta la documentazione richiesta. Dopodiché l’Istituto risponderà con una raccomandata. In caso di accoglimento della richiesta, nella lettera recapitata a mezzo posta sarà indicato l’onere di riscatto, e quindi quanto andare e pagare per i periodi non versati tramite i bollettini MAV in banca oppure recandosi alla posta.

I bollettini MAV da pagare, tra l’altro, si possono recuperare e si possono stampare online collegandosi tramite le credenziali al sito Internet dell’INPS prima accedendo al ‘Portale dei Pagamenti’, e poi nella sezione ‘Riscatti ricongiunzioni e rendite’. Oppure, chiamando il contact center dell’INPS, è possibile acquisire i bollettini MAV da pagare, per il riscatto dei contributi per i periodi non versati, con l’invio a mezzo posta elettronica all’indirizzo mail fornito all’operatore.

Come e dove si possono pagare i bollettini MAV per il riscatto dei contributi INPS per i periodi non versati

Oltre che in banca ed alla posta, le somme dovute, per il riscatto dei contributi previdenziali per i periodi non versati, si possono pagare pure dal sito Internet dell’INPS e tramite il contact center muniti di carta di credito. Oppure attraverso il circuito ‘Reti Amiche’ al quale, tra l’altro, aderiscono pure le tabaccherie sparse su tutto il territorio nazionale.

A fronte dei versamenti effettuati, l’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, all’inizio dell’anno solare successivo, invierà poi al titolare di partita Iva, che ha sta riscattando i contributi per periodi non versati, un’attestazione che sarà utile ai fini fiscali.

Come si presenta la dichiarazione di successione integrativa?

Per le dichiarazioni di successione già presentate, ai sensi di legge è possibile effettuare l’integrazione. Ovverosia andando ad aggiungere, per esempio, beni mobili, liquidità e beni immobili. E questo vale non solo per una, ma anche per più dichiarazioni di successione presentate in precedenza. Ed allora, come si presenta la dichiarazione di successione integrativa?

Ecco come si presenta la dichiarazione di successione integrativa e cosa può succedere

Per la presentazione della dichiarazione dei redditi integrativa è necessario recarsi presso l’ufficio territoriale del Fisco dove è stata presentata la prima dichiarazione di successione. Dopodiché, integrando la dichiarazione di successione è molto probabile che ci siano delle tasse aggiuntive da pagare.

Questo succede, per esempio, quando, rispetto alla prima dichiarazione di successione, in quella integrativa sono stati inseriti altri immobili. In tal caso, infatti, in funzione dei nuovi valori, scatterà una maggiore imposizione fiscale che può spaziare dalle imposte ipotecarie e catastali alle imposte di bollo, e passando per eventuali tributi speciali se questi sono dovuti.

Ma c’è pure il caso in corrispondenza del quale nel passaggio dalla prima dichiarazione di successione alla dichiarazione di successione integrativa non ci sono tasse aggiuntive da pagare e quindi da versare al Fisco. Questo accade, per esempio, quando nella dichiarazione di successione integrativa si aggiunge solo liquidità. Nella fattispecie, non sono dovute imposte se, con un massimo fino a 100.000 euro, nella successione il denaro va al coniuge oppure ai parenti in linea retta.

Per evitare, dopo la prima, di presentare poi una o più dichiarazioni di successioni integrative, la soluzione migliore è sempre quella di analizzare bene l’intero asse ereditario sia per il patrimonio mobiliare, sia per quel che riguarda il patrimonio immobiliare. Nel farlo, per esempio, è possibile avvalersi della consulenza legale di un avvocato.

Come e quando si presenta la dichiarazione di successione

Dalla data di apertura della successione, data che in genere coincide con la data del decesso, la dichiarazione di successione, da parte degli eredi, deve essere presentata al Fisco entro un termine massimo di 12 mesi.

Per la presentazione della dichiarazione di successione è possibile recarsi presso l’ufficio competente dell’Agenzia delle Entrate, oppure gli eredi possono presentare la dichiarazione di successione direttamente online utilizzando i canali telematici che sono messi a disposizione dal Fisco. Oppure ancora, la dichiarazione di successione può essere presentata all’Agenzia delle Entrate avvalendosi del supporto, dell’assistenza e della consulenza da parte di un intermediario abilitato.

Per la trasmissione online della dichiarazione di successione, il Fisco mette a disposizione dei contribuenti un apposito software che, attualmente, è aggiornato alla versione 2.0.2 del 25 marzo del 2021. Si tratta, nello specifico, del ‘Software di compilazione – Dichiarazione di successione e domanda di volture catastali‘.

Il software, fa sapere l’Agenzia delle entrate attraverso il proprio sito Internet, è compatibile per i seguenti sistemi operativi: Windows 10, Windows 8 e Windows 7; Mac OS X 10.7.3 e versioni superiori; e pure per il sistema operativo Linux optando possibilmente per le distribuzioni Fedora, Ubuntu e Red-hat 9. Per l’uso del software, inoltre, è necessario avere installato sul PC un applicativo che legge e che stampa i file in formato PDF.

Come richiedere estratto di ruolo Agenzia delle Entrate?

Per chi ha tasse non pagate al Fisco, come si fa a conoscere, senza ombra di dubbio, quella che è la propria situazione debitoria complessiva? Al riguardo c’è un documento che, da richiedere presso l’Agenzia Entrate-Riscossione, permette di fare chiarezza. Si tratta, nello specifico, del cosiddetto estratto di ruolo che non è altro che quel documento che, qualche anno fa, era definito come l’estratto conto Equitalia. Ed allora, come richiedere estratto di ruolo Agenzia delle Entrate?

Ecco come richiedere anche online l’estratto di ruolo all’Agenzia delle Entrate-Riscossione

Tutti i contribuenti, in qualsiasi momento, possono chiedere l’estratto di ruolo presentandosi presso l’Agenzia delle Entrate-Riscossione, e compilando l’apposito modulo. Oppure, comodamente online, è possibile acquisire l’estratto di ruolo informatico accedendo tramite credenziali al sito Internet dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione. Ovverosia muniti di Carta Nazionale dei Servizi, di credenziali INPS, di Sistema pubblico di identità digitale (SPID) oppure con le credenziali di accesso a Fisconline.

C’è pure una terza via per richiedere l’estratto di ruolo all’Agenzia delle Entrate-Riscossione. Ed è quella di compilare e di sottoscrivere il modulo di richiesta dell’estratto di ruolo, scansionarlo e poi inviarlo a mezzo PEC all’indirizzo di posta elettronica certificata dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione. Con tempi di acquisizione del documento che in questo caso saranno decisamente più lunghi in quanto il Fisco dovrà poi gestire la pratica manualmente.

L’estratto di ruolo Agenzia delle Entrate-Riscossione, inoltre, oltre che in proprio si può acquisire pure delegando terze parti. E precisamente avvalendosi dell’assistenza, della consulenza e del supporto di un intermediario abilitato. Per esempio, rivolgendosi al proprio commercialista di fiducia che acquisirà il documento cartaceo o informatico per delega.

Oppure anche un’altra persona delegata può recarsi presso un qualsiasi ufficio dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione al fine di ottenere l’estratto di ruolo di un altro contribuente. Ma a patto che nel modulo da compilare siano indicati i dati chi lo richiede per conto di terzi. Per esempio, se si tratta del tutore, del curatore o del legale rappresentante. Ed allegare al modulo da presentare all’ufficio delle Entrate-Riscossione pure la copia di un documento di riconoscimento in corso di validità.

Come contestare l’estratto di ruolo in caso di cartelle esattoriali che non sono state mai notificate

Nell’acquisire l’estratto di ruolo, il contribuente può poi incappare nella brutta sorpresa di avere un debito fiscale per cartelle esattoriali che non ha mai ricevuto in quanto queste non sono state notificate. In tal caso l’estratto di ruolo è impugnabile. Ovverosia, il contribuente può avviare una contestazione. Ed il tal caso dovrà essere l’Agente di riscossione a dover dimostrare l’avvenuta notifica delle cartelle esattoriali.

Nell’estratto di ruolo che viene rilasciato dall’ente creditore, nello specifico caso dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione, tra le informazioni presenti c’è infatti pure la data di avvenuta notifica al contribuente di ogni atto. Con specificato se si tratta, per esempio, di un avviso di accertamento oppure di una cartella di pagamento. Inoltre, nell’estratto di ruolo dell’ente creditore c’è sempre il dato sull’importo del carico complessivo iscritto a ruolo, e l’importo del debito residuo alla data di redazione dell’estratto stesso.

Come si deposita un testamento olografo?

Tra i tipi di testamento validi in Italia, così come è previsto dal codice civile in corrispondenza dell’articolo numero 602, c’è pure quello olografo. Che presenta la caratteristica di essere stato scritto per intero, datato ed anche sottoscritto di proprio pugno dal testatore. Con la conseguenza che il testamento olografo non è tale se la calligrafia non è quella del testatore. Ma detto questo, come si deposita un testamento olografo?

Ecco come si deposita correttamente un testamento di tipo olografo

Al riguardo c’è da dire, prima di tutto, che quella del deposito di un testamento olografo non è un’operazione obbligatoria ai fini ed ai sensi di legge. Se redatto correttamente, infatti, il testatore può conservare il testamento olografo in un posto sicuro, oppure questo può essere affidato ad una persona di fiducia quando si teme che questo possa andare smarrito o magari possa essere sottratto. In alternativa, e comunque senza che ci sia mai l’obbligo, il testatore può tutelarsi depositando il testamento olografo presso un notaio.

Ed in tal caso, dopo la morte del testatore, sarà proprio il notaio a rendere nota e quindi pubblica l’esistenza del testamento olografo ed a rendere note le ultime volontà del defunto. Inoltre, è bene precisare che il testamento olografo può essere depositato dal notaio e se solo se il testatore in vita, e mai per delega o per interposta persona. In altre parole, nessuno può essere titolato a depositare presso un notaio il testamento olografo altrui.

Testamento olografo anche senza il notaio, è valido ma rispettando opportune condizioni

Per redigere e per depositare un testamento olografo, quindi, non c’è bisogno della presenza di un notaio. Così come quando il testatore lo scrive di proprio pugno non ha mai bisogno di farlo in presenza di testimoni. Inoltre, per la scrittura di un testamento olografo non c’è un modello o uno schema da seguire. Il testatore può infatti redigerlo liberamente e produrrà i suoi effetti solo dopo la morte. Ma a patto che dal documento, senza discrezionalità, si possano desumere quelle che sono le reali volontà del defunto. Lo schema più comune e diffuso, per la scrittura di un testamento olografo, è quello che porta a redigerlo in forma di lettera.

Il testamento, inoltre, deve essere un testo scritto interamente di pugno dal testatore. E quindi, pena la nullità, non possono esserci per esempio delle parti che sono scritte a macchina. Così come il testamento olografo, rispettate tutte le altre condizioni, è valido se è riportato il giorno, il mese ed anche l’anno in corrispondenza del quale è stato scritto. Così come al termine di tutte le disposizioni riportate nero su bianco il documento deve essere firmato sempre e solo da chi lo ha redatto.

Ai sensi di legge per la firma, inoltre, il testatore può essere identificato non solo con il proprio nome e cognome. Il testatore di proprio pugno, infatti, può anche firmare il testamento olografo con un vezzeggiativo. Oppure con uno pseudonimo se la persona magari è conosciuta dalla comunità in quel modo.

Cosa significa rapporti non contestati?

Nella Centrale dei Rischi della Banca d’Italia i dati e le informazioni che sono raccolte sono soggette ad una classificazione. Sulla base di un modello di rilevazione dei rischi, infatti, in CR emergono quelli che, per i crediti, sono i rapporti tra l’intermediario segnalante, che può essere una banca oppure una società finanziaria, ed il soggetto segnalato che, per esempio, può essere un privato cittadino oppure una piccola o media impresa.

Ecco cosa significa rapporti non contestati per i crediti in Centrale Rischi

In queste categorie di censimento possono rientrare pure i cosiddetti rapporti non contestati. Ma cosa sono i rapporti non contestati, e cosa significa? Al riguardo c’è da dire, in linea generale, che i rapporti si definiscono non contestati quando per questi, ai fini della risoluzione delle controversie, non c’è stato alcun intervento da parte di un’autorità giudiziaria al fine di dirimere la lite.

Riferito al credito, quindi, il rapporto non contestato è tale che il credito dovrebbe essere o comunque in Centrale dei Rischi è ritenuto essere esigibile. O quantomeno non ci sono informazioni tali per cui si possa ritenere che il credito, per esempio, possa essere invece in sofferenza o addirittura è passato a perdita.

L’importanza di rapporti non contestati per i privati e per le imprese

La presenza di rapporti non contestati è importante per un privato che, nell’accedere al credito, paga puntualmente le rate dei mutui, dei prestiti e dei finanziamenti. Ed è altrettanto importante per un’azienda. E questo perché, se in Centrale Rischi sono presenti dei rapporti contestati, allora per esempio l’impresa potrebbe avere non pochi problemi per le operazioni di finanza straordinaria.

Dalla cessione di asset all’ingresso di nuovi soci, e passando anche per la stipula di importanti partnership a livello commerciale. E questo perché, per i soggetti terzi che vogliono vederci chiaro prima di investire in un’azienda, la presenza di rapporti non contestati in Centrale dei Rischi è fondamentale per accertare che l’impresa sia davvero solida a livello creditizio.

La verifica dei rapporti non contestati in Centrale dei Rischi

La dicitura ‘rapporto non contestato, accedendo al database in Centrale dei Rischi della Banca d’Italia, equivale ad un rapporto che risulta essere segnalato come un credito di cassa che è regolare, e quindi è tale che per questo non sono state rilevate e verificate delle inadempienze. In caso contrario, se il rapporto è invece contestato, allora può scattare la segnalazione di credito di dubbia riscossione già a partire da una soglia di soli 250 euro se il credito rientra tra quelli in sofferenza.

La cadenza della raccolta delle informazioni, nella Centrale dei Rischi che è gestita dalla Banca d’Italia, è mensile. Questi dati poi, sempre da parte della Banca d’Italia, vengono resi accessibili agli intermediari creditizi. Con questi ultimi che, di conseguenza, avranno sempre una conoscenza aggiornata e puntuale dell’indebitamento e del merito creditizio dei loro clienti includendo pure la regolarità o meno dei loro pagamenti. Ecco perché chi non ha segnalazioni negative in Centrale dei Rischi riesce ad ottenere un mutuo o un prestito più facilmente.

Che significa crediti passati a perdita?

Quando la riscossione dei crediti non è certa, da parte di banche e società finanziarie, questi vengono definiti come crediti in sofferenza. E questo quando il debitore si trova in una situazione tale da non poter onorare gli impegni presi contrattualmente, per esempio, con la stipula di un mutuo o con l’accensione di un prestito.

Quando invece i crediti già in sofferenza non sono più recuperabili, allora si utilizza un’altra definizione. In tal caso, infatti, si parlerà di crediti passati a perdita. Ecco allora quali sono tutti gli aspetti e le caratteristiche per i crediti passati a perdita, cosa succede e quali sono i rischi e le conseguenze per chi ha concesso il credito, e per chi invece non è riuscito a pagare il debito in tutto o magari solo in parte.

Cosa succede e che fine fanno i crediti che sono passati a perdita?

Quando il credito da in sofferenza passa a perdita, questo significa che l’intermediario, la banca o la società finanziaria, non è più in grado di recuperarlo. Con la conseguenza che, tecnicamente, il rapporto di credito tra le parti, ovverosia tra chi ha concesso il credito e chi lo ha ricevuto, si estingue in maniera anomala.

E questo perché la banca o la società finanziaria dall’operazione ha subito una perdita, mentre per chi ha ricevuto il credito, senza ripagare il debito, in futuro sarà difficile se non impossibile, specie nel breve termine, riuscire ad accedere di nuovo al credito attraverso la stipula di mutui, di prestiti e di finanziamenti spesso anche se questi risultano essere coperti da garanzie reali.

Incubo Centrale dei Rischi per le famiglie e per le imprese insolventi

Quando le famiglie e le imprese sono insolventi, o comunque il credito loro concesso non è passato a perdita, ma è in sofferenza e quindi solo di dubbia riscossione, scatterà inevitabile e inesorabile la segnalazione e l’inserimento nella CR, ovverosia nella Centrale dei Rischi che è una base di dati che è gestita dalla Banca d’Italia.

La base di dati, in particolare, è alimentata proprio dalle banche e dalle società finanziarie. Ma quando un cliente che accede al credito è segnalato nella CR? Al riguardo c’è da dire che la segnalazione in Centrale Rischi scatta solo quando l’importo che il cliente deve restituire, sia questo un’impresa o un privato cittadino, risulta essere pari o superiore alla soglia dei 30.000 euro. Pur tuttavia, se il credito concesso al cliente è in sofferenza, allora la soglia di segnalazione nella Centrale dei Rischi crolla ad appena 250 euro.

E se il cliente bancario, pur tuttavia, è segnalato in CR ritenendo che ci sia un errore, cosa fare? Al riguardo, in caso di problemi o di contestazioni relative proprio alla segnalazione nella Centrale dei Rischi, il cliente prima di tutto può inviare un reclamo direttamente all’intermediario bancario o finanziario. Ed eventualmente il cliente può pure rivolgersi al giudice ordinario, oppure può optare per sistemi di risoluzioni stragiudiziali delle controversie. E questo avviene, nel caso specifico, rivolgendosi all’ABF che è l’Arbitro Bancario Finanziario.

Come si fa a sapere quanti dipendenti ha una ditta?

Le imprese, non solo in Italia, operano e possono operare nei settori economici più svariati. Così come le imprese si distinguono spesso dalle altre in base al numero di addetti. Basti pensare, per esempio, alle cosiddette multinazionali che hanno migliaia e spesso centinaia di migliaia di dipendenti sparsi per il mondo. Ed in generale l’impresa può essere micro, piccola, media oppure grande. Ma detto questo, e volendo sapere di preciso quanti sono gli addetti, come si fa a sapere quanti dipendenti ha una ditta?

Ecco come si fa a sapere quanti dipendenti ha una ditta

Nel dettaglio, per tutte le ditte che in Italia sono iscritte nel Registro delle Imprese, è facile risalire al numero dei dipendenti grazie alla visura camerale. Nella visura, in particolare, è riportato il numero degli addetti non solo fornito come dato complessivo, ma anche come somma dei dipendenti tra quelli che operano nel quartier generale dell’impresa, e quelli che, eventualmente, lavorano invece nelle unità locali. Inoltre, nella visura camerale c’è indicata pure la suddivisione del numero di addetti tra i lavoratori dipendenti, i lavoratori indipendenti, ovverosia i lavoratori senza vincoli formali di subordinazione, ed i collaboratori.

Inoltre, escludendo i lavoratori indipendenti e gli addetti agricoli, e comunque solo per le imprese con almeno 6 addetti dipendenti, nella visura camerale, oltre al numero degli addetti complessivo ed eventualmente suddiviso tra il quartier generale e le unità locali, come sopra accennato, ci sono pure dei dati percentuali.

E precisamente quelli relativi al tipo di contratto, all’orario di lavoro ed alla qualifica. Nello specifico, per tipologia di contratto nella visura camerale viene riportata tra l’altro, per l’impresa in questione, la percentuale di lavoratori che è a tempo indeterminato, la percentuale di addetti che è a tempo determinato e la percentuale dei lavoratori stagionali.

Mentre per l’orario di lavoro nella visura camerale sono riportati i dati relativi agli addetti a tempo pieno ed a quelli che, invece, lavorano a tempo parziale. La suddivisione per qualifica è invece riportata in percentuale tra il numero di impiegati, il numero di operai, il numero di apprendisti e, tra le altre qualifiche, il numero dei quadri ed il numero dei dirigenti.

Come vengono pubblicati i dati sul numero dei dipendenti di una ditta

I dati sul numero dei dipendenti si una ditta sono pubblicati e sono aggiornati sulla visura camerale con una cadenza che è trimestrale. Il che significa che, su una visura camerale che è stata richiesta e rilasciata a giugno i dati riportati per i dipendenti di una ditta saranno quelli aggiornati alla fine del precedente mese di marzo.

Inoltre, il dato sul numero dei propri dipendenti, da parte di un’impresa, può essere come non può essere dichiarato alla Camera di Commercio in quanto non c’è alcun obbligo in tal senso. Con la conseguenza che, nella visura camerale, il dato sul numero dei dipendenti di una ditta può davvero essere quello fornito dall’impresa, oppure si tratterà di un valore che, a livello statistico, è stato fornito dall’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale (INPS).

Cumulo detrazioni fiscali lavoro autonomo e dipendente

In sede di dichiarazioni dei redditi, le detrazioni fiscali che sono fruibili ed accessibili per i redditi da lavoro dipendente sono cumulabili con le detrazioni fiscali legate, invece, ad attività di lavoro autonomo? Questo è infatti il dubbio che spesso sorge quando un contribuente, pur avendo come reddito prevalente quello da lavoro dipendente, deve pure dichiarare dei compensi che, nello specifico, risultano essere derivanti da attività di lavoro autonomo che, comunque, non sono esercitate abitualmente.

Cumulo delle detrazioni tra lavoro autonomo e dipendente, ecco perché non è possibile

Pur tuttavia, la normativa fiscale vigente è molto chiara al riguardo. Ovverosia le detrazioni fiscali da lavoro dipendente non si possono cumulare, fruendo così di una doppia agevolazione ai fini IRPEF, con le detrazioni legate al lavoro autonomo.

Il Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir), al comma 5 dell’articolo numero 13, infatti, stabilisce la non cumulabilità tra le due detrazioni. Il che significa che il contribuente, in sede di dichiarazione dei redditi, può usufruire di una sola detrazione fiscale. Ovverosia quella per il lavoro dipendente oppure quella per il lavoro autonomo.

Quali sono le detrazioni per lavoro autonomo e per quello dipendente

Senza alcuna possibilità di accesso al cumulo, come sopra spiegato, quali sono allora le detrazioni fiscali che i lavoratori autonomi e quelli dipendenti possono sfruttare per abbattere ogni anno le imposte da andare a pagare sui redditi?

Al riguardo proprio l’Agenzia delle Entrate, nella sezione ‘L’Agenzia informa‘ del proprio sito Internet, mette a disposizione dei contribuenti, gratuitamente, tutta una serie di guide fiscali che si possono visionare e scaricare in formato PDF.

E tra queste guide molte riguardano proprio le detrazioni fiscali a partire da quelle più comuni. Dalle agevolazioni fiscali sulle spese sanitarie al bonus mobili ed elettrodomestici, e passando per il Superbonus 110%, per il bonus facciate e per le agevolazioni fiscali sulle ristrutturazioni edilizie. Ma anche le agevolazioni fiscali per il risparmio energetico, e le agevolazioni fiscali che sono previste dall’attuale normativa fiscale quando si compra la casa.

Nel rispetto dei requisiti previsti, tanto i dipendenti quanto i lavoratori autonomi possono accedere alle detrazioni fiscali. Con la sostanziale differenza che sta nel fatto che il lavoratore dipendente sfrutta le detrazioni fiscali grazie al modello 730. Mentre il lavoratore autonomo sfrutterà le detrazioni fiscali inserendole e indicandole nel modello Redditi.

Differenze detrazioni e bonus tra il lavoro autonomo ed il lavoro dipendente

Nello stesso tempo, pur tuttavia, c’è anche da dire che non tutte le detrazioni fiscali che sono accessibili per i lavoratori autonomi lo sono pure per i lavoratori dipendenti e viceversa. Questo vale, per esempio, per l’ex bonus 80 euro che, innalzato fino ad un massimo di 100 euro mensili, spetta non a caso ai titolari di redditi da lavoro dipendente fino a 40.000 euro, e non agli autonomi.

Così come il lavoratore autonomo, a sua volta, può avvantaggiarsi dell’esonero dalla dichiarazione dei redditi, e IRPEF zero da pagare, quando nell’anno di imposta ha svolto delle prestazioni di lavoro autonomo occasionale per compensi complessivamente non superiori alla soglia dei 4.800 euro lordi.