Come andare in pensione con il contratto di espansione, gli anticipi previsti per il 2021

Con il contratto di espansione, che è stato introdotto in via sperimentale con il Decreto Crescita, le aziende con almeno 100 addetti possono risolvere consensualmente il rapporto di lavoro con i dipendenti a patto di attivare uno scivolo pensionistico. Nell’ambito dei percorsi di riorganizzazione e di reindustrializzazione, infatti, le imprese possono licenziare i dipendenti a patto di garantire loro il pagamento di un’indennità che, assimilabile ad una pensione anticipata, ha una durata pari ad un massimo di 60 mesi.

Quali sono gli anticipi previsti nel 2021 per i contratti di espansione

Salvo proroghe e conseguenti modifiche a livello legislativo, attualmente lo scivolo pensionistico, grazie ai contratti di espansione, è possibile nel rispetto delle condizioni previste fino al mese di novembre del 2021. Si tratta, nello specifico, di una scadenza entro la quale l’impresa, con il dipendente prossimo o comunque vicino alla pensione, può concordare la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.

Il contratto di espansione, quindi, è una misura di esodo aziendale che, ai fini pensionistici, tutela il lavoratore con un’indennità che è sostanzialmente di accompagnamento verso la successiva maturazione dei requisiti di accesso alla pensione anticipata oppure a quella INPS di vecchiaia. Inizialmente previsto per le aziende con oltre 1.000 dipendenti, e poi con minimo 250 dipendenti, attualmente, come sopra accennato, il contratto di espansione è una misura che è accessibile anche da parte delle aziende con almeno 100 dipendenti.

Quali sono le tempistiche da rispettare per l’accesso al contratto di espansione

Nell’ambito di accordi tra i datori di lavoro e le organizzazioni sindacali, l’accesso al contratto di espansione è subordinato all‘esplicito consenso da parte del lavoratore. Inoltre il dipendente deve essere iscritto all’FPLD, ovverosia al Fondo pensioni lavoratori dipendenti, oppure ad altre forme sostitutive o esclusive dell’AGO che è l’Assicurazione Generale Obbligatoria gestita dall’INPS.

In più, per accedere ai contratti di espansione, i lavoratori devono trovarsi a livello previdenziale a non più di 60 mesi dalla maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione anticipata oppure alla prestazione INPS di vecchiaia. Rispettate tutte queste condizioni, il dipendente che accetta il contratto di espansione riceverà fino ad un massimo di 60 mesi l’indennità mensile che è pagata dall’INPS ma che è finanziata dall’azienda.

Perché i contratti di espansione sono vantaggiosi per l’azienda e per il lavoratore vicino alla pensione

Il contratto di espansione, quindi, è attualmente una delle opzioni per la flessibilità in uscita dei lavoratori da accompagnare alla pensione mentre l’impresa, a sua volta, con il consenso del dipendente può far leva su questo strumento per agevolare e per accelerare il ricambio generazionale. Con il dipendente che, stipulando il contratto di espansione, riceverà l’indennità mensile fino a quella che sarà la prima data utile per l’accesso alla pensione anticipata o di vecchiaia come sopra accennato.

L’indennità mensile riconosciuta, tra l’altro, è cumulabile pure con altri redditi da lavoro dipendente e da lavoro autonomo o da libera professione. Così come all’accompagnamento quinquennale alla pensione, grazie ai contratti di espansione, possono accedere non solo i dipendenti che sono stati assunti a tempo indeterminato, ma anche i dirigenti ed i lavoratori con il contratto di apprendistato.

Bonus locazione può compensare IMU?

I contribuenti che hanno maturato o acquisito un credito di imposta hanno la possibilità di sfruttarlo per pagare meno tasse, ovverosia per portarlo in compensazione con i debiti fiscali. Questo in linea generale fermo restando che, in base anche al tipo di credito di imposta, per le operazioni di compensazione ci sono delle regole e spesso anche delle scadenze da rispettare. Per esempio, il cosiddetto bonus locazione si può sfruttare per pagare l’IMU proprio attraverso un’operazione di compensazione tra i crediti ed i debiti fiscali?

Come e quando si può compensare il bonus locazione con il pagamento dell’IMU

In effetti, sotto determinate condizioni, il bonus locazione si può portare in compensazione con il pagamento dell’IMU. E questo accade, per esempio, quando per il canone di locazione di immobili non abitativi il locatario cede al proprietario il bonus.

Pur tuttavia, il bonus locazione può compensare l’IMU da pagare rispettando le tempistiche previste. Al riguardo, infatti, per pagare l’IMU compensando con il bonus locazione è necessario sfruttare il credito di imposta entro e non oltre il 31 dicembre dell’anno in corrispondenza del quale è stata comunicata la cessione del credito.

Quali sono le caratteristiche del bonus locazione e quando è stato istituito

Il bonus locazione, con il decreto legge numero 34 del 2020, ovverosia con il cosiddetto Decreto Rilancio, in corrispondenza dell’articolo numero 28, è stato istituito come credito di imposta per i mesi di marzo, di aprile e di maggio del 2020. E poi è stato ripristinato dal Governo Italiano, guidato dal premier Mario Draghi, con il cosiddetto Decreto Sostegni bis.

Il bonus affitti non è altro che un credito di imposta pari al 60% dei canoni di locazione per immobili ad uso non abitativo che, in particolare, sono destinati allo svolgimento di attività industriale, commerciale, artigianale ed anche agricola. Il bonus locazione spetta pur tuttavia a patto di aver subito una diminuzione del fatturato che, pari ad almeno il 50% con il Decreto Rilancio, è stata poi abbassata dal 50% ad almeno il 30% con il Decreto Sostegni bis.

Cosa succede al bonus affitto se non viene utilizzato ai sensi del dl 34/2020

Ai sensi del sopra citato dl 34/2020, ed in particolare dell’articolo 122 in corrispondenza del comma 3, bisogna in ogni caso fare molta attenzione alla fruizione del bonus affitto nei termini previsti. Al riguardo, infatti, ai sensi di legge i cessionari utilizzano il credito di imposta con le stesse modalità con le quali sarebbe stato utilizzato da parte dei soggetti cedenti.

Il che significa, nello specifico, che il credito di imposta che è rappresentato dal bonus locazione, se non utilizzato entro il 31 dicembre dell’anno in corrispondenza del quale è stata comunicata la cessione, questo non potrà poi essere utilizzato, chiesto a rimborso oppure ceduto negli anni successivi.

Per la cessione del credito di imposta a terzi, rappresentato dal bonus locazione, ricordiamo infine che la procedura corretta è quella prevista online dal Fisco. Ovverosia accedendo alle apposite funzionalità che sono messe a disposizione dal sito Internet dell’Agenzia delle Entrate accedendo tramite le credenziali alla propria area riservata.

Superbonus 110% e requisito APE in condominio con gli interventi privati, si può fare?

Il Superbonus 110% è un’agevolazione fiscale che in Italia sta contribuendo a dare slancio alle imprese del settore edile e delle costruzioni. E nello stesso tempo i cittadini, con un sensibile abbattimento della spesa, possono rendere gli immobili più efficienti a livello energetico e più sicuri anche quando, in condominio, gli interventi sono realizzati sulle parti comuni.

Pur tuttavia pure per il Superbonus 110%, al pari di tutte le altre agevolazioni fiscali di Stato, ci sono delle condizioni di accesso alle detrazioni che devono essere rigorosamente rispettate. Tra i dubbi che possono sorgere al riguardo, per chi vive in condominio, c’è quello relativo al raggiungimento del livello dell’APE che è poi necessario al fine poi di poter godere delle detrazioni fiscali legate al Superbonus 110%.

Requisito APE in condominio è raggiungibile con gli interventi privati per il Superbonus 110%?

Per esempio, il Superbonus 110% è compatibile con il requisito APE in condominio con gli interventi privati e non su parti comuni? In altre parole, per rendere l’idea, per un condominio senza caldaia condivisa, il requisito APE in condominio, ai fini dell’accesso al Superbonus 110%, si può comunque ottenere con interventi privati, ovverosia andando a sostituire le singole caldaie negli appartamenti di proprietà di singoli condomini? Al riguardo la risposta è negativa in quanto, per il Superbonus 110% e requisito APE in condominio con interventi di climatizzazione, questi devono sempre andare ad interessare le parti comuni dell’edificio.

Perché gli interventi privati di efficienza energetica non concorrono al Superbonus 110% condominio

I lavori sulle singole caldaie dei condomini, infatti, possono essere sempre agevolabili, ma in questo attraverso l’Ecobonus ottenendo così per l’intero condominio un aumento dell’efficienza energetica. Pur tuttavia, ai fini del raggiungimento requisito APE in condominio con interventi privati, le prestazioni delle singole caldaie, al fine di raggiungere il livello richiesto di efficienza energetica certificato, non si possono sommare ai fini dell’accesso al Superbonus 110%.

Come funziona l’APE convenzionale per l’accesso al Superbonus 110% condominio

A patto, come sopra spiegato, di effettuare gli interventi sulle parti comuni, l’accesso al Superbonus 110% in condominio è subordinato, effettuando i lavori, al salto di due classi energetiche. Questo incremento dell’efficienza energetica, al fine di poter sfruttare tutti i vantaggi fiscali del Superbonus 110%, non è altro che una delle asseverazioni che il tecnico incaricato deve poi andare a firmare e, quindi, a certificare.

Se l’edificio è composto da più unità immobiliari, l’APE che deve redigere il tecnico è detta convenzionale. E questo perché, al fine di determinare post interventi la nuova classe energetica dell’edificio, l’indice di prestazione complessivo si calcola, attraverso una media pesata, a partire dagli indici di prestazione energetica delle singole unità immobiliari. A questo punto, se il requisito del salto di due classi energetiche sarà conseguito, allora le detrazioni fiscali del Superbonus 110% condominio saranno pienamente fruibili ai sensi di legge.

Per chi volesse saperne di più, il documento di riferimento è quello che è rappresentato dal ‘Decreto Requisiti tecnici per l’accesso alle detrazioni fiscali per la riqualificazione energetica degli edifici‘ che, il 6 agosto del 2020, è stato pubblicato dal Ministero dello Sviluppo Economico (MiSE).

Quanto costa al dipendente il fringe benefit?

Il datore di lavoro può concedere ai dipendenti dei compensi in natura, ovverosia dei benefici accessori che sono comunemente noti come fringe benefits. Rispetto ai compensi in denaro, i fringe benefits in Italia beneficiano di una tassazione agevolata che spazia dalle soglie di esenzione e fino ad arrivare alla determinazione delle imposte su base forfetaria. Ed allora, in concreto, quanto costa al dipendente il fringe benefit?

Quanto costa al dipendente il fringe benefit, dalla soglia di esenzione alla tassazione

Nel dettaglio, il meccanismo di tassazione dei fringe benefits si basa su una soglia di esenzione oltre la quale il valore del compenso in natura è soggetto a tassazione e, quindi, concorre a formare il reddito del lavoratore.

Pur tuttavia, come sopra accennato, per alcuni beni e servizi concessi in natura da parte del datore di lavoro ci sono degli specifici criteri di determinazione forfetaria dei valori da andare ad assoggettare a tassazione. E questo in base al tipo di bene o di servizio concesso sotto forma di fringe benefit, da un prestito ad un immobile e passando per le auto aziendali ad uso promiscuo.

La determinazione del fringe-benefit per le auto aziendali ad uso promiscuo

Per esempio, per le auto aziendali ad uso promiscuo, entro il 31 dicembre di ogni anno, con la validità per l’anno successivo, vengono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale le tariffe per la la determinazione del fringe-benefit. Ovverosia per il beneficio accessorio che è rappresentato dalla concessione da parte del datore di lavoro della retribuzione in natura che è rappresentata dall’auto aziendale che è utilizzabile dal dipendente sia per le esigenze di lavoro, sia per le esigenze private.

Il valore del fringe benefit quando il datore di lavoro dà la casa al dipendente

Tra i fringe benefits rientrano, come sopra accennato, pure le concessioni di immobili ai dipendenti da parte del datore di lavoro. Ed in questo caso, in termini di tassazione, cosa succede quando il datore di lavoro concede un alloggio al proprio dipendente?

In tal caso il valore del fringe benefit è calcolato in base alla somma tra la rendita catastale del fabbricato e le eventuali spese inerenti. A questa somma va poi sottratta la somma versata o trattenuta al dipendente.

Inoltre, il valore del fringe benefit così calcolato si assume al 30% della predetta differenza quando i fabbricati da parte del datore di lavoro sono concessi in connessione all’obbligo di dimorare, da parte del lavoratore dipendente, nell’alloggio stesso.

Il compenso in natura quando l’azienda concede un prestito al lavoratore

Pure la concessione di prestiti al dipendente, da parte del datore di lavoro, rientra tra i benefici accessori e, quindi, tra i compensi in natura. Con il valore del fringe benefit sui cui andare ad applicare la tassazione che in questo caso è dato dal 50% di una differenza. Quella tra l’importo degli interessi che, al termine di ciascun anno, viene calcolato in base al TUR (tasso ufficiale di riferimento), e l’importo degli interessi che è calcolato al tasso che viene realmente applicato sulla somma prestata.

Pensione anticipata 2022: quali ipotesi per il nuovo anno?

Dal prossimo anno, salvo clamorose sorprese, non sarà più possibile andare in pensione con la quota 100. Ed allora, in vista del nuovo anno, quali sono le ipotesi di pensione anticipata nel 2022? Al netto di interventi legislativi da qui a fine anno, senza i vantaggi offerti dalla quota 100, ad oggi la strada percorribile per il pensionamento anticipato è quella standard rispetto, invece, ai requisiti anagrafici e contributivi per l’accesso alla pensione di vecchiaia.

Pensione anticipata nel 2022, quali sono ad oggi i requisiti?

Nel dettaglio, ad oggi i requisiti per la pensione anticipata nel 2022 coincidono con quelli che sono attualmente in vigore e, in particolare, questi non presentano dei vincoli sull’età anagrafica ma solo sull’anzianità contributiva. Ovverosia, 42 anni e 10 mesi di contributi previdenziali versati per gli uomini, e 41 anni e 10 mesi di contributi previdenziali per le donne che decidono di presentare all’INPS la domanda di accesso alla pensione anticipata.

Accesso alla pensione anticipata nel 2022 con l’opzione contributiva, ecco come

Inoltre, sempre riguardo alla pensione anticipata nel 2022, attualmente è possibile ritirarsi dal lavoro, prima della maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia, grazie alla cosiddetta opzione contributiva. In tal caso servono 64 anni di età e 20 anni di contributi previdenziali versati, ma a patto che il lavoratore non abbia maturato un’anzianità contributiva prima della data dell’1 gennaio del 1996.

Come andare in pensione nel 2022 senza la quota 100 e senza i requisiti per l’anticipata

Senza la quota 100, e senza aver maturato i requisiti per accesso all’anticipata come sopra descritto, come andare in pensione nel 2022? Ad oggi non ci sono altre alternative rispetto alla maturazione dei requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia.

Ovverosia 67 anni di età per quel che riguarda il requisito anagrafico, ed almeno 20 anni di contributi previdenziali versati. Per gli addetti alle mansioni gravose, pur tuttavia, il requisito anagrafico scende da 67 anni a 66 anni e 7 mesi di età.

In assenza del requisito di anzianità contributiva, inoltre, la pensione di vecchiaia è ottenibile con 71 anni di età e con almeno 5 anni di contributi previdenziali versati. Ma a patto che si rientri interamente nel regime di calcolo pensionistico contributivo.

Come sarà dal prossimo anno il post quota 100?

Le ipotesi sul tavolo per il nuovo anno, in materia di pensionamento anticipato, sono tante anche perché le discussioni del Governo italiano con le parti sociali continuano senza che sia ancora stata raggiunta la quadratura del cerchio.

Tra i sindacati che, non a caso, da un lato chiedono delle formule di pensionamento anticipato senza vincoli e senza penalizzazioni, e dall’altro il Governo italiano che invece, ai fini del contenimento dei costi, punta al post quota 100 introducendo, tra le ipotesi al vaglio, la quota 102. Ovverosia con 64 anni di età, con 38 anni contributivi e con delle penalizzazioni in uscita anticipata dal lavoro.

La prudenza del Governo italiano, sul superamento della quota 100, è anche dettata dai recenti rilievi da parte della Corte dei conti che, nello stimare la spesa previdenziale per il 2021 in Italia, non ha escluso per i conti pubblici l’emergere di elementi di criticità per i prossimi due anni.

Partita Iva con il codice fiscale, tutto quello che c’è da sapere

Quando con il codice fiscale un contribuente ha anche la partita Iva e quando invece no? Inoltre, quando il codice fiscale e la partita Iva coincidono, e quando invece no? Al riguardo c’è da dire, prima di tutto, che i contribuenti possono essere suddivisi in tre grandi categorie. Ovverosia in persone fisiche, in persone fisiche che sono titolari di una ditta individuale, ed in persone giuridiche.

Partita Iva con il codice fiscale, dal comune cittadino alla persona giuridica

Nel dettaglio, quando il contribuente è un comune cittadino, magari un lavoratore dipendente, la partita Iva con il codice fiscale non ha motivo di esistere. In tal caso, infatti, il contribuente avrà solo il codice fiscale che, come per tutti, in Italia è composto da 16 caratteri alfanumerici, ovverosia da lettere e da cifre.

Per la persona fisica che è titolare di una ditta individuale, oppure è un libero professionista, invece, la partita Iva con il codice fiscale ha motivo di esistere. Inoltre, nella fattispecie la partita Iva ed il codice fiscale non coincidono mai, in quanto la partita Iva è composta da 11 caratteri numerici mentre la partita Iva, come sopra detto, è composta da 16 caratteri alfanumerici. Per una persona giuridica, invece, la partita Iva con il codice fiscale in genere coincidono.

Qual è l’iter di attribuzione della partita Iva con il codice fiscale?

L’attribuzione del codice fiscale in Italia avviene alla nascita, e precisamente nel momento in cui il neonato viene iscritto nei registri dell’anagrafe. Questo basta affinché il tesserino con il codice fiscale venga poi inviato in automatico a casa della famiglia dove vive il neonato.

L’iter di attribuzione della partita Iva, invece, avviene sempre alla nascita, ma in tal caso si parla di costituzione di un’impresa o di una ditta individuale. In tal caso, entro e non oltre 30 giorni dalla data di inizio attività, per l’attribuzione della partita Iva occorre presentare all’Agenzia delle Entrate il modello modello AA9/12.

Per le attività con obbligo di iscrizione al registro delle imprese, pur tuttavia, la richiesta di attribuzione della partita Iva deve essere effettuata con la procedura informatica che è rappresentata dalla Comunicazione Unica.

A cosa serve la partita Iva con il codice fiscale ai sensi di legge

Il codice fiscale permette all’Agenzia delle Entrate, tramite l’anagrafe tributaria, di registrare ed eventualmente di controllare tutti i dati rilevanti del contribuente. Inoltre, un cittadino senza codice fiscale non potrebbe, per esempio, aprire un conto corrente. Così come non potrebbe nemmeno comprare o vendere un immobile, accedere ad un finanziamento, comprare un’auto ed ottenere, tra l’altro, un rimborso delle tasse.

Al pari del codice fiscale, pure la partita Iva è fondamentale per un’impresa che esercita in Italia un’attività ai sensi di legge. La partita Iva, tra l’altro, serve per emettere le fatture, per dichiarare legalmente gli incassi all’Agenzia delle Entrate e, inoltre, pure per poter fruire di eventuali agevolazioni fiscali. Così come, al pari di un cittadino che è senza codice fiscale, pure un’impresa senza la partita Iva non potrebbe aprire un conto corrente.

Come fare un piano strategico aziendale chiaro ed efficace

Per un’impresa fissare degli obiettivi di medio e di lungo termine è fondamentale per tante ragioni. A partire dal fatto che i soci si aspettano sempre la generazione di utili crescenti ed anche la distribuzione periodica dei profitti conseguiti sotto forma di dividendo. A tal fine mettere a punto un piano strategico aziendale è d’obbligo in quanto solo in questo modo saranno chiari gli obiettivi e soprattutto le tappe per lo sviluppo di un’impresa che, tra l’altro, deve tenere conto pure della concorrenza. Ed allora, come fare un piano strategico aziendale che sia davvero chiaro ed efficace?

Ecco come fare un piano strategico aziendale chiaro ed efficace

Nel dettaglio, per mettere a punto un piano strategico aziendale che sia chiaro ed efficace occorre, prima di tutto, fornire una visione chiara del business d’impresa attraverso una suddivisione in aree di lavoro su cui fissare degli obiettivi.

Ed associando a queste aree di lavoro eventuali progetti in essere o da programmare per raggiungere i target aziendali per ogni obiettivo che è stato definito. Inoltre, per ogni obiettivo fissato, nel piano strategico aziendale non può e non deve mancare la sezione con gli indicatori economici e finanziari che si vogliono raggiungere al termine dell’implementazione del piano stesso che in genere ha una durata pluriennale.

Quali sono le aree di lavoro da fissare nel piano strategico aziendale

Sebbene non ci sia uno schema standard per redigere un piano strategico aziendale, tra le aree di lavoro da fissare, con associati i relativi obiettivi, non può mancare quella relativa alla comunicazione d’impresa ed al brand. Così come sono aree di lavoro chiave quelle legate al rapporto con i clienti e con i fornitori e, in prospettiva, l’innovazione di prodotto, il mantenimento della stabilità a livello economico e finanziario, e come l’impresa sul mercato nel medio e nel lungo periodo intende svilupparsi e possibilmente crescere anche in termini dimensionali.

Obiettivi del piano strategico aziendale, come si fissano?

Per ogni area di lavoro definita nel piano strategico aziendale, tutti gli obiettivi fissati devono essere non solo specifici, ma devono essere corredati pure da linee guida su cosa si intende realmente fare. Gli obiettivi fissati per ogni area di lavoro devono includere delle strategie di miglioramento fissando anche una deadline. In genere gli obiettivi strategici associati alle aree di lavoro hanno una deadline avente la durata di un anno e si fanno coincidere con la durata del bilancio di esercizio.

I KPI aziendali da fissare nel piano strategico di un’impresa

Nel piano strategico di un’impresa, infine, devono essere sempre presenti i KPI aziendali, ovverosia i Key Performance Indicator. I KPI, nello specifico, sono degli indicatori strategici che, essendo tangibili, misurabili e nella maggioranza dei casi pure di tipo numerico, permettono di capire quali sono i target da raggiungere.

Target che, tra l’altro, non riguardano solo le vendite e quindi il fatturato e, di conseguenza, i profitti, ma pure altri indicatori chiave per la crescita di un’impresa che spaziano dal tasso di automazione e di automatizzazione aziendale, al grado di soddisfazione di dipendenti, clienti e fornitori, e passando per i livelli di qualità dei prodotti e dei servizi.

Insinuazione al passivo azienda fallita, come fare

Le imprese che sono in dissesto finanziario possono accedere, in presenza di determinati requisiti, ad una procedura concorsuale liquidatoria che è rappresentata dall’istituto giuridico del fallimento. In tal caso i creditori, al fine di ricevere i pagamenti, devono presentare la domanda di insinuazione al passivo fallimentare. A gestire la procedura fallimentare è il Tribunale che nomina il curatore fallimentare proprio al fine di gestire il fallimento.

A chi presentare la domanda di insinuazione al passivo azienda fallita

La domanda di insinuazione al passivo, da parte dei creditori, si presenta proprio al Tribunale che valuterà, insieme al curatore fallimentare, se il credito per il quale si richiede il pagamento è effettivamente dovuto. Essendo inoltre un’impresa fallita in una condizione di dissesto finanziario, salvo rare eccezioni i creditori quasi mai vengono pagati interamente. E questo anche in base alle somme dovute in quanto, all’interno della procedura fallimentare, non tutti i crediti sono considerati allo stesso modo.

Crediti privilegiati e crediti chirografari quando l’azienda è fallita

All’interno della procedura concorsuale liquidatoria attivata per un’azienda fallita, infatti, ci sono i crediti che vengono pagati sempre prima degli altri. Si tratta, nello specifico, dei cosiddetti crediti privilegiati che vengono pagati prima degli altri in quanto, ai sensi di legge, godono di una corsia preferenziale.

Solo dopo il pagamento dei crediti privilegiati, se c’è ancora disponibilità, si procederà con il pagamento dei crediti non privilegiati che sono detti chirografari in quanto non sono assistiti da privilegio. Per rendere l’idea, sono crediti privilegiati quelli che l’azienda fallita deve pagare ai lavori dipendenti, mentre sono crediti chirografari quelli di un fornitore di beni o di servizi che ha emesso la fattura per la prestazione resa, ma questa non è stata pagata.

Come presentare la domanda di insinuazione al passivo se l’azienda è fallita

Se l’azienda è fallita, come sopra accennato, il creditore deve presentare la domanda di insinuazione al passato al Tribunale anche senza avvalersi dell’assistenza di un avvocato. E indicando, nello specifico, la natura e la causa del credito unitamente agli importi dovuti.

Nell’istanza, inoltre, bisogna indicare l’azienda fallita, l’azienda creditrice, il tribunale che ha in cura la procedura fallimentare, nonché tutti i documenti fondanti ed accertanti il credito, per esempio la busta paga oppure la fattura.

La domanda, debitamente firmata, dovrà poi essere scansionata in formato PDF e inoltrata, insieme a tutta la documentazione attestante il credito, all’indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) del curatore fallimentare. Nella domanda, inoltre, occorre indicare l’indirizzo PEC al quale ricevere eventuali comunicazioni.

Se il creditore è un’impresa, l’istanza di insinuazione al passivo deve essere firmata dall’amministratore o dal legale rappresentante. Ed in ogni caso, per tutta la documentazione allegata, occorre sempre dichiarare, sotto la propria responsabilità, che questa risulta essere conforme all’originale.

In più, se il credito non è rappresentato da una busta paga o da una fattura, ma per esempio da assegni o cambiali, allora questi dovranno essere depositati in originale presso la cancelleria del Tribunale entro e non oltre il giorno in corrispondenza del quale è stata fissata l’udienza.

Contratto: cosa significa che ha forza di legge tra le parti?

ll contratto in Italia ai sensi di legge, e precisamente a norma dell’articolo 1321 del codice civile, è un negozio giuridico che costituisce, che regola e che eventualmente estingue un accordo tra due o più parti. Il contratto è quindi un negozio giuridico che, come minimo, deve essere necessariamente bilaterale, ma nello stesso tempo ci sono delle eccezioni come per esempio il testamento che è unilaterale.

Il contratto, inoltre, nella maggioranza dei casi si presenta come un rapporto giuridico di natura patrimoniale, ma anche in questo caso ci sono delle eccezioni che sono rappresentate, per esempio, dal matrimonio che non ha un contenuto patrimoniale. Ma detto questo, per il contratto cosa significa che ha forza di legge tra le parti?

Cosa significa che il contratto ha forza di legge tra le parti

Nel dettaglio, ai sensi di legge il contratto ha forza di legge tra le parti in quanto i contraenti sono obbligati e quindi hanno il dovere di osservarlo nella sua interezza. Per tutta la sua durata, infatti, il contratto è un negozio giuridico che è vincolante, con la conseguenza che, in caso di inadempienza, chi non lo rispetta ne sopporta la responsabilità.

E questo perché la stipula di un contratto è basata sullo scambio di consenso tra due o più parti. Con la conseguenza che c’è stato sul negozio giuridico un accordo per il quale tutte le parti si sono a priori impegnate a vicenda nel pieno rispetto dei suoi contenuti.

Quali sono le caratteristiche che deve avere un contratto per rispettare la legge

Il contratto, come negozio giuridico che definisce degli accordi tra due o più parti, deve avere come oggetto, come prestazione o come diritto dei contenuti che siano sempre rispettosi della legge.

Fatto salvo il principio di libertà della forma, infatti, l’oggetto, la prestazione o il diritto del contratto deve essere possibile, deve essere lecito e deve essere pure determinato o comunque determinabile.

Altrimenti in mancanza di questi requisiti sopra indicati si può ricadere nella causa di nullità del contratto. Per legge, tra l’altro, il contratto nullo è tale che questo non produce effetti tra le parti, e nemmeno nei confronti di terzi.

L’annullabilità, la risoluzione e la cessione del contratto

La causa di nullità, inoltre, non va confusa con l’annullabilità di un contratto, eventualmente inserita come clausola, e con la sua risoluzione. Ai sensi di legge, in particolare, la risoluzione di un contratto può essere richiesta da uno dei contraenti per sopravvenuta impossibilità della prestazione, per eccessiva onerosità e, chiaramente, in caso di inadempienza da parte di uno dei contraenti.

E questo perché il contratto è un negozio giuridico che ha validità fino a quando il vincolo resta in vita. Nel momento in cui il contratto è stato annullato oppure rescisso, questo andrà a perdere in automatico la sua efficacia originaria.

Il rapporto giuridico sussistente dalla stipula di un contratto, inoltre, può essere oggetto di un’operazione di cessione. Con la cessione del contratto, infatti, si verifica il trasferimento dell’intera posizione giuridica negoziale in favore di una terza parte.

Che differenza c’è tra una cooperativa ed un’azienda?

Quando nasce un’azienda, per esempio una società per azioni oppure una società a responsabilità limitata, lo scopo primario è quello di conseguire dall’attività un utile da andare a distribuire ai soci. Non a caso le società per azioni e le società a responsabilità limitata rientrano tra le cosiddette società lucrative, ma non sempre una società viene costituita con il fine di lucro.

Differenza tra aziende e cooperative, dai fini di lucro agli scopi mutualistici

Ci sono infatti società che, a favore dei soci, non puntano alla distribuzione di profitti ma al soddisfacimento di determinati bisogni che possono essere rappresentati da beni e servizi oppure da bisogni di natura occupazionale. Come impresa della comunità, rispetto ad un’azienda, la cooperativa differisce dalle società lucrative proprio perché persegue degli obiettivi e degli scopi mutualistici.

Azienda vs cooperativa, le differenze sulla governance e sul capitale sociale

Come impresa della comunità, infatti, nella cooperativa, rispetto per esempio alla società per azioni, tutti i soci hanno pari diritti ed hanno lo stesso peso. Il principio che regge una cooperativa, in termini di governance, non a caso, è quello che prevede una testa ed un voto. Ovverosia, il socio della cooperativa corrisponde sempre al peso di un solo voto mentre nella società per azioni il peso di un socio è in proporzione alla sua partecipazione e, quindi, al numero di azioni possedute.

In più, la cooperativa per definizione è una società a capitale variabile in quanto nell’atto costitutivo non possono essere presenti delle clausole tali da vietare del tutto l’ingresso a nuovi soci. E se per la governance vige il principio di una testa un voto, il principio che vieta per una cooperativa le clausole nell’atto costitutivo, che impediscano l’ingresso dei nuovi soci, è definito come principio della porta aperta.

Ecco perché la cooperativa non è mai una società lucrativa

Tra le società mutualistiche per antonomasia, la cooperativa non ha fini di lucro in quanto, ai sensi di legge, sul patrimonio vige il vincolo di indivisibilità. In altre parole, con lo scioglimento di una cooperativa i soci possono al più riappropriarsi delle quote di capitale versate, ma non possono incassare alcun valore legato alla vendita in quanto tutto va ai fondi mutualistici. Mentre con lo scioglimento di una società di capitali l’eventuale attivo, valorizzato e monetizzato, viene distribuito ai soci, dopo aver saldato tutti i debiti, in proporzione alle quote possedute.

Come si costituisce una cooperativa, dai soci alla comunicazione di inizio attività

Attualmente per la costituzione di una cooperativa servono almeno 3 persone con la redazione dell’atto costitutivo e dello statuto per atto pubblico. Ai sensi si legge, inoltre, la cooperativa deve iscriversi nel registro delle imprese, deve ricevere l’attribuzione del codice fiscale e della partita Iva, ed occorre altresì comunicare alla Camera di Commercio ed all’Agenzia delle Entrate l’inizio dell’attività.

Per settore economico, la cooperativa può operare nei settori più svariati. Per esempio, è possibile costituire una cooperativa agricola, una cooperativa di servizi oppure di produzione e lavoro. Ma ci sono, tra le altre, pure le cooperative culturali, le cooperative edilizie di abitazione e le cooperative di consumo.