Che differenza c’è tra società lucrative e società mutualistiche?

Tutte le società che sono orientate al profitto, ed in particolare al conseguimento di utili da ripartire poi tra i soci, sono dette società lucrative. La maggioranza delle aziende rientra proprio nella categoria delle società lucrative, ma non sempre la costituzione della società ha come scopo, come fine, e quindi come oggetto sociale, quello di ottenere dei profitti da andare poi a ripartire tra coloro che hanno investito nel capitale di rischio.

In opposizione alle società lucrative, infatti, ci sono pure le cosiddette società mutualistiche che non hanno come scopo quello di ottenere utili per poi procedere alla ripartizione, ma quello di rispettare e di perseguire il cosiddetto principio della mutualità. Ed allora, che differenza c’è tra le società lucrative e le società mutualistiche?

Società lucrative e società mutualistiche, le caratteristiche e le differenze

Per il fine di lucro, da parte di un’impresa che esercita un’attività economica, sussiste la distinzione tra le società di persone e le società di capitali. Sia le società di capitali, sia le società di persone, puntano alla realizzazione di utili, mentre le società mutualistiche nascono per permettere ai soci di accedere a benefici che non prevedono mai la distribuzione e quindi la ripartizione di profitti.

Nel dettaglio, la società mutualistica nasce con l’obiettivo di permettere ai soci di accedere ad occasioni di occupazione con condizioni più vantaggiose, a partire dalla retribuzione, rispetto a quelle che si otterrebbero sul mercato del lavoro. Così come una società mutualistica come scopo può avere pure quello di operare con il fine di fornire ai soci l’accesso a beni ed a servizi sempre a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle offerte dal mercato.

Quali sono le società mutualistiche e quali invece sono quelle lucrative

Tra società di persone, e le società di capitali, le società lucrative sono le seguenti: le società semplici, le società a responsabilità limitata, le società in accomandita semplice, le società in accomandita per azioni, le società in nome collettivo ed anche le società per azioni. Tutte le società non costituite con il fine di lucro, invece, rientrano nella categoria delle società mutualistiche, e tra queste spiccano le società cooperative.

Cooperative, ecco le società mutualistiche per antonomasia

Le cooperative sono infatti società che, a capitale variabile, sono quelle mutualistiche per antonomasia. Ad ogni socio di una cooperativa corrisponde un voto indipendentemente dal valore della quota posseduta.

La qualificazione mutualistica di una società cooperativa è sancita, in ogni caso, dalla sua iscrizione ad apposito albo, ovverosia all’albo delle cooperative. Altrimenti non solo una società cooperativa non sarà ritenuta tale ai sensi di legge in Italia, ma non potrà nemmeno invocare e quindi accedere alle agevolazioni di settore previste dalla normativa vigente.

L’albo delle società cooperative, che risulta essere disciplinato dal Decreto del Ministro dello sviluppo economico del 23 giugno del 2004, e da successive integrazioni, è pubblico ed è consultabile proprio dal sito Internet del MiSE. La gestione dell’albo, ed il relativo aggiornamento, è invece a cura di InfoCamere. Ovverosia da parte della società consortile di informatica delle Camere di Commercio Italiane.

In che cosa consiste e che cosa comporta il fine di lucro che caratterizza le società lucrative?

Quando una società viene costituita, questa deve avere non solo uno scopo, ma anche una forma giuridica ben definita e rispettante, per quel che riguarda l’Italia, il codice civile ai sensi di legge. Nel dettaglio, le società possono essere suddivise in due grandi categorie, ovverosia le società cosiddette mutualistiche, e quelle cosiddette lucrative. Ed allora, per queste ultime, in che cosa consiste e che cosa comporta il fine di lucro che caratterizza le società lucrative?

Quali sono le società lucrative e qual è lo scopo primario

Al riguardo c’è da dire che il fine di lucro per una società lucrativa, come scopo primario, è quello di ottenere degli utili al fine di ripartirli poi tra i soci. Per esempio, rientra tra le società lucrative la società a responsabilità limitata, la società in nome collettivo e la società semplice. E lo stesso dicasi per la società in accomandita per azioni, la società in accomandita semplice e la società per azioni.

L’autonomia patrimoniale perfetta e imperfetta delle società lucrative

In base alla loro autonomia patrimoniale, inoltre, le società lucrative possono essere a loro volta distinte e suddivise in due categorie, ovverosia in società di persone ed in società di capitali. Nel dettaglio, le società di capitali hanno un’autonomia patrimoniale perfetta, mentre per le società di persone l’autonomia patrimoniale è detta imperfetta. E questo perché, per definizione, l’autonomia patrimoniale è perfetta quando sussiste una netta separazione tra il patrimonio dei singoli soci ed il patrimonio della società che è stata costituita.

Una società di capitali presenta un’autonomia patrimoniale perfetta proprio perché è dotata di un patrimonio che è distinto da quello dei soci. Non a caso i creditori sociali possono aggredire per essere pagati il patrimonio di una società di capitali, ma non quello posseduto dai singoli soci essendo questo completamente separato.

Tra le società lucrative, di conseguenza, sono dotate di autonomia patrimoniale perfetta le società per azioni, le società a responsabilità limitata e le società in accomandita per azioni. Mentre hanno un’autonomia patrimoniale imperfetta le società semplici, le società in nome collettivo e le società in accomandita semplice.

Per la precisione, le società in accomandita per azioni e le società in accomandita semplice hanno in realtà un’autonomia patrimoniale che è mista. In quanto, a differenza dei soci accomandatari, i soci accomandanti per le obbligazioni sociali rispondono solo nei limiti del patrimonio che è stato conferito. Mentre i soci accomandatari, sempre per le obbligazioni sociali, rispondono insieme alla società anche con il loro patrimonio personale.

Quali sono le società diverse da quelle lucrative

In contrapposizione al fine di lucro che caratterizza le società lucrative, le società cosiddette mutualistiche, come sopra accennato, non hanno invece come scopo primario quello di conseguire un utile da distribuire tra i soci. E’ il caso delle società di mutua assicurazione ed anche delle società cooperative per le quali tutti i soci sono imprenditori di se stessi. Mutualità, solidarietà e democrazia, infatti, sono non a caso i principi cardine di una società cooperativa senza alcun fine di speculazione privata.

Quando è inefficace la cessione del credito da bonus fiscali?

La cessione del credito da bonus fiscali rappresenta una scelta che molti cittadini in Italia fanno al fine di beneficiare delle agevolazioni che sono previste per i lavori edilizi e non solo. Per esempio, attualmente ci sono i bonus fiscali per i lavori di recupero del patrimonio edilizio e per gli interventi che sono finalizzati all’incremento dell’efficienza energetica con l’ecobonus e con il più recente superbonus 110%.

Così come c’è pure il cosiddetto sismabonus, il bonus facciate e gli sconti di imposta che sono previsti pure per l’installazione di infrastrutture di ricarica per veicoli elettrici e per l’installazione di impianti solari fotovoltaici. Per questi bonus fiscali il contribuente può optare per la detrazione in sede di dichiarazione dei redditi, oppure cedere il credito e, almeno sulla carta, sfruttare il bonus subito senza attendere cinque anni così come è previsto, per esempio, per il superbonus 110%. Pur tuttavia, quando è inefficace la cessione del credito? O quando comunque a conti fatti non conviene?

Cessione del credito da bonus fiscali, ecco gli aspetti da valutare con attenzione

La domanda è d’obbligo in quanto sulla cessione del credito bisogna fare attenzione a tutti i costi ed alle spese che sono connesse all’operazione. Per il credito fiscale legato ai bonus di Stato, infatti, si parla di cessione del credito al miglior offerente, ovverosia alla banca che offra per la cessione un credito reale quanto più possibile vicino a quello nominale. Sul credito che si vuole cedere, infatti, l’istituto di credito applicherà sempre una percentuale di sconto, e nella maggioranza dei casi applicherà pure delle spese sia per l’istruttoria, sia per la gestione della pratica.

Di conseguenza, prima di valutare la cessione del credito è bene farsi quattro conti andando peraltro a valutare ed a stimare la capienza fiscale che è attesa per i prossimi anni. E questo perché, avendo capienza fiscale, il credito fiscale spalmato su più anni si recupera tutto pagando meno tasse, mentre con la cessione a terzi, ovverosia ad una banca, l’istituto di credito potrebbe anche consigliare, se non imporre, pure l’apertura di un conto corrente connesso e dedicato all’operazione.

Come evitare che la cessione del credito fiscale sia poco vantaggiosa

Per evitare che la cessione del credito fiscale sia inefficace, o che comunque sia a conti fatti poco vantaggiosa, si può optare per la cessione parziale. In questo modo una quota del bonus fiscale si incasserà subito, e la rimanenza si potrà andare anno dopo anno a scalare dalle tasse da pagare in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi.

Se tra lo sconto applicato dalla banca, ed i costi di istruttoria e di gestione della pratica, la cessione del credito è davvero poco vantaggiosa, allora in alternativa si potrebbe optare per l’accesso ad un finanziamento che, considerando che attualmente i tassi di interesse sono bassi, potrebbe paradossalmente rivelarsi più vantaggioso. In questo modo, ripartito in 5 anni a patto di avere capienza fiscale, il credito di imposta anziché cederlo potrà essere pienamente scontato in dichiarazione dei redditi. E nel frattempo, grazie al finanziamento, il contribuente avrà la liquidità necessaria per coprire il costo dei lavori.

Chi è incapiente può cedere il credito?

Gli incapienti, ovverosia i contribuenti che sono senza reddito da dichiarare al Fisco, o che comunque hanno da dichiarare redditi troppo bassi, sono generalmente tagliati fuori dalla possibilità di andare a scaricare le spese sostenute nell’anno di imposta di riferimento. Ovverosia, non possono beneficiare delle deduzioni e delle detrazioni fiscali. Pur tuttavia, in casi particolari, il credito di imposta maturato ai sensi della normativa fiscale vigente si può recuperare pure se si rientra nella categoria dei contribuenti incapienti.

Ecco quando chi è incapiente può cedere il credito fiscale di cui si ha diritto

Tra gli sconti fiscali che sono accessibili tramite la cessione del credito anche agli incapienti, e quindi pure ai contribuenti senza IRPEF, spicca il cosiddetto superbonus 110%. E lo stesso dicasi pure per gli altri sconti fiscali che sono previsti per i lavori di edilizia agevolati dallo Stato italiano. Dall’ecobonus al cosiddetto sismabonus, e fino ad arrivare al bonus facciate.

Al riguardo il Fisco ha precisato che, al posto di accedere alle detrazioni fiscali attraverso la dichiarazione dei redditi, i contribuenti incapienti possono accedere all’opzione ed alla modalità alternativa della cessione dei credito in quanto risulta essere titolare di un reddito fondiario.

Ovverosia, in qualità di proprietario della casa dove vengono effettuati i lavori rientranti nei bonus fiscali edilizi, a partire proprio dal superbonus 110%, risulta essere titolare di una rendita catastale che, pur non essendo soggetta ad imposta sul reddito delle persone fisiche, concorre comunque alla formazione del reddito complessivo del contribuente.

In che modo si può cedere il credito di imposta anche parzialmente

Quando la normativa fiscale lo prevede, il credito di imposta maturato, anche quando il contribuente non è incapiente, può essere sempre ceduto a terzi in alternativa alla detrazione fiscale in dichiarazione. E per questo, per esempio per il superbonus 110%, il contribuente ha la facoltà di cedere il credito di imposta totalmente oppure parzialmente secondo delle percentuali che sono libere. In tal caso una parte del credito fiscale sarà ceduta, e la rimanenza si andrà ad utilizzare in compensazione con i propri debiti fiscali in sede di dichiarazione dei redditi.

La cessione parziale del credito, in particolare, è vantaggiosa quando il contribuente ha da un lato capienza fiscale, ma dall’altro stima che questa non sia sufficiente per andare a scontare pienamente il bonus ripartito in cinque anni fiscali e diviso in cinque parti uguali. La quota annuale di credito di imposta maturato, infatti, deve essere utilizzata totalmente nella dichiarazione dei redditi, altrimenti poi viene persa.

Per esempio, se con il superbonus 110% il contribuente matura un credito di imposta che è pari a 50.000 euro, ed è incapiente, allora la cessione totale del credito sarà la strada obbligata per non perdere interamente l’agevolazione che è chiaramente cospicua. Chi ha la capienza fiscale ma non ha redditi alti, invece, può per esempio optare per 25.000 euro di cessione del credito. Mentre con i restanti 25.000 euro la detrazione fiscale da sfruttare in compensazione sui debiti fiscali, in sede di dichiarazione dei redditi, sarà pari a 5.000 euro annuali per 5 anni.

Chi è il soggetto incapiente e in che situazione si trova?

Ci sono tanti contribuenti che hanno un reddito così basso, per l’anno di imposta di riferimento, che sono esonerati dalla presentazione della dichiarazione. Oppure, pur presentando la dichiarazione dei redditi, non possono beneficiare delle detrazioni e delle deduzioni fiscali. In entrambi i casi il contribuente si trova in una situazione tale da essere definito come incapiente.

Chi sono gli incapienti, dai pensionati ai piccoli lavoratori autonomi anche senza partita Iva

La maggioranza dei contribuenti, che rientra nella categoria degli incapienti, spazia dai pensionati che percepiscono dall’INPS degli assegni mensili aventi bassi importi, ai lavoratori autonomi che, in possesso o meno di partita IVA, hanno dei bassi giri d’affari annui oppure dichiarano dei redditi annui che sono riconducibili solamente al pagamento di prestazioni occasionali.

Sono incapienti, inoltre, tutti quei contribuenti che, nell’anno di imposta di riferimento, non hanno alcun reddito da dichiarare e, di conseguenza, sono impossibilitati ad accedere agli sconti di imposta nel caso ci siano da dichiarare degli oneri deducibili o detraibili.

Perchè per il contribuente incapiente le deduzioni e le detrazioni fiscali sono off-limits

La deduzione fiscale, infatti, è fruibile solo se il contribuente ha un reddito di lordo da dichiarare e dal quale, di conseguenza, andare a sottrarre l’onere deducibile. Così come la detrazione fiscale è fruibile se, in sede di dichiarazione, il contribuente nel denunciare i redditi deve pagare delle imposte.

Sull’ammontare lordo di queste imposte, infatti, il contribuente può abbassare le tasse da pagare in forza ad eventuali oneri detraibili da dichiarare. Per chi ha accesso alla dichiarazione dei redditi precompilata, tra l’altro, la maggioranza di questi oneri detraibili e deducibili sono già precaricati da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Detrazioni fiscali incapienti, il bonus ristrutturazioni si può recuperare

Nella maggioranza dei casi, come sopra spiegato, per i contribuenti incapienti le eventuali detrazioni e deduzioni fiscali, in sede di dichiarazione dei redditi, si perdono. Ma ci sono pure delle eccezioni come quella che è rappresentata dal bonus ristrutturazioni che, in alternativa alla detrazione fiscale di pari importo spalmata su più anni in sede di dichiarazione dei redditi, si può sfruttare optando per la cessione del credito ad una banca oppure per lo sconto in fattura da parte della società che effettua i lavori.

In particolare, il contribuente incapiente può recuperare il bonus ristrutturazioni, pur non avvalendosi delle detrazioni fiscali, non solo per i lavori incentivati con il cosiddetto superbonus al 110%, ma anche per tutti gli interventi che sono elencati e che sono considerati ammissibili così come è stato disposto dal decreto Rilancio. Ovverosia i bonus per l ristrutturazioni edilizie, per l’installazione di impianti fotovoltaici, per gli interventi per l’efficienza energetica e per i lavori antisismici. Ma anche per le colonnine di ricarica dei veicoli elettrici e per il cosiddetto bonus facciate.

Nella stessa casistica, inoltre, rientrano pure i contribuenti forfettari per i quali si applica un regime fiscale che prevede il pagamento di un’imposta sostitutiva senza detrazioni. Il forfetario che ristruttura la propria abitazione può infatti sfruttare il bonus fiscale allo stesso modo di come può fare un contribuente incapiente.

Chi non lavora ha diritto alle detrazioni fiscali?

In Italia il Fisco, sul reddito imponibile che è soggetto a tassazione, permette di ottenere una riduzione delle tasse da pagare grazie alle cosiddette detrazioni fiscali. La lista degli oneri detraibili, tra l’altro, è davvero ampia, ma per sfruttare al massimo le detrazioni è necessaria la cosiddetta capienza fiscale.

In altre parole, per un contribuente con reddito basso o nullo sfruttare al massimo le detrazioni fiscali è praticamente impossibile proprio perché in questo caso c’è incapienza parziale o totale. Ed allora, per esempio, chi non lavora ha diritto alle detrazioni fiscali?

Quando chi non lavora ha diritto alle detrazioni fiscali e quando no

Al riguardo c’è da dire che, in linea generale, chi non lavora non è a priori tagliato fuori dall’accesso alle detrazioni fiscali. Pur non avendo reddito da lavoro, infatti, il contribuente può comunque scaricare dalle tasse gli oneri detraibili, sempre fino a capienza, nel caso in cui abbia altri redditi da dichiarare al Fisco.

Tecnicamente, e per definizione, un contribuente ha capienza fiscale quando, rispetto all’imposta da versare, ha un reddito congruo che permetta, grazie alle detrazioni ed anche alle deduzioni fiscali, di poter ottenere rimborsi fiscali, benefit ed anche dei bonus. In assenza di una capienza fiscale adeguata, invece, il contribuente praticamente perde soldi in quanto il reddito imponibile è troppo basso. La situazione si complica, inoltre, quando il contribuente rientra nella cosiddetta no tax area.

E questo accade, per esempio, quando ad un lavoratore dipendente sono state effettuate, nell’anno di imposta, delle trattenute superiori all’IRPEF da pagare. In tal caso, se non si hanno altri redditi da dichiarare, indicare in dichiarazione gli oneri detraibili sostenuti è praticamente inutile in quanto non si avrà diritto ad alcun rimborso fiscale.

In questo caso, infatti, è alto il rischio di non poter recuperare alcun credito di imposta da oneri detraibili che spaziano dalle spese sanitarie a quelle veterinarie, e passando per le spese funebri, i canoni di locazione, le spese scolastiche ed universitarie, le spese per le attività sportive dei figli e per l’asilo nido.

E lo stesso dicasi per gli interessi passivi su mutui prima casa e per eventuali le spese per intermediazione immobiliare sostenute nell’anno di imposta di riferimento. E questo perché, per fissare le idee, sui redditi del 2020 la dichiarazione del 2021 deve essere compilata dal contribuente inserendo solo ed esclusivamente le spese detraibili o deducibili che sono sostenute sempre nel 2020.

Detrazioni superbonus 110% e cessione dell credito per non perdere le agevolazioni

Per quanto detto, quindi, valutare in anticipo il proprio livello di capienza fiscale è fondamentale al fine di non perdere soldi specie quando, per esempio, le detrazioni fiscali sono corpose come quelle relative al superbonus 110% per il quale c’è comunque una scappatoia a norma di legge per non perdere del tutto le agevolazioni.

Il contribuente incapiente, giocando d’anticipo, può infatti optare, per il superbonus 110%, per la cessione del credito ad una banca oppure alla società che effettua i lavori. Anziché recuperare e ripartire lo sconto di imposta in 10 quote annuali in sede di dichiarazione dei redditi.

Come si calcolano le deduzioni fiscali?

Tra le spese che si possono scaricare dalle tasse, oltre ai cosiddetti oneri detraibili, ci sono pure gli oneri deducibili. In entrambi i casi il contribuente può avvantaggiarsi di una riduzione delle imposte da pagare, ma con un diverso meccanismo. Se infatti la detrazione fiscale abbatte direttamente le imposte da pagare, la deduzione fiscale, invece, riduce il reddito lordo sul quale poi andare a calcolare l’imposta dovuta e da versare all’Agenzia delle Entrate. Ed allora, in concreto, come si calcolano le deduzioni fiscali?

Come si sfruttano le deduzioni fiscali al fine di abbassare il reddito imponibile

Se le detrazioni fiscali si sottraggono dall’imposta lorda da pagare, le deduzioni fiscali invece, per quanto detto, devono essere sottratte dal reddito lordo. Il calcolo delle deduzioni fiscali, che devono essere indicate nella dichiarazione dei redditi, varia poi in ragione del tipo di onere sostenuto.

Per esempio, si possono portare in deduzione fiscale dal reddito i contributi previdenziali, l’assegno di mantenimento, i fondi pensione, le erogazioni liberali e, tra l’altro, pure le spese che sono state sostenute per l’assistenza infermieristica e riabilitativa di persone disabili. In linea di massima maggiore è il reddito dichiarato, maggiore tenderà ad essere il beneficio fiscale derivante dagli oneri che si possono portare in deduzione fiscale.

Le deduzioni fiscali sui contributi previdenziali e assistenziali obbligatori e volontari

Fino alla concorrenza del reddito complessivo, i contributi previdenziali e assistenziali, che sono stati versati dal contribuente in ottemperanza alle disposizioni di legge, si possono portare in deduzione fiscale. La deducibilità, inoltre, è ammessa pure per i contributi volontari che sono stati versati alla gestione della forma pensionistica obbligatoria di appartenenza ed alla gestione separata dell’INPS. Tra i contributi previdenziali che sono deducibili, inoltre, rientrano pure quelli che sono stati versati volontariamente dal contribuente per il riscatto della laurea.

Come si calcolano le deduzioni fiscali per la previdenza integrativa

A differenza dei contributi previdenziali e assistenziali obbligatori, che sono interamente deducibili, quelli che sono versati alla previdenza complementare presentano un tetto massimo di deducibilità. Nel dettaglio, attualmente il contribuente ogni anno, quando presenta la dichiarazione dei redditi, può portare in deduzione fiscale ai fini IRPEF fino a 5.164,57 euro di contributi che sono stati versati per la pensione integrativa.

Deduzioni e detrazioni fiscali erogazioni liberali ai fini IRPEF

Per le erogazioni liberali nella dichiarazione dei redditi, ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), il contribuente può optare per la detrazione fiscale oppure, a scelta, per la deduzione fiscale. E precisamente può andare a detrarre il 30% con un massimo di 30.000 euro di donazione, oppure può optare per la deduzione fiscale dell’importo donato senza limiti e comunque nel limite massimo del 10% del reddito complessivo che è stato dichiarato al Fisco.

Per fruire dei benefici fiscali le erogazioni liberali devono essere effettuate sempre e solo con strumenti tracciabili, e quindi con il bonifico bancario o postale, con assegni bancari e circolari. E pure con strumenti e servizi di moneta elettronica come le carte di debito, le carte di credito e le carte prepagate.

Quanto può durare la liquidazione di una azienda e cosa comporta?

Per volontà dei soci, un’azienda precedentemente costituita può essere chiusa con la conseguente cessazione di tutte le attività. Pur tuttavia, un’azienda non può abbassare le serrande dall’oggi al domani senza aver gestito ed onorato tutte le pendenze. In genere la via più semplice per avviare la chiusura di un’azienda è quella di metterla in liquidazione.

In tal caso, dopo che i soci hanno approvato la messa in liquidazione dell’azienda, a prendere il controllo della società, al posto degli amministratori, saranno i liquidatori. Che sono nominati sempre tramite una delibera approvata dai soci. Ma detto questo, quanto può durare la liquidazione di una azienda e cosa comporta?

Cosa comporta la liquidazione di una azienda e quanto può durare

Al riguardo, prima di tutto, c’è da dire che dalla messa in liquidazione alla chiusura di un’azienda, con la conseguente cessazione di tutte le attività d’impresa, non c’è una durata fissa stabilita dalla legge. Pur tuttavia, riguardo a cosa comporta mettere in liquidazione un’azienda lo scenario è chiaro ed è ben definito. Con la procedura di liquidazione, infatti, l’azienda è chiamata ad estinguere tutti i rapporti giuridici che sono ancora pendenti inclusi pure quelli, eventualmente, con il Fisco.

In altre parole, questo significa che nel mettere in liquidazione un’azienda bisogna procedere con l’eventuale ripartizione degli utili, con la riscossione di eventuali crediti, con la vendita di eventuali beni che sono ancora intestati alla società e, soprattutto, bisogna procedere con il pagamento di tutti i creditori.

Come si gestisce una società in liquidazione e quali sono gli obiettivi

Quando l’azienda è in mano ai liquidatori i soci, prima di tutto, devono consegnare i libri contabili e potranno eventualmente beneficiare della ripartizione dell’attivo quando tutti i rapporti giuridici che sono ancora pendenti saranno estinti. I liquidatori nei limiti del possibile, infatti, sono chiamati al conseguimento dell’attivo societario dopo aver pagato tutti i creditori e dopo aver venduto al meglio il patrimonio sociale.

Non a caso il liquidatore o i liquidatori, alla fine di ogni esercizio di bilancio, saranno chiamati a redigere un rendiconto fino a quando ci saranno ancora rapporti giuridici pendenti. Dopodiché, estinti tutti i rapporti giuridici in essere, per la società in liquidazione si potrà passare all’atto finale che è quello rappresentato dalla cancellazione dal registro delle imprese.

Obbligo di comunicazione se una società viene messa in liquidazione

Quella della liquidazione, per un’impresa, deve essere inoltre una procedura che deve essere resa sempre pubblica. E questo perché si tratta in tutto e per tutto di un obbligo di legge che, se non viene rispettato, è passibile di una sanzione amministrativa. In questo modo, infatti, ogni altro soggetto tramite una visura camerale potrà verificare se l’impresa sia o meno in liquidazione. Una dicitura che, tra l’altro, la società in liquidazione è obbligata pure a indicare su ogni fattura, su ogni atto o documento su carta intestata. In altre parole, una società che è in liquidazione deve risultare tale dal registro delle imprese che è presente alla Camera di Commercio che è competente per territorio.

Assunzione numerica o nominativa lavoratori disabili, ecco quali sono le differenze

In Italia, al fine di non escludere i disabili dal mercato del lavoro, le imprese devono rispettare degli obblighi di legge per quel che riguarda le assunzioni. In particolare, per l’impresa che raggiunge i 15 lavoratori occupati scatta l’obbligo del rispetto di una quota di lavoratori invalidi da assumere.

Si tratta di conseguenza, in tutto e per tutto, di assunzioni obbligatorie che possono essere effettuate facendo leva su due possibili strumenti di inserimento lavorativo, ovverosia l’assunzione a chiamata nominativa e l’assunzione a chiamata numerica. Ecco allora, nel dettaglio, quali sono le differenze tra l’assunzione numerica e l’assunzione nominativa, e quando questi due strumenti di inserimento lavorativo di persone disabili sono applicabili.

Le differenze tra assunzione numerica e nominativa per il datore di lavoro

Nel dettaglio, la chiamata nominativa per l’assunzione di disabili è lo strumento di inserimento lavorativo standard. Attraverso il collocamento mirato, infatti, il datore di lavoro, non solo in caso di azienda privata, ma anche di ente pubblico, acquisisce la lista di persone disabili che si sono candidate alla specifica offerta di lavoro. Con l’azienda pubblica o privata che, procedendo poi con i colloqui di selezione, potrà scegliere il candidato o i candidati da assumere.

La chiamata nominativa per l’assunzione di disabili, invece, è in tutto e per tutto uno strumento di inserimento lavorativo alternativo ed anche integrativo rispetto alla chiamata numerica. E questo perché, per esempio, questo si applica quando un’impresa è inadempiente nel rispetto delle quote di assunzioni da destinare ai lavoratori con disabilità.

Ma la chiamata nominativa per l’assunzione di disabili rappresenta pure uno strumento di inserimento lavorativo che, in alternativa alla chiamata numerica, può essere utilizzato su richiesta da parte degli enti pubblici. In questo caso non c’è una lista di nominativi tra cui scegliere, ma una vera e propria graduatoria di persone disabili che sono disponibili e che sono rispondenti ai requisiti di assunzione che sono richiesti. Per la determinazione della graduatoria, in particolare, si tiene conto dell’anzianità di iscrizione e della percentuale di invalidità, ma anche del reddito lordo dell’anno precedente e di eventuali familiari che sono a carico.

La chiamata nominativa, a carico di un’azienda che è obbligata ad assumere una quota di lavoratori disabili, è quindi una procedura d’ufficio che, nello specifico, scatta dopo che l’impresa non ha rispettato tale obbligo entro un termine di 60 giorni dall’insorgenza. Al riguardo, per accelerare e per agevolare il rispetto di tale obbligo, i centri per l’impiego offrono sul territorio all’impresa, gratuitamente, un apposito servizio specialistico di preselezione che è finalizzato proprio al collocamento mirato di persone con disabilità.

Quali sono le quote di assunzione numeriche e nominative da rispettare

Nel dettaglio, come sopra accennato, per i datori di lavoro che occupano dai 15 ai 35 dipendenti l’obbligo di assunzione di lavoratori disabili è pari a 1 lavoratore. Sale a 2 lavoratori dai 36 ai 50 dipendenti, mentre oltre i 50 dipendenti la quota obbligatoria di lavoratori disabili da assumere non è numerica ma si applica nel rispetto di una percentuale che è pari al 7% del totale dei lavoratori occupati.

Come viene tassato il welfare aziendale?

I Paesi più industrializzati adottano, insieme alle politiche economiche che sono orientate alla crescita, pure delle politiche sociali che, nello specifico, sono finalizzate a promuovere in maniera diffusa il benessere e soprattutto a soddisfare i bisogni dei cittadini a partire da quelli meno abbienti. Le politiche sociali sono spesso definite come politiche di welfare proprio perché sono orientate a promuovere ed a garantire il benessere della collettività. Ma detto questo, dal punto di vista del prelievo erariale, come viene tassato il welfare?

Come viene tassato il welfare aziendale, ecco tutti i vantaggi fiscali

Al riguardo c’è da dire, prima di tutto, che il welfare a livello fiscale gode nella maggioranza dei casi di una tassazione agevolata. E questo accade, nella fattispecie, quando ad erogare i servizi di welfare è un’impresa a favore dei propri dipendenti.

In tal caso, infatti, si parla di welfare aziendale con l’offerta di un pacchetto di servizi che possono spaziare dai servizi socio-assistenziali a quelli sanitari, e passando per l’istruzione, la disabilità, la non autosufficienza, l’infanzia, le coperture assicurative ed anche il lavoro ed il sostegno al reddito con i premi di produttività che, non a caso, beneficiano di una tassazione agevolata con l’aliquota al 10%. Ma in alternativa l’impresa può convertire proprio il premio di risultato, da riconoscere ai lavoratori, in servizi ed in benefit di welfare con rilevanti vantaggi in termini di tassazione.

La normativa fiscale vigente sul welfare aziendale, infatti, garantisce benefici fiscali sia per il datore di lavoro, sia per il lavoratore dipendente. Nel dettaglio, per i servizi di welfare a favore del lavoratore vige la totale esenzione fiscale e contributiva, mentre il datore di lavoro matura il diritto alla deduzione fiscale, dall’imponibile del reddito di impresa, proprio del costo per i servizi di welfare offerti ai dipendenti. Ma a patto che a monte delle iniziative di welfare ci sia un contratto, e che il piano di welfare sia offerto da parte del datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o comunque ad una categoria omogenea di lavoratori.

Il cuneo fiscale si azzera sempre con le iniziative e con i servizi di welfare aziendale

In altre parole, per i servizi di welfare il cuneo fiscale si azzera rendendo così vantaggiosa la conversione dei premi di risultato. Un imprenditore che, per esempio, riconosce annualmente ad un dipendente 2.000 euro lordi di aumento annuo in busta paga, il lavoratore al netto prenderebbe all’incirca 1.200 euro tra le tasse da pagare ed contributi contributi previdenziali obbligatori. Mentre erogando 2.000 euro annui sotto forma di servizi di welfare non ci sarebbe alcuna trattenuta.

Oltre alla conversione del premio di risultato, i servizi di welfare possono essere erogati ai lavoratori dipendenti, con tutti i vantaggi fiscali sopra indicati, anche attraverso la contrattazione tra il datore di lavoro ed i sindacati di categoria. Nel caso in cui l’azienda sia priva di rappresentanza sindacale interna, il datore di lavoro può in ogni caso decidere di offrire e di erogare i servizi di welfare aziendale ai dipendenti applicando la contrattazione territoriale di settore.