Agevolazioni prima casa, si perdono se la residenza non viene trasferita

L’acquisto della prima casa è il sogno di molte persone e il legislatore ha ben pensato di riconoscere agevolazioni fiscali per coloro che decidono di compiere il grande passo. La normativa però prevecde delle condizioni e le agevolazioni si perdono nel caso in cui queste non siano rispettate. La Corte di Cassazione in un’importante pronuncia ha stabilito che il mancato ottenimento della certificazione di abitabilità non costituisce causa di forza maggiore e di conseguenza può portare alla perdita delle agevolazioni fiscali se il beneficiario non provvede al trasferimento della residenza nel Comune in cui è ubicato l’immobile nell’arco di 18 mesi dal perfezionamento dell’acquisto.

Agevolazioni fiscali acquisto prima casa: per la Corte di Cassazione l’assenza di certificato di abitabilità non è causa forza maggiore

Le agevolazioni fiscali legate all’acquisto della prima casa sono particolarmente importanti e sussistono sia nel caso in cui ci sia un atto di compravendita tra privati, sia nel caso in cui l’atto sia tra un privato e un’impresa.

Per conoscere i benefici di cui si può usufruire, è consigliata la lettura dell’articolo: Agevolazioni fiscali per l’acquisto prima casa e proroga termini under 36.

Per poter avere questo beneficio sono però necessarie delle condizioni, deve infatti trattarsi di un’abitazione nella quale si vuole fissare la propria residenza e di conseguenza affinché non siano persi i benefici fiscali inizialmente ottenuti, il contribuente deve provvedere a fissare la residenza nel Comune  in cui si trova l’immobile entro 18 mesi.

Nel caso in oggetto, trattato con la sentenza 34865 del 17 novembre 2021 pronunciata dalla Corte Di Cassazione, i proprietari non avevano provveduto ad ottemperare e di conseguenza l’Agenzia delle Entrate aveva notificato al contribuente una cartella per il recupero delle maggiori imposte Iva e delle imposte sostitutive sulle operazioni di credito a medio e lungo termine ex artt. 15 e ss del DPR 601/1073, le stesse erano dovute in quanto l’Agenzia aveva provveduto alla revoca delle agevolazioni “prima casa”. La revoca era collegata al mancato trasferimento della residenza nel Comune in cui era ubicato l’immobile per il quale erano state ottenute le agevolazioni.

Le parti si erano difese adducendo che il mancato trasferimento era dovuto al mancato completamento dei lavori di ristrutturazione nell’immobile da cui era conseguito il mancato rilascio del certificato di abitabilità o agibilità. In primo grado (Commissione Tributaria Provinciale di Treviso) e in secondo grado (Commissione Tributaria Regionale Veneto) si accoglie il ricorso del contribuente, ma l’Agenzia delle Entrate propone il ricorso in Cassazione ed è qui che le sorti mutano.

Per quali motivi la Corte di Cassazione accoglie il ricorso?

Il primo motivo per il mancato accoglimento del ricorso è che in realtà la disciplina relativa alle agevolazioni fiscali per l’acquisto della prima casa prevede che entro i 18 mesi la residenza sia trasferita nel Comune in cui si trova l’immobile, ma non nell’immobile, quindi la non agibilità non è un motivo sufficiente e non può essere ritenuto una causa di forza maggiore. Per causa di forza maggiore, come sottolineato dalla Corte di Cassazione, deve intendersi un evento imprevedibile, inaspettato e che sovrasta la volontà del soggetto.

La Corte di Cassazione nella sentenza a Sezioni Unite 8094/20 afferma che  è configurabile ” non per un comportamento direttamente o indirettamente ascivibile all’acquirente, tempestivamente attivatosi, ma per una causa esterna, sopravvenuta, imprevedibile ed inevitabile, malgrado l’adozione di tutte le precauzioni del caso, tale da configurare la forza maggiore“, proprio tale sentenza viene citata dalla Corte di Cassazione al fine di rafforzare la tesi affermata e sottolineare che trattasi di un’interpretazione costante e uniforme dei Supremi Giudici.

Nella sentenza in oggetto si richiama la pronuncia della Commissione Tributaria Regionale in cui tra le cause di forza maggiore sono richiamate “gravi vicissitudini personali” senza però precisare i reali motivi, tali vicissitudini avrebbero ritardato la richiesta del permesso di costruire di 7 mesi. Tali motivazioni non sono però ritenute sufficienti dalla Corte di Cassazione.

Per concludere, coloro che decidono di acquistare un immobile da destinare ad abitazione principale e ottengono le agevolazioni fiscali per tale atto, devono provvedere entro 18 mesi a trasferire al residenza, nel Comune in cui si trova l’immobile (naturalmente tale obbligo non vige per chi ha già la residenza nello stesso Comune). Non occorre trasferirsi nell’immobile. Di conseguenza sono limitati i casi in cui si può addurre una causa di forza maggiore.

Prelazione agraria: aspetti pratici per l’individuazione dei beneficiari

La prelazione agraria è un particolare privilegio che assiste gli affittuari di terreni agricoli, anche in qualità di coloni e mezzadri, e i confinanti. La stessa però prevede condizioni e limiti.

La prelazione agraria in favore dell’affittuario e del confinante

Per chi ha già un’azienda o meglio è coltivatore diretto un modo per acquistare terreni è approfittare della prelazione agraria:  si verifica quando un proprietario terriero decide di vendere dei terreni. In questo caso deve proporre l’acquisto prima a colui che ha un contratto di affitto, colonia, mezzadria o comunque coltiva il terreno e al soggetto confinante e in un secondo momento a terzi.

Se vuoi conoscere le caratteristiche del contratto di colonia, leggi l’articolo: Agricoltura: chi è il piccolo colono e come funziona il contratto

Le prelazioni in favore dell’affittuario e del confinante sono due istituti distinti, infatti il diritto di prelazione agraria dell’affittuario è disciplinato dall’art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590, mentre il diritto di prelazione agraria per il confinante è contenuto nell’art. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817 comma 2 bis.

L’articolo 8 della legge 26 maggio 1965 n° 590 stabilisce che il diritto di prelazione agraria spetta sempre al coltivatore diretto sia nella qualità di confinante che nella qualità di affittuario. Ciò che però ha destato confusione è stata proprio la definizione di coltivatore diretto che è risalente nel tempo e proprio per questo è stata in un certo senso scardinata dalla prassi attraverso l’intervento dei giudici.

L’articolo 31 della stessa legge stabilisce che il coltivatore diretto è colui che direttamente e abitualmente si occupa della coltivazione del fondo o dell’allevamento di bestiame e il suo lavoro e quello dei familiari complessivamente non deve essere inferiore a 1/3 di quella complessivamente necessario per la gestione dell’attività stessa.

Chi è il coltivatore diretto

Uno dei problemi che viene a galla è dato dal fatto che in passato una singola famiglia poteva gestire nel rispetto di questa disciplina piccole porzioni di terreno ad oggi invece con la meccanizzazione, la manodopera è molto ridotta e un nucleo può gestire fondi di rilevanti dimensioni.

Ciò che però più di altri fattori va ad incidere sul tema che oggi ci occupa, cioè la prelazione agraria, sono le sentenze che nel tempo si sono susseguite in materia, infatti oggi può essere considerato coltivatore diretto anche un soggetto che non ha come lavoro principale la gestione e coltivazione dei fondi agricoli. Ciò in virtù di alcune sentenze e in particolare la sentenza della Corte di Cassazione 12374 del 2001 che individua il coltivatore diretto nel soggetto che coltiva terreni anche semplicemente per il consumo familiare senza ricavare un reddito vero e proprio dall’attività e con reddito proveniente da altre attività, cioè colui che ha ad esempio un lavoro dipendente, oppure un professionista che comunque si occupa della coltivazione dei terreni.

Per essere considerato coltivatore diretto quindi non è necessario essere iscritto nel registro della imprese, in albi o elenchi. Sempre dal punto di vista soggettivo la Corte di Cassazione con la sentenza 10626 del 1998 ha riconosciuto la qualifica di coltivatore diretto anche al soggetto che si avvale di conto-terzisti per la coltivazione del fondo, inoltre la sentenza 12249 del 25 maggio 2007 ha riconosciuto come coltivatore diretto al pensionato che pur non lavorando i terreni si occupa della direzione dei lavori.

Appare dei tutto evidente quindi che ogni affittuario può essere considerato come coltivatore diretto e di conseguenza ottenere il diritto di prelazione.

Diritto di prelazione dell’imprenditore agricolo professionale

Il decreto legislativo d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99 ha riconosciuto il diritto di prelazione agraria riservato a confinanti e affittuari anche alle società, in questo caso però è necessario che almeno la metà dei soci sia in possesso della qualifica di coltivatore diretto.

Un altro limite dal punto di vista soggettivo riguarda l’Imprenditore Agricolo Professionale, infatti tale soggetto gode del diritto di prelazione agraria solo per il fondo confinante e non in qualità di affittuario.

Cosa prevede la prelazione agraria

Ora che abbiamo delimitato il campo soggettivo di applicazione della prelazione agraria, dobbiamo capire in cosa consiste.

Dal punto di vista oggettivo la prelazione agraria viene riconosciuta solo per il fondo rustico e il fondo agricolo, che può comprendere anche dei fabbricati definibili rurali e quindi asserviti alla coltivazione del fondo.

Il diritto di prelazione prevede che il proprietario che abbia intenzione di vendere il fondo debba fare prima una proposta all’affittuario/ confinante e solo se questo non sia interessato all’acquisto, potrà offrire il fondo a soggetti terzi.

Non solo infatti la vendita deve avvenire per lo stesso prezzo che è stato proposto a colui che ha il diritto alla prelazione agricola.

Procedura per esercitare il diritto di prelazione agraria

Affinché la procedura sia correttamente instaurata è necessario che il proprietario che intende mettere in vendita un terreno agricolo debba notificare attraverso una raccomandata con ricevuta di ritorno, oggi anche la PEC se è disponibile, un avviso contenente una proposta di vendita con allegato il preliminare del contratto di vendita, il prezzo e le condizioni della cessione. Colui che ha diritto di prelazione entro 30 giorni deve notificare le sue intenzioni, cioè deve dichiarare se intende acquistare a tali condizioni, se la proposta è accettata il contratto di compravendita si intende concluso. In caso di silenzio, prima di procedere alla effettiva vendita è necessario attendere 30 giorni. Non è necessaria tale attesa nel caso in cui l’affittuario o il confinante decidono di rinunciare formalmente al diritto di prelazione agraria.

Occorre però prestare attenzione a un dettaglio, infatti una volta effettuata la proposta di vendita a coloro che beneficiano del diritto di prelazione agraria, non possono essere modificate le condizioni di vendita, cioè a un terzo soggetto non si può vendere il terreno a un prezzo inferiore rispetto a quello proposto all’affittuario/confinante. Nel caso in cui ciò dovesse avvenire, il beneficiario della prelazione agraria può riscattare il terreno dal terzo acquirente.

Cosa succede in caso di più soggetti aventi la prelazione agraria sul fondo?

Nel caso in cui dovessero esserci più soggetti che hanno il diritto di prelazione agraria e vogliono esercitarla, è necessario dirimere la questione. La prima cosa da sottolineare è che chi coltiva il terreno ha un trattamento di favore, quindi l’affittuario, piccolo colono, mezzadro che coltiva prevale su eventuali confinanti.

Nel caso in cui non ci siano soggetti con un diritto di prelazione di maggior vantaggio, resta da dirimere la controversia tra eventuali confinanti. In questo caso deve essere data prevalenza a colui che ha la qualifica di coltivatore diretto, a patto che negli ultimi due anni non abbia venduto terreni di proprietà. Nel caso in cui non si possa dirimere la questione con questi criteri si applica il criterio della omogeneità delle coltivazioni dei terreni.

Buoni Fruttiferi Postali: perché ci sono controversie sulla Serie Q/P?

I risparmiatori che hanno in casa i buoni fruttiferi postali della Serie Q/P sottoscritti tra il luglio del 1986 e il 1995 continuano la lotta contro Poste Italiane al fine di ottenere un rimborso congruo di quanto da loro investito. In materia c’è molta confusione tra i risparmiatori/consumatori, quindi cerchiamo di delimitare il campo per capire chi può ottenere tutela e quanto rivolgersi a professionisti  per aprire un contenzioso.

Quali sono i problemi relativi ai Buoni Postali Fruttiferi Serie Q/P>?

I buoni ordinari della Serie Q/P, sono buoni ordinari con scadenza ventennale, che continuano però a maturare interessi molto buoni anche dopo i primi 20 anni e fino ai 30 anni. Le controversie stanno emergendo soprattutto negli ultimi anni perché i risparmiatori li hanno tenuti come dei veri tesori visto che gli interessi previsti sono talmente alti che, in caso di necessità di liquidi, conviene più chiedere un prestito che riscuotere gli stessi, ma ora naturalmente dal trentesimo anno le persone hanno iniziato (2016 e fino al 2025) a riscuoterli e da lì la brutta sorpresa, cioè i rendimenti sono inferiori rispetto a quelli attesi. Come è possibile ciò?

L’antecedente storico è il D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156 (Codice Postale) in cui si riconosce la facoltà per il Ministero del Tesoro di abbassare il tasso di interesse anche dei buoni fruttiferi postali già sottoscritti. Questa legge resta un po’ nel dimenticatoio, poi viene rispolverata nel 1986 e questo perché stava diventando economicamente insostenibile corrispondere quegli interessi.

Le indicazioni per l’uso dei Buoni Fruttiferi Postali

Con decreto ministeriale emanato nel 13 giugno 1986 si procede alla modifica dei tassi di interesse e in particolare si riducono. L’atto non è illegale, ma Poste Italiane avrebbe dovuto stampare nuovi Buoni Fruttiferi Postali della serie Q con indicati i nuovi rendimenti, cosa che invece non fa, ma semplicemente incolla dietro ai Buoni un vero e proprio fogliettino in cui sono indicati i nuovi tassi di rendimento dei buoni e un timbro. Nello stesso anno viene introdotta anche la tassazione sugli interessi.

Su questa decisione si innestano diversi fatti, infatti la legge aveva previsto in modo specifico che Poste Italiane potesse sfruttare i vecchi buoni solo per la serie P, mentre la serie Q doveva essere ristampata e la serie O non doveva più essere utilizzata. Sulla serie P l’impiegato doveva apporre due timbri, uno sul fronte e uno sul retro, sul timbro frontale doveva essere indicato che si trattava di Buoni della Serie “Q/P”, mentre sul retro dovevano essere indicati i nuovi tassi di interesse.

Non solo, Poste Italiane avrebbe dovuto realizzare tanti timbri quanti erano i rendimenti previsti per i diversi tagli dei buoni, il taglio minimo era 50.000 lire e il taglio massimo 5 milioni di lire, ma c’erano tanti tagli intermedi. Anche su questo ha preferito risparmiare e quindi ha preparato un solo timbro indicante gli interessi per i primi venti anni e non per quelli maturati dal 21° al 30° anno. Abbiamo già detto che tali buoni maturano ottimi interessi anche dopo i 20. Da questi pasticci partono diversi ricorsi.

I ricorsi sui Buoni della serie Q/P

Alcuni avvocati iniziano infatti a sospettare che questa operazione, cioè apporre un fogliettino con i nuovi tassi di rendimento ridotti e con il timbro non sia stata compiuta in modo del tutto lecito, ma con degli errori. In particolare in alcuni casi mancava il doppio timbro, in altri casi Poste Italiane ha calcolato i tassi di interesse tenendo in considerazione ciò che era previsto nel decreto ministeriale, ma i risparmiatori hanno preteso per il periodo dal ventunesimo anno al trentesimo gli interessi previsti inizialmente in quanto il timbro indicava i nuovi tassi solo fino al ventesimo anno.

Il pasticcio però non finisce qui, infatti le controversie di questo tipo sono di competenza dell’ABF, Arbitro Bancario Finanziario, che più volte si è pronunciato a favore del risparmiatore, ma purtroppo poi Poste Italiane non si è adeguata, cioè non ha provveduto a rimborsare ai risparmiatori le maggiori somme riconosciute in favore del risparmiatore. Di conseguenza i risparmiatori hanno proceduto presso i vari tribunali ordinari e non sono mancate pronunce anche della Corte di Cassazione.

Alcune sentenze sui Buoni Serie Q/P

Tra le pronunce che meritano particolare attenzione c’è la sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione 13979 del 2007 in cui si affermano importanti principi e in primo luogo che il rapporto tra risparmiatore e Poste Italiane deve ritenersi di tipo contrattuale. Sebbene il risparmiatore sia edotto del fatto che successivamente all’emissione dei Buoni Fruttiferi Postali ci possono essere dei provvedimenti che vanno a modificare il tasso di interesse, rispetto a quello previsto, lo stesso principio non può valere per le modifiche precedenti all’emissione del buono. Di conseguenza se non sono chiare le “clausole” del contratto rilevabili dal titolo (che costituisce il contratto) si deve tutelare la buona fede del risparmiatore che credeva che le stesse fossero esclusivamente quelle indicate sul buono e non altre previste da un decreto addirittura precedente.

La Corte sottolinea : “non può in alcun modo ritenersi che dovesse essere edotto anche del fatto che – già in quel momento – le condizioni dell’emissione erano diverse da quelle che gli venivano prospettate mediante la consegna di titoli così formulati.” La natura contrattuale del rapporto secondo la Corte di Cassazione si deduce dal fatto che i servizi offerti da Poste Italiane si caratterizzavano già in quegli anni per l’essere “organizzati e gestiti in forma d’impresa”. . Nel caso in oggetto l’impiegato Poste Italiane aveva correttamente calcolato gli interessi, ma Poste Italiane agisce contro il risparmiatore per ottenere la restituzione dei “maggiori interessi” percepiti dal risparmiatore. La Corte di Cassazione nega quindi tale possibilità.

Poste Italiane deve corrispondere gli interessi previsti nel Buono dal 21° anno

Un’altra decisione importante è la 20176 del 12 novembre 2020 dell’Arbitro Bancario Finanziario, anche in questo caso la controversia ricade sugli interessi maturati dal ventunesimo anno in poi. L’ABF sposa la tesi del risparmiatore e condanna Poste Italiane a versare i maggiori importi perché sul buono erano chiaramente elencati i nuovi tassi solo fino al ventesimo anno e non per gli anni successivi e di conseguenza per tali anni, non dovevano applicarsi i tassi visti del decreto ministeriale, ma quelli indicati sul Titolo (Buono). La tesi ha ricevuto condivisione dal Tribunale di Milano nella sentenza del 9 gennaio 2020 n. 91.

Ad oggi quindi le questioni aperte sono diverse, infatti Poste Italiane non si adegua alle pronunce di ABF e quindi ci sono difficoltà ad ottenere riscontri positivi dal punto di vista pratico.

Queste non sono le uniche questioni aperte sul tavolo, infatti anche sui buoni cointestati ci sono controversie. Leggi come ottenere tutela nell’articolo: Buoni Fruttiferi Postali cointestati: cosa succede in caso di morte

 

Divorzio: ritornare a convivere non sempre interrompe la separazione

Cosa succede se due coniugi separati decidono di convivere nuovamente per ragioni pratiche? Si può ritenere interrotta la separazione e quindi vengono meno i presupposti per il divorzio? A queste domande risponde una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n° 14037 22 ottobre 2020 – 21 maggio 2021 della I sezione civile.

La separazione personale dei coniugi

Coma sappiamo, la legge detta una disciplina generale e astratta quindi che si applica a una situazione ipotetica ( che potrebbe verificarsi o meno) e alla generalità delle persone, le sentenze invece si applicano nel caso concreto, ed esclusivamente ad esso, ma quando le pronunce sono della Corte di Cassazione sono ritenute particolarmente importanti e sono considerate una sorta di linea guida per i casi simili.

Nella generalità dei casi se due coniugi in regime di separazione, anche giudiziale, ricominciano a convivere si intende interrotta la separazione e questa è alla base per il successivo divorzio. Solo con il divorzio vengono meno gli effetti civili dell’unione matrimoniale.

Alla base di questa disciplina c’è l’articolo 157 del codice civile che stabilisce: ”

I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.  (c2)   La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione.”

Il caso: ritornare a convivere non sempre interrompe i termini della separazione

Nel nostro caso i due coniugi, per ragione di convenienza/opportunità, avevano ripreso la convivenza, ma si trattava esclusivamente di un interesse di tipo materiale, infatti lei era gravemente diabetica e lui aveva manifestato patologie al cuore. Per maggiore comodità di entrambi il marito era tornato nella ex casa familiare in quanto più vicina al luogo di lavoro. Nel frattempo però:

  • aveva continuato a versare alla ex moglie l’assegno mensile stabilito di 500 euro;
  • dormiva sul divano;
  • infine, aveva continuato la frequentazione con la nuova compagna.

La ex moglie invece riteneva che, sebbene non vi fossero rapporti fisici, la loro coppia fosse ricostituita e a base di tale assunto poneva le testimonianze degli amici che avevano partecipato a cene e vacanze della coppia e il fatto che l’assenza di rapporti era dovuta prevalentemente alle condizioni di salute di entrambi. Di conseguenza chiedeva l’improcedibilità della domanda di divorzio (le testimonianze comunque non sono state ammesse).

L’assenza di affectio maritalis ( e di rapporti fisici) rende procedibile la domanda di divorzio

Questi elementi secondo la Corte di Cassazione sono indice di una mancata ricostituzione dell’affectio maritalis, elemento essenziale per interrompere gli effetti della separazione. La Corte rileva che in questo caso non c’è stata la “necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale” e che tale orientamento è consolidato come si può rinvenire nelle sentenze Cass. 19497/2005; Cass. 19535/2014; Cass. 20323/2019.

In questo caso la convivenza può essere parificata a quella di due amici che si supportano a vicenda in un momento di difficoltà e che non fa quindi sorgere o rivivere diritti.

La sentenza è importante anche perché l’interruzione della separazione, se effettiva, costringe i coniugi che manifestino nuovamente l’intenzione di separarsi a ricominciare nuovamente dall’inizio, come se non fossero mai stati separati e questo potrebbe incidere anche sull’addebito della separazione stessa. Infatti, quando si riprende la procedura è necessario determinare nuovamente quale dei due coniugi ha generato la crisi matrimoniale e potrebbe esservi un ribaltamento totale della situazione (articolo 157 codice civile comma 2). Ciò può avere effetti pratici molto rilevanti perché il coniuge a cui sia addebitata la separazione non ha diritto all’assegno di mantenimento, ma esclusivamente, e in limitati casi, all’assegno alimentare che ha importi molto ridotti.

Assegno di mantenimento: reclusione per chi non paga

Il genitore che non paga l’assegno di mantenimento rischia la reclusione e la Corte di Cassazione in diverse pronunce ha confermato tale orientamento.

Articolo 570 bis del codice penale: reclusione per chi non paga il mantenimento

La disciplina è prevista dall’articolo 570 bis del codice penale, introdotto con il decreto legislativo 21 del 2018, prevede l’estensione delle pene dell’articolo 570 del codice penale anche al genitore separato, divorziato o nei cui confronti sia stata riconosciuta la nullità del matrimonio. L’articolo 570 del codice penale a sua volta prevede la reclusione fino a un anno e la multa da 103 a 1032 euro per il genitore che faccia mancare i mezzi di sussistenza ai figli.

La norma prevede che tale pena si applichi anche nel caso in cui il genitore:

  • dilapida i beni del figlio o del coniuge;
  • fa mancare i mezzi di sussistenza a figli minori, maggiorenni inabili, agli ascendenti e al coniuge da cui non sia legalmente separato.

L’articolo 570 bis si applica a querela di parte se l’obbligo di mancata corresponsione è nei confronti del coniuge oppure dei figli maggiorenni non economicamente indipendenti, ma nel caso di mancata corresponsione in favore di minori o inabili, la domanda è procedibile d’ufficio, cioè un qualunque giudice o autorità, verificato che il soggetto è inadempiente, può segnalare il caso e dare quindi il via alla procedura penale. Ciò perché la norma tutela un interesse pubblico e in particolare soggetti deboli che non hanno capacità di agire. Affinché si possa procedere alla condanna è comunque necessario il verificarsi del dolo, quindi ci deve essere una condotta volontaria diretta a danneggiare le vittime di reato da parte del soggetto obbligato. Se la parte prova di essere impossibilitato a versare gli assegni, non potrà esserci la condanna penale.

Il caso concreto

L’applicazione di questa norma con il tempo è diventata sempre più frequente in quanto vi è l’abitudine di saltare la corresponsione dell’ assegno di mantenimento, magari a fronte di reali cambiamenti della situazione economica, ma senza rivolgersi al giudice per chiedere una adeguamento dell’assegno di mantenimento. Tra le sentenze che hanno avuto particolare risonanza vi è sicuramente la 44694/2019 della Corte di Cassazione.

In questo caso una donna, di fronte alla mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli da parte dell’ex marito, decide di agire in tribunale di primo grado e in seguito in appello. L’ex marito, dopo la condanna in primo e in secondo grado, decide di proporre ricorso in Cassazione lamentando solo in questo momento le difficoltà economiche. Il giudice, ripercorrendo la vicenda, sottolinea che in realtà la ricostruzione dell’ex marito inerente le difficoltà economiche sia poco convincente perché in sede civile l’uomo aveva accettato il raddoppio dell’assegno di mantenimento inizialmente fissato e in secondo luogo perché continua ad avere in locazione un’abitazione per cui paga un canone molto alto.

Di conseguenza si evince che in realtà le condizioni economiche non sono mutate e, se anche lo fossero, avrebbe dovuto prima chiedere al giudice una riduzione dell’assegno di mantenimento adducendo come motivazione, e provando, che le sue capacità economiche erano ridotte rispetto al passato e poi in base alle nuove determinazioni ridurre gli importi corrisposti.

Insomma non si può agire in autotutela e ridurre l’assegno di mantenimento o addirittura non versarlo. In base a ciò viene di fatto accettata la determinazione del giudice di Appello con la pena della reclusione di 4 mesi.

Tra le sentenze che applicano lo stesso principio vi è anche la 34618 del 2021 sempre della Corte di Cassazione.

Come ottenere l’assegno di mantenimento

L’ipotesi del carcere è comunque residuale e riguarda soprattutto coloro che hanno un lavoro autonomo, infatti nel caso di dipendenti le strade seguite sono solitamente altre. In particolare se un ex coniuge non versa l’assegno di mantenimento fissato, è possibile procedere con una lettera di diffida in cui lo si invita ad adempiere. Se non lo fa spontaneamente, si può procedere con l’atto di precetto con cui si invita l’ex coniuge ad adempiere entro un termine di 10 giorni. Se anche l’atto di precetto va a vuoto, si procede all’esecuzione forzata che può essere eseguita anche sullo stipendio, quindi sarà il datore di lavoro a trattenere dalla busta paga le somme e a versarle agli aventi diritto. In questo caso non basterà neanche licenziarsi per evitare di pagare, infatti l’esecuzione forzata si trasferisce sul TFR le cui somme saranno pignorate per “assistere” gli aventi diritto.

Corte di Cassazione: obbligo di mantenimento ai figli che lasciano il lavoro

Quando si parla di dovere di mantenimento ai figli, sorgono sempre molti dubbi e perplessità, infatti la normativa non prevede un limite di età preciso entro il quale i figli devono rendersi economicamente indipendenti e quindi, in base alle circostanze, il giudice può di volta in volta valutare se gli spetta l’assegno di mantenimento. Recentemente la Corte di Cassazione con l’ordinanza 23318 del 2021 ha riconosciuto il diritto al mantenimento per una figlia di 26 anni che ha lasciato il lavoro per iscriversi nuovamente all’università. Ecco quando vige l’obbligo di mantenimento per i figli che lasciano il lavoro.

Il caso

Nel caso che ci riguarda, e che di sicuro è destinato a far discutere molto, i genitori sono separati e a carico del padre è previsto un assegno di mantenimento in favore della figlia di 26 anni che ha deciso, dopo un breve periodo di lavoro, di tornare all’università. L’assegno da corrispondere è di 600 euro mensili, a cui si aggiungono 4/5 delle spese straordinarie dalla stessa effettuate. Il padre propone ricorso avverso tale decisione in quanto la figlia aveva inizialmente lasciato gli studi e aveva ottenuto un lavoro retribuito con 1200 euro mensili, inoltre aveva la disponibilità di un alloggio gratuito vicino al luogo di lavoro.

Il padre basa il suo ricorso anche sul fatto che la figlia ben avrebbe potuto riprendere gli studi senza lasciare il lavoro e quindi poteva mantenere l’indipendenza economica, infatti secondo il padre avrebbe potuto iscriversi all’università avente sede vicino al luogo di lavoro, invece aveva preferito iscriversi presso una sede ubicata lontano. In questa stessa sentenza il giudice afferma che può essere rivisto l’assegno per l’ex coniuge nel caso in cui questo rifiuti di trasformare il rapporto di lavoro da part time a full time.

Perché i figli che lasciano il lavoro devono essere mantenuti

Nonostante tali motivazioni, la Corte di Cassazione con l’ordinanza 23318 del 2021 ha confermato l’obbligo per il padre di provvedere al mantenimento della figlia che decide di lasciare il lavoro per iscriversi all’università. L’ordinanza in oggetto è importante perché vengono precisati gli elementi che devono essere tenuti in considerazione per decidere.

Nel caso in oggetto il primo elemento valutato è la giovane età della ragazza che, sebbene non abbia intrapreso gli studi universitari appena dopo il liceo, cosa che avviene solitamente, ha una giovane età  da cui si può presumere che il percorso di studi possa essere affrontato in modo proficuo.

Il secondo elemento considerato è il comportamento della ragazza che è sempre stata responsabile e di conseguenza il ritorno tra i banchi dell’università non deve essere considerato un capriccio. A ciò si aggiunge che il lavoro che la stessa aveva trovato nello staff di un albergo, non era all’altezza della aspettative e aspirazioni della ragazza. Infine, nello stabilire se il figlio ormai maggiorenne che decide di lasciare il lavoro per tornare all’università ha diritto al mantenimento, devono essere tenute in considerazione anche le condizioni economiche delle parti. In questo caso il padre, ricorrente, percepisce una retribuzione di 4.400 euro mensili e ha la disponibilità di un alloggio.

I presupposti dell’ obbligo di mantenimento ai figli che lasciano il lavoro

La Corte sottolinea che l’obbligo di mantenimento per i figli che lasciano il lavoro persiste solo nel caso in cui si riesca a provare che il mancato raggiungimento dell’indipendenza economica è dovuto a fatto imputabile al figlio che, pur essendo stato posto nelle condizioni di avere un lavoro all’altezza delle sue aspirazioni e potenzialità, non si adopera. Mentre devono essere valutati positivamente altri fattori, tra cui:

  • età;
  • aspirazioni;
  • livello di competenze tecniche e professionali acquisito;
  • impegno profuso;
  • e“più in generale, della complessiva condotta personale da lui tenuta dal momento del raggiungimento della maggiore età ”.

La Corte di Cassazione ha rilevato che il comportamento della ragazza non deve essere considerato “sintomo di un ingiustificato rifiuto di rendersi economicamente indipendente, ma della volontà di impegnarsi attivamente per condurre a termine gli studi e trovare un’occupazione più confacente ai propri interessi”. Il percorso di studi scelto infatti, facoltà di psicologia, ha poca attinenza con l’impiego presso un albergo.

Il giudice sottolinea inoltre che, vista la breve durata del rapporto di lavoro della ragazza presso l’albergo, comunque non poteva essere considerata raggiunta l’indipendenza economica. A ciò deve essere aggiunto che la scelta di ritornare all’università deve essere considerata in linea con il livello socio -culturale della famiglia, mentre il breve periodo di lavoro deve essere ritenuto “parentesi in una fase dell’esistenza ancora dedicata alla formazione”.

Le inclinazioni e aspirazioni del figlio devono essere rispettate

La Corte di Cassazione precisa anche il perché il padre non poteva richiedere alla figlia di iscriversi a una facoltà vicino al suo luogo di lavoro e di continuare attività lavorativa e di formazione. Afferma che gli articoli 147 c.c. e art. 315-bis c.c pongono a carico dei genitori di istruire, educare e mantenere i figli, ma nel rispetto delle loro inclinazioni naturali, aspirazioni, delle loro capacità e non dei desideri dei genitori e quindi “senza forzarlo ad accettare soluzioni indesiderate”. Appare evidente quindi che i genitori non possono intervenire in tali scelte, anche e soprattutto se per il loro tenore di vita possono permettersi di dare ai figli gli strumenti per realizzare tali ambizioni e aspirazioni.

IRAP: cos’è, su cosa si paga e chi sono i soggetti passivi?

L’IRAP è l’Imposta Regionale sulle attività produttive, si tratta di un’imposta annuale versata alla Regione sebbene sia stata istituita dallo Stato e le cui aliquote sono determinate a livello nazionale, pur lasciando un margine di autonomia per le Regioni. Vedremo in breve quali sono le sue caratteristiche.

Che cos’è l’IRAP

L’IRAP è disciplinata dal decreto legislativo 446 del 1997 e tassa il “valore sulla produzione”, da intendersi come il guadagno netto dell’impresa, cioè la differenza tra il ricavato e i costi di gestione (ci sarà a breve un approfondimento sulla base imponibile dell’IRAP). La prima cosa da capire quando si parla di IRAP e chi sono i soggetti obbligati a versare questa imposta. Deve essere ricordato fin da subito che questi sono obbligati al versamento dell’IRAP nel caso in cui svolgano l’attività produttiva in maniera continua e abituale e si avvalgano di un apparato organizzativo e produttivo, ad esempio macchinari, dipendenti, collaboratori.

Chi sono i soggetti passivi IRAP

Sono soggetti passivi IRAP:

  • società di persone e di capitali (spa, srl, snc, ss, sas, …);
  • società cooperative;
  • mutue assicurazioni;
  • imprenditori commerciali, ditte individuali, professionisti;
  • amministrazioni ed enti pubblici.

Deve essere sottolineato che la normativa prevede un esonero dal versamento dell’IRAP per le attività che operano nel settore dell’agricoltura e della pesca.

La struttura organizzativa

Si è detto all’inizio di questa disamina che, affinché si sia considerati soggetti obbligati al versamento dell’IRAP, è necessario avvalersi di una struttura organizzativa, da tale precisazione sono emersi in giurisprudenza diversi orientamenti che riguardano in particolare i professionisti. Questi infatti spesso lavorano in modo individuale e il prevalente orientamento prevede che non siano considerati soggetti IRAP i professionisti che svolgono l’attività in maniera individuale, senza avvalersi della collaborazione di altri soggetti che contribuiscano alla realizzazione del ricavato.

Questa formulazione apre una zona grigia non indifferente, infatti per essere soggetto IRAP il professionista non solo deve avere dei collaboratori, ma questi devono anche contribuire al ricavato.  Emerge che un avvocato che si avvale della collaborazione di un segretario non versa l’IRAP perché il segretario non contribuisce con il suo lavoro al ricavato (sicuramente questa interpretazione può essere dubbia perché un segretario, qualunque mansione svolga, ad esempio prendere appuntamenti, chiamare i clienti per fornire e richiedere informazioni, comunque anche se in modo blando contribuisce al reddito perché libera il professionista da incombenze).

Pronunce della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha precisato che un avvocato che non ha dipendenti o collaboratori,  non è tenuto al versamento dell’IRAP in quanto non mette in atto un’attività di coordinazione del lavoro con altri soggetti che possono essere definiti ausiliari.  Se invece lo studio si avvale della collaborazione di un altro avvocato, deve pagare l’IRAP. L’ordinanza 20715 del 2020 della VI Sezione Civile della Corte di Cassazione  ha invece precisato che “l’esercizio di professioni in forma societaria costituisce ex lege presupposto dell’imposta regionale sulle attività produttive, senza che occorra accertare in concreto la sussistenza di un’autonoma organizzazione, essendo questa implicita nella forma di esercizio dell’attività“. Mentre l’ordinanza 3865 del 2021, sempre della Corte di Cassazione, specifica che è esonerato solo l’avvocato che ha un collaboratore che svolge mansioni di segreteria generiche.

La base imponibile

Una piccola nota deve essere fatta fin da ora sulla base imponibile, infatti solo in linea generale si può dire che la stessa è determinata dalla differenza tra ricavi e costi, perché non tutte le spese possono essere detratte. Le stesse saranno viste in seguito, fin da ora è però possibile anticipare che nel 2015 c’è stata un’importante novità e cioè la possibilità di portare in detrazione le spese sostenute per i dipendenti con contratto a tempo indeterminato. Si è trattato di una scelta da molti auspicata fin dall’introduzione di questa imposta non sempre apprezzata dalle aziende, infatti in precedenza veniva applicata l’imposta anche sui costi per i dipendenti che rappresentano una buona fetta delle spese e che di fatto sono una parte dei ricavati che l’azienda non può usare.

Le aliquote IRAP e l’autonomia regionale

Per quanto riguarda invece le aliquote, le stesse possono essere modificate, quindi di anno in anno è bene controllare gli importi, inoltre cambiano anche in base alla tipologia di attività posta in essere. L’agenzia delel Entrate indica 5 aliquote:

  • a) l’aliquota ordinaria del 3,90%;
  • b) aliquota per le imprese concessionarie diverse da quelle di costruzione e gestione di autostrade e trafori è del 4,20%;
  • c) per banche e società finanziarie del 4,65%;
  • d) imprese di assicurazione 5,90% euro;
  • e) amministrazioni ed enti pubblici 8,50%.

A ciò si deve aggiungere che le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, in base all’art. 16, comma 3, del D.Lgs. n. 446 del 1997, possono variare ( al ribasso o al rialzo)  le aliquote dell’0,92%, tale facoltà è esclusa per la lettera e), cioè per le aliquote delle amministrazioni ed enti pubblici.

Infine il D.Lgs. 6 maggio 2011, n. 68, recante disposizioni sul federalismo fiscale provinciale e regionale stabilisce all’articolo 5 che le Regioni ordinarie possono azzerare le aliquote IRAP, vi sono però dei limiti, cioè non possono farlo se sono sottoposte a piani di rientro per deficit sanitari ( questo è prevedibile perché l’IRAP va a finanziare proprio le spese sanitarie) e se la maggiorazione all’addizionale IRPEF applicata dalla stessa Regione è superiore allo 0,5%. Questi limiti tendono a ripristinare un certo equilibrio fiscale.

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Pagamento dell’imposta

Il pagamento dell’IRAP è diviso in due date:

  • entro il 30 giugno si versa il saldo dell’anno precedente e la prima rata dell’acconto dell’anno successivo;
  • entro il 30 novembre si versa il secondo acconto per l’anno successivo.

La nullità del patto di non concorrenza: quando si verifica e conseguenze

L’articolo 2125 del codice civile ha una formulazione chiara e determina le cause di nullità del patto di non concorrenza. Nonostante questo, le interpretazioni giurisprudenziali sono state diverse, ecco qualche chiarimento che può aiutare a capire come stipulare un patto di non concorrenza senza cadere nel rischio di nullità.

Il patto di non concorrenza

Il patto di non concorrenza è un accordo tra il datore di lavoro e il lavoratore che limita la libertà del lavoratore in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro. Con questo accordo il lavoratore rinuncia a porre in essere attività lavorative che siano in concorrenza con quelle del datore di lavoro, inoltre si impegna a evitare di portare via la clientela all’ex datore di lavoro e a non divulgare l’insieme di conoscenze prettamente correlate all’attività svolta. Si parla anche di patrimonio immateriale dell’azienda. Naturalmente il contenuto concreto del contratto dipende dalla natura dell’attività esercitata, dalle mansioni e dal settore in cui si opera. Per una disamina completa sulla natura del patto di non concorrenza è possibile leggere l’articolo specifico che trovate QUI.

Le cause di nullità del patto di non concorrenza

L’articolo 2125 nel disciplinare il patto di non concorrenza stabilisce le cause di nullità dello stesso e in particolare è nullo l’atto che non formulato per iscritto (si considera un contratto comunque autonomo rispetto al contratto di lavoro e si può stipulare contemporaneamente al contratto di lavoro oppure successivamente, in costanza di rapporto o alla cessazione).

Il patto di non concorrenza, a pena di nullità, deve indicare il compenso che deve essere congruo e proporzionato al limite imposto e deve indicare i limiti territoriali, di oggetto e temporali del divieto di porre in essere attività in concorrenza. Mancando uno di questi requisiti il patto è nullo.

Patto di non concorrenza nullo: alcuni casi

Naturalmente in alcuni casi, pur essendovi questi elementi, il patto di non concorrenza è nullo, per capire concretamente come opera la nullità occorre far riferimento alla giurisprudenza che nel tempo ha interpretato l’articolo 2125.

Ad esempio per quanto riguarda l’oggetto: è nullo il patto di non concorrenza che limita del tutto la possibilità per il lavoratore di svolgere un’attività professionale adeguata a capacità e competenze. Ciò è stabilito nella sentenza della Corte di Cassazione 7835 del 2006 , in cui si stabilisce che il patto è nullo  quando è idoneo a comprimere l’esplicazione concreta della professionalità del lavoratore limitando la potenzialità reddituale.

Per quanto riguarda la durata, la legge prescrive che il limite massimo è di 3 anni, che può estendersi a 5 anni per i dirigenti. Nel caso in cui la durata prevista nel patto fosse superiore, questa verrebbe comunque riportata al limite previsto per legge.

Il patto di non concorrenza è nullo anche nel caso in cui preveda una clausola di recesso unilaterale in favore del datore di lavoro, questo perché esporrebbe il lavoratore a un’eccessiva indeterminatezza del patto di non concorrenza e sarebbe quindi contraria alle norme imperative (ordinanza della Corte di Cassazione 10535 del 03-06-2020).

Limiti territoriali al patto di non concorrenza

Controversa è la questione dei limiti territoriali perché il giudice di volta in volta ha determinato se l’estensione del divieto fosse o meno lecita in relazione alla possibilità per il lavoratore comunque di procurarsi il sostentamento. Ad esempio diversi tribunali hanno ritenuto lecito il divieto di svolgere attività in aziende concorrenti esteso su tutto il territorio nazionale, mentre altri casi molte sentenze hanno avallato la legittimità anche di patti che avevano un’estensione territoriale più ampia: Unione Europea.

La valutazione si fa in base alla specificità delle mansioni e alla tipologia di attività svolta dal datore di lavoro che potrebbe avere anche un’estensione territoriale ampia.  Di volta in volta, in relazione al limite territoriale connesso a quello inerente l’oggetto, i giudici hanno ritenuto congruo un compenso del 60%, del 40%, del 26%. Di converso è stato ritenuto nullo il patto che prevedeva il divieto di porre in essere “nell’intero territorio della Repubblica italiana, qualsiasi attività in concorrenza con quella del datore di lavoro, ciò perché evidentemente vi era un’eccessiva compressione delle libertà del lavoratore rispetto agli interessi del datore di lavoro”.

La legittimità dell’estensione territoriale del divieto deve essere valutata tenendo in considerazione anche gli altri elementi del patto di non concorrenza e in particolare l’oggetto, la durata e naturalmente il compenso.

Nullità del patto di non concorrenza in caso di compenso simbolico

Particolare attenzione viene posta anche al compenso, argomento ampiamente trattato QUI, anche in questo caso i giudici di merito e legittimità hanno emesso diverse sentenze e ordinanze che possono dare molti spunti di riflessione, soprattutto a coloro che devono redigerlo e non vogliono cadere in una nullità  del patto di non concorrenza. Ad esempio, il Tribunale di Milano nella sentenza 3505 del 25/11/2014 ha stabilito che un compenso pari al 60% della retribuzione prevista in costanza di rapporto di lavoro potesse essere considerata congrua. Si sono verificati casi in cui i giudici hanno ritenuto congrua una somma pari al 40% della retribuzione o 26%.

Patto di non concorrenza nullo: conseguenze

Quali sono le conseguenze della nullità del patto di non concorrenza? Un atto nulla è come se non fosse mai esistito. Se un patto di non concorrenza è dichiarato nullo è come se non fosse mai esistito, questo implica che il lavoratore può lavorare presso un’azienda concorrente senza essere sottoposto a penali o risarcimenti. Tuttavia se ha percepito delle somme può essere obbligato a restituirle, la domanda per la ripetizione delle somme erogate ha un termine di prescrizione di 10 anni. L’obbligo di ripetizione delle somme viene meno nel caso in cui dimostri che avendo fatto affidamento sulla legittimità dell’atto ha rifiutato delle proposte di lavoro.

La restituzione del corrispettivo può essere richiesta anche nel caso in cui il lavoratore violi il patto.  In realtà per valutare chi sia il soggetto effettivamente danneggiato è necessario di volta in volta comparare gli interessi delle parti, infatti se il patto è ritenuto nullo in quanto il compenso non è congruo, il datore di lavoro può essere condannato a versare ulteriori somme.

Cessione di un ramo d’azienda: nuova sentenza

La Corte di Cassazione ha emanato, con la sentenza 1769 del 24 gennaio 2018, una ulteriore conferma relativa all’interpretazione per cui la cessione di un ramo d’azienda è da ritenersi tale solo se con i lavoratori passa anche il know-how.

La sentenza è stata illustrata da un approfondimento della Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro, che è stato appena pubblicato e in cui si legge che in questa fattispecie “non si configura se contestualmente al trasferimento dei lavoratori non si riscontra anche il trasferimento di un determinato know-how individuabile in una particolare specializzazione del personale trasferito, poiché è indispensabile la conservazione dell’identità economica”.

Questa tesi è stata ribadita dalla Corte che ha ricordato come “non sussistono le condizioni affinché si configuri un trasferimento di ramo d’azienda se la realtà sia stata creata ad hoc, in occasione del trasferimento stesso, poiché condizione necessaria è la preesistenza di una realtà produttiva autonoma e funzionale”.

Questo accade perché elemento costitutivo della cessione di ramo d’azienda è la capacità di provvedere, al momento dello scorporo, ovviamente con propri mezzi funzionali ed organizzativi, allo scopo produttivo senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario.

Nel caso in cui queste condizioni non venissero soddisfatte, il procedimento risulterebbe inefficace, con il conseguente reintegro dei lavoratori nelle mansioni e nella sede operativa precedente.

L’approfondimento proposto dalla Fondazione Studi consulenti del lavoro si sofferma anche sull’individuazione del concetto di azienda e delle garanzie che devono essere date al lavoratore in caso di trasferimento, sottolineando dunque che, ai fini della sussistenza di un trasferimento d’azienda in un settore in cui l’attività sia fondata essenzialmente sulla mano d’opera, risulta necessario, ai sensi della direttiva 2001/23, che la parte più rilevante del personale sia presa in carico dal presunto cessionario per la conservazione dell’identità di un’entità economica.

Vera MORETTI

Imprese familiari: quali e quando possono essere definite tali?

Esistono ancora oggi dubbi che riguardano le imprese familiari, e precisamente quando possono essere definite tali e quando, invece, no.

Gli ultimi dubbi sono stati eliminati da una sentenza della Corte di Cassazione, e precisamente la numero 2472/2017, che ha analizzato il caso di una verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza nei confronti un impresa familiare operante nel settore del commercio al dettaglio di prodotti di tabaccheria e di piccola oggettistica.

E’ stato stabilito, quindi, che requisito necessario perché un’azienda possa essere definita impresa familiare è l’esistenza di un atto pubblico o scrittura privata autenticata che attesti la partecipazione dei familiari dell’imprenditore all’attività di impresa.

Inoltre, nell’atto pubblico o nella scrittura privata autenticata, deve risultare l’indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività di impresa. L’atto deve essere regolarmente sottoscritto dall’imprenditore dai familiari.

Ovviamente, l’atto dovrà avere data anteriore al periodo di imposta in riferimento al quale l’imprenditore abbia indicato nella dichiarazione dei redditi le quote attribuite a singoli familiari e l’attestazione che le stesse sono proporzionate alla qualità e alla quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa in modo continuativo è prevalente.
Anche familiari partecipanti dovranno attestare nella propria dichiarazione dei redditi di aver lavorato nell’impresa familiare in modo continuativo e prevalente.

Se viene a mancare anche uno solo di questi requisiti, non è possibile parlare di impresa familiare, né può essere applicato il trattamento fiscale dei redditi prodotti dalle imprese familiari previsto dall’articolo 5, comma 4, del Tuir e i compensi percepiti dai parenti collaboratori non possono essere assimilati a reddito di impresa ma devono essere considerati reddito da lavoro.

Vera MORETTI