Come si può uscire da una SRL

Quando un gruppo di imprenditori decide di costituire una società, di solito all’inizio c’è una piena unità di intenti. Ma poi con il tempo spesso accade che non tutti i soci condividono le linee guida e gli obiettivi di business. In tal caso uno o più soci possono decidere di defilarsi e quindi di lasciare un’azienda. Ed allora, come si esce da una società, per esempio da una SRL?

Come si può uscire da una SRL tra decisioni non condivise e clausole nell’atto costitutivo

Al riguardo c’è da dire, prima di tutto, che nessun socio di un’azienda può essere chiaramente costretto a rimanere a vita all’interno di una società? Pur tuttavia, l’uscita di un socio da una SRL deve avvenire non solo rispettando l’iter di legge, ma anche nel rispetto di quello che è l’atto costitutivo. Nel rispetto del codice di procedura civile, infatti, nell’atto costitutivo di una SRL ci sono in genere inserite non solo le modalità, ma anche le cause di recesso e, quindi, di uscita di un socio dalla società a responsabilità limitata.

Ma nello stesso tempo ci possono essere delle clausole che possono rendere l’uscita da una SRL decisamente più complessa e quindi più difficoltosa. Per un socio uscire da una SRL, infatti, significa prendere la decisione di andare a cedere le proprie quote, ma nell’atto costitutivo, per esempio, potrebbero essere state inserite delle clausole o comunque delle limitazioni alla trasferibilità delle quote possedute da ogni socio della SRL.

Nella maggioranza dei casi un socio che vuole uscire da una SRL chiede agli altri soci se ci sia disposto qualcuno ad acquistare le sue quote. Ma spesso la cifra proposta tende ad essere inferiore al valore corrente di mercato della società. In tal caso è possibile far valutare la società da un soggetto indipendente, ed il socio facendo leva sulle disposizioni di legge può in ogni caso dare le dimissioni esercitando il diritto di recesso.

Quando il socio di una SRL può uscire avvalendosi del diritto di recesso

La legge dispone infatti che il socio di una SRL può defilarsi, per esempio, quando è cambiato l’oggetto sociale, quando la società a responsabilità limitata ha perfezionato operazioni di scissione o di fusione, ed anche quando, tra l’altro, è stato varato un aumento di capitale a pagamento con l’esclusione dei diritto di opzione. Tre la cause di uscita di un socio da un SRL, potendo così esercitare il diritto di recesso ai sensi di legge, c’è pure il trasferimento della sede sociale all’estero, il cambio di tipo di società ed anche la modifica nell’atto costitutivo proprio delle cause di recesso.

Esercitando il recesso ai sensi di legge al socio della SRL spetterà il rimborso della quota in proporzione a quello che è il patrimonio della società. In altre parole, al socio uscente spetteranno dei soldi, ma bisogna fare molta attenzione alle eventuali contromisure e contromosse da parte degli altri soci che, se sono in disaccordo, potrebbero addirittura deliberare lo scioglimento della società. Ed in tal caso a scomparire sarebbe non solo il diritto di recesso del socio, ma anche i soldi spettanti.

Società con debiti, come può essere chiusa?

Molto spesso un imprenditore o un gruppo di imprenditori decide di aprire una società con l’obiettivo di fare buoni affari. Ma altrettanto spesso, purtroppo, le cose poi nel tempo non vanno propri per il verso giusto. Ed allora si decide di chiudere la società seguendo l’iter di legge che, tra l’altro, prevede la cancellazione dal registro delle imprese. Ma se la società ha dei debiti, questi che fine fanno se l’attività viene chiusa? Ed in che modo si può chiudere una società che ha ancora dei debiti da onorare senza infrangere la legge?

Società chiusa, chi risponde dei debiti ancora da onorare?

Al riguardo c’è da dire, in linea di massima, che una società si può chiudere anche se questa ha dei debiti. E questo perché, sebbene la società che è stata chiusa non esista più, i soci in automatico diventano in genere responsabili di tutti i debiti che ancora l’impresa non ha pagato.

E questo vale, tra l’altro, pure per i crediti che la società non ha ancora riscosso o che, per qualsiasi ragione, non è riuscita ancora a riscuotere. Ma detto questo, in che modo i soci di un’impresa che è stata chiusa rispondono dei debiti ancora da onorare? In questo caso tutto dipende dal tipo di impresa, ovverosia se trattasi di una società di capitali oppure di una società di persone.

Nel dettaglio, se l’impresa è una Srl, una Spa oppure una Sapa, ovverosia una società di capitali, allora i soci risponderanno solo del capitale sociale versato ed il loro patrimonio personale non sarà aggredibile. Mentre lo stesso non vale per le società di persone, ovverosia per le società semplici, per le Snc e per le Sas. In questo caso, infatti, chiudere la società con debiti porterà i soci ad essere responsabili dell’indebitamento e sono chiamati a risponderne con il proprio patrimonio personale.

Come chiudere una società con debiti senza infrangere la legge

Detto questo, e come sopra accennato, una società con debiti per essere chiusa deve seguire sempre l’iter di legge. Per esempio, una società di capitali che non ha abbastanza liquidità per soddisfare tutti i creditori nella maggioranza dei casi ha come unica strada percorribile quella dell’accesso all’istituto giuridico del fallimento.

In altre parole, una società con debiti può essere sempre chiusa, ma mai con l’intenzione di cercare di sfuggire ai creditori anche attraverso eventuali artifici contabili. Altrimenti si può incappare nel reato bancarotta fraudolenta che rientra nel codice penale e che prevede, di conseguenza e tra l’altro, anni di carcere in ragione della gravità degli atti che sono stati commessi.

Come liquidare una società con debiti fino a arrivare alla cessazione

In alternativa al fallimento, inoltre, un altro tipo di operazione, che porta poi alla chiusura di una società con debiti, è la liquidazione. La società, nello specifico, può essere messa in liquidazione quando da un lato ha dei debiti, ma dall’altro ha crediti ed un patrimonio tale che, se convertito in liquidità, potrà andare a coprire l’indebitamento. In questo modo, vendendo tutti i beni, riscuotendo di tutti i crediti e pagando tutti i debiti, la società in liquidazione potrà poi avviare le operazioni di cessazione con la conseguente conclusione di tutte le attività aziendali.

Come chiudere una srls senza notaio

Nel mese di giugno del 2012, nell’ordinamento giuridico italiano, è stata introdotta la srls, ovverosia la società a responsabilità limitata semplificata. Rispetto alla classica srl, in particolare, per fare impresa la società a responsabilità limitata semplificata permette di evitare di sostenere spese iniziali eccessive, e permette anche di non dover essere in possesso di un capitale elevato per la sua costituzione.

Ma nonostante tutto ciò spesso le srls non hanno successo e, quindi, dall’apertura si passa anche in breve tempo alla chiusura che potrebbe rivelarsi a sua volta un’operazione costosa nel caso in cui, per esempio, ci fossero da sostenere delle spese notarili. Ed allora, come chiudere una srls senza notaio?

Ecco come si può chiudere una srls senza il notaio

Nel dettaglio, la società a responsabilità limitata semplificata si può chiudere senza il bisogno di un notaio ma a patto di seguire l’iter corretto che poi porterà al perfezionamento della procedura di scioglimento. In particolare, per chiudere una srl semplificata gli amministratori della società, anche se questi non sono soci, devono accertare che, ai sensi di legge, per la chiusura sussista una o più cause di scioglimento.

Verificata la sussistenza di una o più cause di scioglimento per la srls, lo step successivo è rappresentato dalla convocazione dell’assemblea dei soci che, nello specifico, dovrà prima prendere atto della causa di scioglimento della società, e poi dovrà procedere alla nomina di un liquidatore.

Con quest’ultimo che sarà chiamato alla chiusura dei debiti e dei crediti ai fini della gestione completa e regolare di tutte le partite contabili che sono ancora rimaste in sospeso. Solo a questo punto per la società a responsabilità limitata semplificata si potrà procedere allo scioglimento senza il notaio prima con l’approvazione del bilancio finale, e poi presentando l’istanza di cancellazione della srls dal registro delle imprese.

Quali sono le cause di scioglimento di una società a responsabilità limitata semplificata

La causa di scioglimento più comune, per una società a responsabilità limitata semplificata, è quella relativa al mancato conseguimento del cosiddetto oggetto sociale. Ovverosia, la srls è stata costituita per uno scopo, ma poi con il tempo ci si accorge che questo non è più concretamente raggiungibile. Ma allo stesso modo c’è il caso che è diametralmente opposto. Ovverosia la società a responsabilità limitata semplificata ha pienamente conseguito l’oggetto sociale e, quindi, non ha più motivo di esistere.

Tra le cause di scioglimento di una srls, inoltre, c’è pure quella della riduzione del capitale al di sotto del minimo obbligatorio per legge. Pur tuttavia, quella della srls in perdita, generalmente, non è una condizione valida per lo scioglimento della società. In tal caso, infatti, la legge prevede e permette ai soci di poter far ricorso al capitale al fine di appianare le perdite.

Le alternative alla chiusura di una srls, dalla cessione delle quote alla trasformazione

Prima di chiudere una srls, anche senza notaio, in genere i soci valutano pure dell soluzioni alternative. Una di queste è quella classica, ovverosia quella che è rappresentata dalla cessione delle quote a terzi che hanno la volontà e, soprattutto, i mezzi per conseguire l’oggetto sociale. Così come è possibile trasformare una srls in una società a responsabilità limitata ordinaria.

Cosa si intende per formazione aziendale e quando conviene al datore di lavoro?

Per un’impresa la gestione delle risorse umane è una delle attività centrali al fine di poter restare competitiva sul mercato. E questo avviene non solo assumendo i migliori profili, ma anche programmando per i lavoratori dei percorsi interni che siano finalizzati all’acquisizione nel tempo di nuove competenze o comunque di competenze specifiche.

Perché la formazione aziendale deve stare in cima agli investimenti nel capitale umano

Tutto questo avviene tramite la formazione aziendale che, per un’impresa lungimirante, rappresenta sempre un investimento e mai un costo. Perché per un’azienda ricca anche a livello professionale è più facile raggiungere gli obiettivi economici e finanziari proprio attraverso gli investimenti nel capitale umano. Ma detto questo, la formazione aziendale quando conviene davvero al datore di lavoro?

Al riguardo c’è da dire che, se ben pianificata, la formazione aziendale al datore di lavoro conviene sempre in quanto i ritorni nel medio e nel lungo periodo sono praticamente garantiti. Pur tuttavia, al pari di tutte le altre attività, pure per la formazione aziendale serve sia la pianificazione, sia lo stanziamento di risorse che, molto spesso, sono purtroppo limitate.

Come pianificare la formazione aziendale in quattro fasi ed i costi da sostenere

Per la pianificazione della formazione aziendale ci sono davvero tante strade percorribili. Con le scelte in merito che spesso sono influenzate sia dalle dimensioni dell’impresa, sia dal settore di business in cui opera.

In generale si può dire che la pianificazione della formazione aziendale può essere suddivisa in quattro fasi. Si parte, nello specifico, dall’analisi del fabbisogno a livello formativo per poi passare alla progettazione ed alla successiva erogazione dell‘intervento formativo. Ed infine si passa ad una valutazione dell’intervento formativo stesso.

In termini di costi per la formazione aziendale, questi variano proprio in ragione delle modalità di erogazione. E questo perché la formazione aziendale può essere gestita internamente in aula oppure online in modalità delocalizzata. Ma spesso si rende necessario andare a pianificare la formazione aziendale attraverso consulenti o società esterne. Ed in tal caso i costi da sostenere sono più alti.

La scelta della formazione aziendale continua con i fondi interprofessionali

Quando l’impresa è di medie e di grandi dimensioni, le attività di formazione che sono destinate ai lavoratori dipendenti sono continue. Ed in tal caso è opportuno valutare l’eventuale adesione ai fondi interprofessionali che, a livello finanziario, sono alimentati dallo 0,30% dei versamenti INPS.

I fondi interprofessionali, con l’adesione libera, nascono infatti con l’obiettivo di finanziare l’aggiornamento continuo dei lavoratori proprio attraverso le attività di formazione e di addestramento. Per esempio, in Italia c’è il fondo interprofessionale For.Te., il Fondo Artigianato Formazione ed il Fondo paritetico interprofessionale nazionale per la formazione continua in Agricoltura (FOR.AGRI) solo per citarne alcuni.

Oltre che libera e gratuita, l’adesione di un’impresa ad un fondo interprofessionale, inoltre, non è mai vincolante. E questo perché l’impresa potrà in qualsiasi momento decidere di revocare l’adesione ed anche decidere di cambiare il fondo interprofessionale al fine di poter soddisfare sempre al meglio le proprie esigenze formative destinate ai lavoratori dipendenti.

Invalidità, quali agevolazioni lavorative per l’autonomo?

Per gli autonomi la cui capacità lavorativa risulta essere ridotta a meno di un terzo, a causa di infermità fisica o mentale, c’è la possibilità di accedere ad una prestazione economica INPS che, tra l’altro, può essere riconosciuta pure agli iscritti alla gestione separata ed ai lavoratori dipendenti.

Assegno ordinario di invalidità autonomi è compatibile con la prosecuzione dell’attività lavorativa

Si tratta, nello specifico, dell’assegno ordinario di invalidità che, tra l’altro, risulta essere compatibile con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Questo significa che il lavoratore autonomo che chiede e che ottiene l’assegno ordinario di invalidità può comunque continuare ad esercitare la propria attività.

Presentando la domanda, la persona con capacità lavorativa ridotta riceverà l’assegno ordinario di invalidità a partire dal primo giorno del mese successivo a quello della presentazione dell’istanza. Ma il tutto a patto che il lavoratore autonomo rispetti i requisiti amministrativi e sanitari di accesso alla prestazione economica che, comunque, non è vitalizia.

Quanto dura l’assegno ordinario di invalidità per i lavoratori autonomi?

L’assegno ordinario di invalidità autonomi, infatti, ha una durata e quindi una validità che è pari a tre anni, e quindi questo deve essere rinnovato ogni volta prima della scadenza presentando una nuova istanza con tanto di nuove verifiche a livello medico. Pur tuttavia, dopo tre rinnovi consecutivi l’assegno ordinario di invalidità, il cui importo viene calcolato con il sistema misto contributivo/retributivo, viene confermato in automatico fatte salve le facoltà di revisione.

La principale agevolazione per l’autonomo che percepisce l’assegno ordinario di invalidità, è quindi come sopra accennato quella di poter continuare l’attività, ma per l’accesso alla prestazione economica non basta in ogni caso l’attestazione di una capacità lavorativa ridotta a meno di un terzo.

Requisiti contributivi per assegno invalidità autonomi e la trasformazione in prestazione pensionistica

Ci sono infatti dei requisiti di contribuzione da rispettare come segue: servono minimo 5 anni di contributi versati, di cui almeno 3 anni che sono stati maturati nei 5 anni precedenti la data di presentazione della domanda per l’assegno ordinario di invalidità. Allegando la certificazione medica, la domanda di assegno ordinario di invalidità si presenta all’INPS anche via contact center oppure rivolgendosi sul territorio agli enti di patronato.

Quelli contributivi e medico-legali sono gli unici requisiti, per il lavoratore autonomo, al fine di chiedere ed ottenere l’assegno ordinario di invalidità senza dover poi cessare la propria attività. Per l’accesso a questa prestazione economica erogata dall’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, infatti, non ci sono dei requisiti d’età da rispettare.

Inoltre, se l’importo dell’assegno ordinario di invalidità, in base al calcolo in funzione dei contributi versati, risulta essere minore al minimo previsto, allora anche per questa prestazione economica l’INPS, nel rispetto dei requisiti previsti, può riconoscere al lavoratore autonomo il diritto all’integrazione al minimo.

Sempre nel rispetto dei requisiti, il lavoratore autonomo che percepisce l’assegno ordinario di invalidità, e che ha maturato pure i requisiti di età pensionabile, percepirà poi la pensione di vecchiaia. In tal caso, infatti, la trasformazione dell’assegno ordinario di invalidità in pensione di vecchiaia avviene d’ufficio.

Chi paga l’imposta di bollo sulle fatture e sulle fatture elettroniche?

L’imposta di bollo è una tassa che in Italia si paga obbligatoriamente per l’emissione e per la produzione di tanti atti e documenti. Tra questi non fanno eccezione le fatture in generale e pure quelle digitali, ovverosia le fatture elettroniche. Ed allora, chi paga l’imposta di bollo sulle fatture e sulle fatture elettroniche?

Imposta di bollo sulle ricevute e sulle fatture per le operazioni fuori campo Iva

Al riguardo c’è da dire che, in generale, l’imposta di bollo è dovuta per tutte le fatture e per tutte le ricevute che, aventi un importo superiore alla soglia dei 77,47 euro, non prevedono l’addebito dell’Iva. In tal caso, infatti, c’è l’obbligo di legge di apporre sulla fattura o sulla ricevuta una marca da bollo da 2 euro il cui contrassegno automatico si può acquistare in tabaccheria. Inoltre, la marca da bollo da 2 euro deve essere apposta ai sensi di legge sempre e solo sul documento originale.

Riguardo a chi paga la marca da bollo da 2 euro sulla fattura, questa è sempre a carico del debitore. Pur tuttavia, senza l’applicazione della marca da bollo, per il regime sanzionatorio sono obbligatamente solidali entrambe le parti in causa, ovverosia sia chi ha emesso, sia chi ha ricevuto la fattura o la ricevuta.

Ecco chi paga l’imposta di bollo sulle fatture elettroniche e come si versa

Per le fatture elettroniche che transitano sul Sistema di Interscambio che è gestito dall’Agenzia delle Entrate, e che sono soggette al pagamento dell’imposta di bollo, la tassa che è a carico del cliente non viene assolta con la classica marca, ma viene assolta in maniera virtuale e, tra l’altro, non deve essere specificata nell’e-documento.

Per il versamento dell’imposta di bollo sulle fatture elettroniche, che avviene su base trimestrale, l’Agenzia delle Entrate mette a disposizione dei contribuenti titolari di partita Iva due elenchi. E precisamente l’elenco A, che è non modificabile, dove sono presenti tutte le fatture per le quali è stato indicato correttamente l’assolvimento dell’imposta di bollo. E l’elenco B che, invece, è modificabile da parte del contribuente.

Scaduti i termini di visione e di eventuali correzioni dei due elenchi, sarà direttamente l’Agenzia delle Entrate a calcolare l’imposta di bollo complessivamente dovuta. Con l’importo da pagare che sarà rilevabile dal portale ‘Fatture e corrispettivi‘. Il portale da dove, tra l’altro, è possibile indicare l’Iban ai fini dell’addebito diretto su conto corrente dell’importo dell’imposta di bollo dovuta. In alternativa, l’imposta di bollo si può pagare pure in modalità telematica con il modello F24.

Per il versamento in modalità telematica dell’imposta di bollo sulle fatture elettroniche, con il modello di pagamento unificato F24, occorre indicare e riportare correttamente i codici tributo. Ovverosia i codici tributo ‘2521‘, ‘2522‘, ‘2523‘ oppure ‘2524‘ se trattasi, rispettivamente, di imposta di bollo da pagare per il primo, per il secondo, per il terzo oppure per il quarto trimestre. Mentre i codici tributo ‘2525‘ e ‘2526‘, da indicare nel modello F24 con i relativi importi, sono quelli riguardanti, eventualmente, l’applicazione rispettivamente delle sanzioni e degli interessi.

Chi sono i lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali INPS?

In Italia l’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale (INPS) riconosce ed eroga le principali prestazioni pensionistiche in forza ad un primario istituto di assistenza sociale e previdenza. Si tratta, nello specifico, dell’Assicurazione Generale Obbligatoria (AGO) alla quale, in automatico, sono iscritti tutti i lavoratori che prestano attività retribuita e che sono alle dipendenze di soggetti terzi.

Con l’Assicurazione Generale Obbligatoria, che è gestita dall’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale (INPS), i lavoratori nel rispetto dei requisiti previsti possono accedere a tante prestazioni pensionistiche a partire dalla pensione di vecchiaia alla pensione di anzianità, e passando per la pensione ai superstiti. Ma anche la pensione di inabilità e l’assegno di invalidità.

AGO gestioni speciali INPS, ecco quali sono i lavoratori iscritti

Sempre nell’AGO, inoltre, ci sono i lavoratori autonomi che sono iscritti in apposite sezioni speciali che, in particolare, sono caratterizzate da autonomia finanziaria e pure da una contabilità separata. Si tratta, nello specifico, degli imprenditori agricoli, dei coltivatori diretti, dei commercianti e degli artigiani.

Nel dettaglio, le gestioni speciali INPS AGO sono 3, e precisamente quella per gli artigiani, quella per i commercianti e quella per i coltivatori diretti, imprenditori agricoli, mezzadri e coloni. In particolare, la gestione speciale per gli artigiani è stata istituita con la legge del 4 luglio del 1959 numero 463; la gestione speciale per i commercianti è stata istituita con la legge del 22 luglio del 1966 numero 613; mentre la gestione speciale per i coltivatori diretti, per gli imprenditori agricoli, per i mezzadri e per i coloni è stata istituita con la legge del 26 ottobre del 1957 numero 1047.

Contributi e aliquote INPS per artigiani, commercianti e coltivatori diretti

Per il 2021, l’aliquota contributiva per gli artigiani, per i commercianti e per i coltivatori diretti è pari al 24%. Con l’ammontare dei contributi da versare che è funzione di una quota fissa, che è calcolata sul cosiddetto minimale di reddito, e di una quota di contribuzione variabile in ragione dell’eventuale eccedenza.

Per esempio, a valere sull’anno 2021, il reddito minimo annuo da prendere come base, ai fini del calcolo del contributo IVS, è pari a 15.953,00 euro. Una soglia che è invariata rispetto all’anno 2020 per le gestioni speciali artigiani e commercianti. La quota variabile dei contributi si calcola invece sul reddito eccedente il minimale, ovverosia proprio su quello sopra la soglia dei 15.953,00 euro.

I contributi fissi si pagano in quattro rate con le scadenze, per il 2021, il 17 maggio, il 20 agosto, il 16 novembre ed il 16 febbraio del 2022. Mentre le scadenze per la quota di contributi eccedente il minimale, a titolo di saldo 2020, e pure di primo e di secondo acconto del 2021, seguono le stesse scadenze che sono previste per il versamento delle tasse che sono dovute in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi annuale.

Oltre al minimale di reddito, inoltre, ai fini del calcolo dei contributi INPS, per gli artigiani e per i commercianti, c’è pure il massimale imponibile di reddito annuo che è pari a 78.965,00 euro per chi è con anzianità contributiva alla data del 31 dicembre del 1995. Mentre il massimale 2021 sale a 103.055,00 euro per i lavoratori che sono privi di anzianità contributiva sempre alla data del 31 dicembre del 1995.

Artigiani e commercianti sono lavoratori autonomi?

Per i titolari di partita Iva in Italia la disciplina fiscale e contributiva non è uguale per tutti, ma cambia in maniera rilevante anche in base alla tipologia di attività esercitata. In particolare, per chi ha la partita Iva la differenza è sostanziale tra chi è un imprenditore individuale e chi, invece, esercita attività di lavoro autonomo. Ed allora, per esempio, gli artigiani sono dei lavoratori autonomi?

Ecco perché gli artigiani non sono dei lavoratori autonomi

Gli artigiani non sono dei lavoratori autonomi in quanto rientrano, come persone fisiche, nella categoria degli imprenditori individuali. In particolare, la figura del lavoratore autonomo risulta essere descritta dal codice civile in corrispondenza dall’articolo numero 2222. Mentre la figura dell’imprenditore individuale, incluso l’artigiano ed anche il commerciante, risulta essere descritta dal codice civile in corrispondenza dall’articolo numero 2082.

L’artigiano non è un lavoratore autonomo in quanto, in qualità di imprenditore individuale, svolge un’attività che è organizzata e che è finalizzata alla produzione e/o allo scambio di beni o di servizi. Per esempio un falegname che lavora il legno o il pasticcere che realizza dolci e torte. Così come è un artigiano e non un lavoratore autonomo quell’imprenditore individuale, come l’imbianchino o l’elettricista, che per i servizi da offrire necessita di una certa manualità.

Differenze tra lavoratori autonomi e artigiani, dagli adempimenti fiscali alla previdenza

Di conseguenza, se un lavoratore autonomo ed un artigiano sono accomunati dall’obbligo di apertura della partita Iva, in realtà tutto cambia dal fronte dell’inquadramento non solo a livello fiscale, ma anche previdenziale. E questo perché all’artigiano non basta l’apertura della partita Iva, ma deve pure iscriversi alla camera di commercio.

Così come il lavoratore autonomo per la previdenza pubblica obbligatoria versa i contributi nella gestione separata INPS oppure alla propria cassa professionale. Mentre l’artigiano versa i contributi sempre all’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale (INPS), ma nella gestione artigiani e commercianti.

Cambia quindi la cassa previdenziale tra lavoratori autonomi e artigiani. Ma per questi ultimi si aggiunge, come sopra accennato, pure l’obbligo di iscrizione al registro delle imprese tramite la Comunicazione Unica. Dopo aver avviato l’attività, l’artigiano entro 30 giorni dalla data di inizio dovrà richiedere sia l’apertura della partita Iva, sia l’iscrizione all’albo delle imprese artigiane.

Comunicazione Unica artigiani per ottemperare agli obblighi di legge

Con la Comunicazione Unica dal sito Internet starweb.infocamere.it, l’artigiano che ha avviato una nuova attività può mettersi in regola con gli obblighi di legge attraverso un servizio online per il quale, tra l’altro, non è necessario andare ad installare alcun software.

Con un’unica comunicazione, infatti, l’artigiano si metterà subito in regola verso l’albo delle imprese artigiane, verso il registro delle imprese e verso l’INPS. Ma anche verso l’INAIL, verso l’Agenzia delle Entrate e verso lo Sportello unico per le attività produttive (SUAP). La Comunicazione Unica, a partire dalla data dell’1 aprile del 2010, è peraltro l’unica modalità possibile non solo per la comunicazione di avvio di una nuova attività imprenditoriale, ma anche per comunicare le variazioni di imprese che sono già esistenti.

Come si paga l’imposta di bollo all’Agenzia delle Entrate?

In Italia molti atti che sono redatti in forma scritta scontano ai sensi di legge l’imposta di bollo che, a seconda dei casi, può essere proporzionale oppure fissa. Nella maggioranza dei casi l’imposta viene assolta tramite l’apposizione di un contrassegno telematico che è noto proprio come marca da bollo.

Ma ci sono pure casi in corrispondenza dei quali l’imposta di bollo non viene assolta attraverso l’apposizione di un contrassegno telematico. Questo accade, per esempio, per l’imposta di bollo che è dovuta dalle persone fisiche ai sensi di legge sulle giacenze annue sui conti correnti superiori alla soglia dei 5.000 euro.

L’imposta di bollo assolta con il contrassegno telematico e con il tramite di un intermediario

Ma detto questo, come si paga l’imposta di bollo all’Agenzia delle Entrate? Al riguardo c’è da dire che, quando la tassa viene assolta con il contrassegno telematico, il pagamento dell’imposta di bollo all’Agenzia delle Entrate avviene sempre per il tramite di un intermediario abilitato come lo è il tabaccaio.

Per esempio, attualmente ai sensi di legge tutte le fatture e tutte le ricevute fiscali dove non viene addebitata l’imposta sul valore aggiunto (Iva), e per le quali l’importo supera i 77,47 euro, scontano l’apposizione di una marca da bollo da 2 euro. Pagando, in tabaccheria sarà possibile chiedere l’emissione del contrassegno telematico da 2 euro da apporre sul documento.

Come si paga all’Agenzia delle Entrate l’imposta di bollo sulle cambiali

Tra i casi più comuni, che sono legati proprio all’obbligo di pagamento dell’imposta di bollo, spicca la tassa che è dovuta ai sensi di legge sulle cambiali. In tal caso, infatti, sul retro della cambiale dovrà essere apposto il bollo il cui valore è pari al 12 per mille della somma sottoscritta con il titolo di credito. E questo vale, in particolare, quando si tratta di cambiali tratte, mentre per i vaglia cambiari l’imposta di bollo è all’11 per mille. Anche in questo caso l’imposta di bollo all’Agenzia delle Entrate sulle cambiali viene pagata tramite l’emissione del relativo contrassegno telematico da parte di un intermediario abilitato.

Come si paga l’imposta di bollo sulle fatture elettroniche

Pur tuttavia, ci sono altri casi in corrispondenza dei quali il pagamento dell’imposta di bollo all’Agenzia delle Entrate non avviene per il tramite un intermediario abilitato. ll caso più eclatante è rappresentato dal pagamento dell’imposta di bollo sulle fatture elettroniche. In tal caso, infatti, il versamento dell’imposta di bollo non si effettua in tabaccheria, ma è direttamente l’Agenzia delle Entrate a calcolare l’importo della tassa da pagare tramite apposita procedura web che è presente sul portale ‘Fatture e Corrispettivi‘.

Indicando l’Iban, l’Agenzia delle Entrate preleverà l’imposta di bollo sulle fatture elettroniche direttamente dal conto corrente del contribuente. Oppure, in alternativa, il contribuente potrà versare l’imposta di bollo dovuta sulle fatture elettroniche utilizzando il modello F24 con la trasmissione che dovrà essere rigorosamente in modalità telematica.
In generale, quando il pagamento dell’imposta di bollo non avviene tramite gli intermediari abilitati, la tassa da parte del contribuente può essere versata e quindi assolta in modalità virtuale.

Qual è l’importo massimo deducibile nella dichiarazione dei redditi?

La deduzione, a livello fiscale, è un’agevolazione che garantisce un risparmio di imposta. In quanto permette al contribuente, che si tratti di una persona fisica o di un’impresa, di abbassare il reddito imponibile che è poi quello sul quale, in sede di dichiarazione dei redditi, si andranno a pagare le tasse. In particolare, nell’anno di imposta di riferimento, un onere è deducibile quando questo è stato effettivamente sostenuto dal contribuente includendo pure quando la spesa è stata sostenuta per i familiari che sono fiscalmente a carico.

Per tutti gli oneri sostenuti e portati in deduzione fiscale, per l’anno di imposta di riferimento in sede di dichiarazione dei redditi, il contribuente è tenuto sempre a conservare tutta la documentazione originale. E, in caso di controlli o accertamenti fiscali, è poi obbligato a esibirla. Ma detto questo, qual è l’importo massimo deducibile nella dichiarazione dei redditi? Al riguardo c’è da dire che gli oneri deducibili sono davvero tanti e, nel rispetto dei requisiti di fruizione, presentano dei massimali che sono differenti caso per caso.

Ecco gli oneri deducibili più comuni, dai contributi previdenziali agli assegni di mantenimento

Per esempio, tra gli oneri deducibili più comuni rientrano i contributi versati dai lavoratori autonomi. In tal caso la percentuale di deduzione fiscale, in base al reddito, varia da un minimo del 23% ad un massimo del 43%. Si possono portare in deduzione fiscale, inoltre, pure i contributi che sono stati versati per la previdenza complementare fino ad un massimo di 5.164,57 euro.

Pure i contributi previdenziali versati per i lavoratori domestici, ovverosia per le colf, per le badanti e per le babysitter, rientrano allo stesso modo tra gli oneri deducibili. La percentuale di deducibilità fiscale varia sempre in base al reddito dal 23% al 43%, ma con un massimale che in questo caso è pari al 1549,37 euro.

Sono deducibili dal reddito, sempre dal 23% al 43% in base al reddito, pure gli assegni di mantenimento che, nell’anno di imposta di riferimento, sono stati versati all’ex coniuge. Così come, in caso di adozione internazionale, il 50% della spesa che è stata sostenuta è deducibile fiscalmente dal 23% al 43% in base al reddito.

La deducibilità fiscale dal reddito di impresa delle erogazioni liberali per il Covid-19

La deducibilità fiscale di oneri e spese, tra l’altro, può variare nel tempo in base alle disposizioni di legge. Per esempio, con il cosiddetto Decreto ‘Cura Italia’ è stata introdotta, per le imprese, la deducibilità fiscale per le erogazioni liberali, effettuate sempre con strumenti e servizi tracciabili, per gli interventi in materia di contenimento e di gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19.

Per l’anno di imposta 2020, e per i soggetti titolari di reddito d’impresa, le erogazioni liberali per il Covid-19 sono deducibili e non sono considerate come destinate a finalità che sono estranee all’esercizio dell’impresa. Ma a patto che le erogazioni liberali siano state effettuate in favore dello Stato italiano, delle Regioni, degli enti locali territoriali o di enti o istituzioni pubbliche. Oppure a favore di fondazioni e di associazioni ma a patto che siano legalmente riconosciute e senza scopo di lucro.