Cartelle esattoriali: gli eredi non pagano le sanzioni, a dirlo è la Cassazione

Si sa, quando arriva la cartella esattoriale la strada per addivenire a una soluzione è spesso lunga, può quindi capitare che, tra il momento dell’emissione della stessa e la soluzione della controversia per vie giudiziarie,  intercorra molto tempo e possano esservi degli eventi imprevisti, tra cui la morte del “debitore”. In questi casi è noto che gli eredi pagano anche i debiti, ma cosa succede alle sanzioni tributarie delle cartelle esattoriali? A mettere il punto è la Corte di Cassazione con la sentenza 25315 del 2022.

Il caso

Nel caso in oggetto la signora X riceve una cartella di pagamento, la stessa viene impugnata davanti alla commissione tributaria provinciale in quanto la signora ritiene di aver assolto il suo debito con il fisco. La commissione tributaria provinciale accoglie il ricorso. Nel frattempo, prima del deposito della sentenza, la signora viene a mancare. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso avverso la decisione del giudice di prime cure e in giudizio al posto della madre ci sono i figli eredi. In questa sede la Commissione Tributaria Regionale accoglie parzialmente il ricorso riducendo di 1/3 le violazioni accertate, comprese le sanzioni applicate alla cartella esattoriale.

A questo punto sono gli eredi a proporre appello davanti alla Corte di Cassazione. Propongono diversi motivi di impugnazione, tutti giudicati infondati, tranne uno. Gli eredi infatti lamentano il fatto che nella sentenza impugnata non vi sia alcun riferimento alla doglianza circa l’intrasmissibilità delle sanzioni relative alle cartelle esattoriali.

Corte di Cassazione: le sanzioni applicate alle cartelle esattoriali non si trasmettono agli eredi

Ricorda il Supremo Giudice che l’art. 8 del d.lgs. n. 472 del 1997 prevede espressamente che «L’obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi»

La Corte di Cassazione sottolinea come le sanzioni di tipo civile ed amministrativo abbiano un carattere diverso. Le prime vogliono essere un deterrente ad un comportamento inadempiente da parte di uno o più contraenti. Le sanzioni amministrative invece hanno un carattere sanzionatorio e afflittivo. Proprio in forza di tale differenza le sanzioni civili possono essere trasmesse agli eredi, mentre le sanzioni amministrative, al pari di quelle penali, sono intrasmissibili.

Deriva da questa pronuncia in caso di debiti fiscali/tributaria gli eredi sono tenuti solo al pagamento delle somme contestate nelle cartelle esattoriali e non anche delle sanzioni che hanno carattere personale.

Leggi anche: Avvisi bonari Agenzia delle Entrate: si accorciano i termini di pagamento

 

 

Mi hanno offeso in una chat, quale reato si configura? La decisione della Corte di Cassazione

Cosa succede se in una chat di gruppo si ricevono delle offese? A rispondere a questa domanda è la Corte di Cassazione con la sentenza 28675 del 2022 che definisce i confini tra il reato di ingiuria e la diffamazione.

Differenze tra reato di diffamazione  e ingiuria

Le chat attraverso whatsapp sono un mezzo ormai diffusissimo, ci sono due modalità principali per comunicare con tali sistemi di messaggistica istantanea, cioè la chat individuale e la chat di gruppo. La chat di gruppo è utilizzata per comunicare in modo contestuale con più persone, ad esempio c’è la chat delle mamme, la chat del gruppo di lavoro o le chat dei gruppi di amici. All’interno di questi sistemi possono però verificarsi anche dei reati. Nella sentenza in oggetto la Corte di Cassazione è chiamata a stabilire i confini tra diffamazione e ingiuria. Non si tratta di semplici cavilli, ma di due reati diversi con diverse sanzioni.

L’ingiuria è trattata dall’articolo 594 del codice penale, articolo abrogato, mentre la diffamazione è regolamentata dall’articolo 595 codice penale ed è tuttora vigente e prevede:

  • reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro;
  • reclusione fino a due anni o multa fino a 2.065 euro se la diffamazione consiste nell’attribuzione di un fatto determinato;
  • reclusione da 6 mesi a 3 anni e multa non inferiore a 516 euro nel caso in cui il reato sia commesso a mezzo stampa con qualsiasi altro mezzo di pubblicità o in atto pubblico;
  • le pene sono ulteriormente aumentate nel caso in cui l’offesa è arrecata a un Copro politico, amministrativo o giudiziario.

In entrambi i casi, diffamazione e ingiuria, il comportamento consiste nel recare offesa al decoro e all’onore di una persona. Nel caso dell’ingiuria però le offese restano tra i soggetti della comunicazione, mentre nel caso della diffamazione l’offesa avviene alla presenza di più persone.

Di fatto l’ingiuria ha ottenuto la depenalizzazione:  il decreto legislativo n°7 del 15 gennaio 2016 ha abrogato l’articolo 594 del 2022.

Il caso: le offese in una chat di whatsapp costituiscono il reato di diffamazione o ingiuria?

Ritornando al caso in oggetto la conversazione con offese era avvenuto in una chat di gruppo di Whatsapp, uno dei più famosi sistemi di messagistica dei social network, il soggetto offeso al momento in cui le stesse sono state rese note era comunque in collegamento e si è difeso, ed è proprio questa caratteristica che ha fatto propendere la Corte di Cassazione per la rubricazione del caso come “ingiuria commessa alla presenza di più persone”.

La Corte di Cassazione nella pronuncia 28675 fa ulteriori precisazioni, cioè sintetizza i casi che possono verificarsi con le chat di gruppo:

  • se la persona è presente, l’offesa anche se avviene in presenza di più persone è sempre ingiuria;
  • se l’offesa è diretta a una persona distante, costituisce ingiuria solo se la comunicazione avviene esclusivamente tra le due persone;
  • se la comunicazione a distanza coinvolge altre persone, è sempre diffamazione;
  • se la comunicazione a distanza non è diretta all’offeso, ma ad almeno altre due persone, siamo nell’ambito della diffamazione.

La chat di gruppo è conversazione in presenza o a distanza?

Per quanto riguarda però le chat di gruppo, si ritiene che se il soggetto offeso sia partecipe dellla comunicazione nel momento in cui la stessa avviene, non si può parlare di comunicazione a distanza, ma di comunicazione in presenza dell’offeso. Di conseguenza il fatto deve essere rubricato come ingiuria e non come diffamazione. Si afferma che il termine presenza debba quindi essere inteso in modo ampio e la presenza virtuale equivalga di fatto alla presenza fisica. Ad esempio ciò avviene anche in videoconferenza, videocall e altre situazioni similari.

Nel caso in oggetto è necessario rubricare il fatto come ingiuria perché il destinatario delle offese essendosi difeso nella chat ha dimostrato di essere collegato. Quindi l’offesa è avvenuta in presenza. In caso contrario, cioè se i messaggi fossero stati letti in modalità differita, ad esempio perché la persona offesa era impegnata a lavoro e impossibilitata a leggere, oppure perché aveva un cattivo funzionamento della connessione, non sarebbe più stata configurabile l’ingiuria, bensì la diffamazione perché potenzialmente poteva essere presente, ma di fatto non lo era.

Corte di Cassazione: sul contribuente vige l’obbligo di controllo sul commercialista

La Corte di Cassazione con l’ordinanza 17946 del 1° giugno 2022 ha sottolineato alcuni principi fondamentali per il rapporto tra contribuente e commercialista, in particolare ha ribadito che vige da parte del contribuente che incarica il commercialista di svolgere gli atti dichiarativi l’obbligo di controllo sull’adempimento stesso.

Non basta affidare a un commercialista il mandato per adempimenti fiscali, il contribuente ha obbligo di controllo

La maggior parte dei contribuenti è abituata a delegare al proprio commercialista l’adempimento degli obblighi dichiarativi, questo soprattutto nei casi in cui i modelli pre-compilati non sono disponibili oppure quando è necessario effettuare delle integrazioni, ma cosa succede nel caso in cui pur avendo delegato al commercialista l’adempimento, lo stesso non ottempera? Chi deve pagare eventuali sanzioni? A precisarlo è la Corte di Cassazione.

Nell’ordinanza in oggetto, cioè la 17946 del 2022 sono affrontati diversi temi, ma in questo caso ci concentriamo su uno solo dei punti di doglianza che il contribuente ha presentato nell’impugnare la sentenza della Commissione Tributaria Regionale davanti alla Corte di Cassazione. In particolare il contribuente lamenta inesatta applicazione delle sanzioni in quanto l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi andava esclusivamente imputata alla condotta fraudolenta del consulente.

Mancato ottemperamento all’obbligo dichiarativo e ignoranza incolpevole del contribuente

La Corte di Cassazione sul punto ha rilevato che grava sul contribuente l’obbligo di svolgere attività di controllo sulle “decisioni assunte in sua rappresentanza”, sottolinea la Corte che non basta la querela nei confronti del presunto responsabile del fatto a sollevarlo da tale responsabilità. Continua statuendo che al fine di essere esenti da tale responsabilità “grava sul contribuente ai sensi dell’art. 5 del DLgs. n. 472 del 1997 la prova dell’assenza assoluta di colpa, con conseguente esclusione della rilevabilità d’ufficio, occorrendo a tal fine la dimostrazione di versare in stato di ignoranza incolpevole, non superabile con l’uso dell’ordinaria diligenza”.

Inoltre la Cassazione sottolinea che la responsabilità del contribuente è esclusa nel caso in cui si manifesti un comportamento fraudolento del professionista volto a mascherare la propria condotta in danno del contribuente stesso. In tutti gli altri casi resta comunque una condotta illecita del contribuente con tutte le conseguenze che si verificano in caso di evasione fiscale.

Il contribuente negligente risponde del mancato adempimento del commercialista

Tale ordinanza va nella stessa direzione di precedenti pronunce della Corte di Cassazione, come nel caso dell’ordinanza 28291 del 2020 . Anche in questa pronuncia il Giudice sottolinea che grava sul contribuente l’onere di provare “assenza assoluta di colpa, con conseguente esclusione della rilevabilità d’ufficio, occorrendo a tal fine la dimostrazione di versare in stato di ignoranza incolpevole, non superabile con l’uso dell’ordinaria diligenza”. Affinché il contribuente sia sanzionabile, sottolinea, non è necessario che ci sia un comportamento doloso da parte del contribuente, basta un mero comportamento negligente.

Non serve neanche la buona fede, l’unica esimente è l’essere incorso in errore inevitabile non superabile con l’uso della normale diligenza. Anche in questo caso si esclude la responsabilità del contribuente nel caso in cui ci sia stata una condotta fraudolenta del consulente/commercialista consegnando una documentazione falsa in cui si attesti la presentazione della dichiarazione e il versamento dei tributi per conto del cliente/contribuente.

Il collegio giudicante nell’ordinanza 2891 dell’11 dicembre 2020 sottolinea che il contribuente non assolve ai suoi obblighi nei confronti del fisco attraverso il mero affidamento a un commercialista del mandato a trasmettere in via telematica la dichiarazione alla competente Agenzia delle Entrate, ma è tenuto a vigilare affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto.

Pensione di reversibilità e divorzio: quando ne ha diritto l’ex coniuge?

La pensione di reversibilità è anche conosciuta come pensione indiretta e pensione superstiti e si riconosce il diritto a percepirla solo a determinate categorie di “parenti stretti”, tra queste vi è il coniuge. Tra le novità introdotte da poco su pensione di reversibilità e divorzio vi è il riconoscimento del diritto a percepirla anche per il coniuge divorziato con addebito.

Pensione di reversibilità e divorzio

Quando una persona ha maturato i requisiti minimi per il pensionamento e perde la vita, ai parenti può spettare la pensione superstiti o di reversibilità. Il coniuge, anche se legalmente separato, ha diritto al 60% della pensione se è solo, 80% se ha un figlio e al 100% della pensione che avrebbe percepito il marito in presenza di due o più figli minori.

Ricordiamo che la separazione non fa venire meno gli effetti civili del matrimonio, ma semplicemente autorizza i coniugi a vivere separati. Al termine del periodo di separazione possono decidere se procedere o meno alla richiesta di divorzio. Proprio per questo non vi è alcun dubbio che il coniuge legalmente separato possa beneficiare della pensione di reversibilità, ma cosa capita in caso di divorzio? Particolarmente complicata potrebbe essere la situazione in presenza di diversi ex coniuge e concorrenza con il coniuge/vedovo.

Cosa succede però se i coniugi sono diversi, cioè se vi è più di un ex coniuge? In Italia la pensione di reversibilità spetta anche all’ex coniuge. Fino a pochi mesi fa il riconoscimento aveva luogo solo nel caso in cui era titolare di un assegno periodico divorzile. Questo vuol dire che l’ex coniuge che aveva preferito la liquidazione una tantum dell’assegno divorzile non aveva diritto a una quota della pensione di reversibilità. La stessa non spettava neanche all’ex coniuge che non aveva ottenuto l’assegno divorzile in quanto ha avuto l’addebito della separazione.

La circolare 19 del 2022 riconosce la pensione di reversibilità all’ex coniuge indipendentemente dal titolo della separazione

Tutto cambia con la circolare 19 del 2022 dell’INPS, questa infatti ha provveduto a rendere noti alcuni chiarimenti adeguandosi, tra l’altro, ad alcune sentenze della Corte di Cassazione.

La premessa della circolare ripercorre la disciplina.

La prima norma da ricordare è l’articolo 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 che riconosce il diritto a percepire la pensione superstiti per il coniuge che sopravvive, ma, sottolinea l’INPS, non prevede che per poterla percepire sia necessario il presupposto della vivenza a carico.

Segue la circolare 185 del 2015 dell’INPS in cui si sottolinea che la pensione superstiti spetta anche al coniuge che ha avuto l’addebito della separazione, se titolare di assegno alimentare.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione è andata però in diversa direzione riconoscendo il diritto alla pensione di reversibilità all’ex coniuge indipendentemente dal fatto che la separazione fosse o meno con addebito e che la parte fosse o meno titolare di un assegno divorzile. Proprio in ragione di ciò l’INPS ha emanato la circolare 19 del 2022 dove viene appunto riconosciuto il diritto ad ottenere la pensione di reversibilità per il coniuge o ex coniuge anche se non era titolare di assegno di divorzio o di assegno alimentare.

Come si determina l’ammontare?

Ciò che resta difficile è invece determinare il quantum, soprattutto nel caso in cui ci sia concorrenza tra più coniugi. In genere il coniuge vedovo riceve una percentuale maggiore, ma per determinare l’ammontare devono essere considerati diversi fattori, ad esempio la durata del matrimonio. Non esistono però criteri fissi di riferimento, ecco perché nel caso in cui si ritenga che la determinazione fatta dall’INPS sia contraria ai propri interessi, è possibile proporre ricorso.

Per capire a chi viene riconosciuta la pensione di reversibilità, o superstiti, c’è l’approfondimento: Pensione superstiti, o di reversibilità: a chi spetta e a quanto ammonta

Redditometro: giudice non può limitarsi a una motivazione sintetica

Il redditometro è uno strumento che consente all’Amministrazione finanziaria di determinare la ricostruzione sintetica del reddito di una persona fisica attraverso la sua capacità di spesa. L’obiettivo è naturalmente scoprire redditi nascosti. Si tratta di uno strumento di determinazione del reddito considerato sintetico e naturalmente il contribuente ha la possibilità di presentare ricorso. In questo caso spetterà al giudice determinare chi tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente abbia ragione. In merito a questo punto è intervenuta l’Ordinanza della Corte di Cassazione 5504 del 21 febbraio 2022 che ha sottolineato numerosi punti in favore del contribuente.

Cos’è il redditometro?

Il redditometro è un metodo di ricostruzione sintetica del reddito partendo dalle spese effettuate dal contribuente persona fisica e comparando tali spese con le dichiarazioni dei redditi prodotte. Il redditometro tiene in considerazione l’incremento di patrimonio, le quote di risparmio e le spese riscontrabili. Per capire bene l’importanza dell’ordinanza in oggetto è bene sintetizzare le fasi attraverso cui si procede all’accertamento del reddito con il redditometro. La prima fase è quella di selezione del contribuente da sottoporre a controllo. Si parla in questo caso di controllo sulla famiglia fiscale partendo dal presupposto che anche altre persone appartenenti al nucleo possono concorrere a determinare il reddito e le spese (di solito si considerano coniuge e figli).

Segue la fase istruttoria in cui sono determinati i redditi. In questa si prendono in considerazione le spese certe, cioè tracciate, le spese per elementi certi, cioè che devono essere per forza sostenute in conseguenza di fatti certi, ad esempio spese per la gestione dell’auto o della moto, spese legate alla casa. Si tengono in considerazione gli incrementi patrimoniali, cioè investimenti in beni immobili (acquisto di un terreno) o investimenti in titoli. Infine, si tiene in considerazione la quota di risparmio formatasi nell’anno.

Nel caso in cui tra i rilievi della fase istruttoria e le dichiarazioni ci sia uno scostamento superiore al 20%, parte l’accertamento fiscale. Per i lavoratori autonomi e titolari di ditta individuale i cui redditi dichiarati risultano conformi agli studi di settore, la percentuale che fa scattare l’accertamento è fissata al 33%.

Il contraddittorio con il contribuente

Nella fase dell’accertamento si instaura un contraddittorio con il contribuente che è invitato tramite questionario a giustificare tali spese. In questa fase il contribuente potrà dimostrare che parte delle spese non è riconducibile al suo reddito.

Il contribuente viene quindi invitato presso l’Agenzia delle Entrate e in questa fase potrà esporre le sue ragioni. L’Amministrazione finanziaria potrà archiviare o procedere ulteriormente. Contro un eventuale avviso di accertamento il contribuente potrà chiedere una mediazione, proporre ricorso oppure aderire alle richieste dell’Agenzia.

Fatta questa premessa possiamo passare all’analisi della questione affrontata dalla Corte di Cassazione nell’Ordinanza 5504 del 21 febbraio 2022.

Ordinanza 5504 della Corte di Cassazione: il giudice deve analizzare i documenti e motivare la sentenza

Nel caso concreto, in seguito ad un avviso di accertamento basato sul redditometro, il contribuente ha proposto ricorso, rigettato in primo grado. Il Giudice ha motivato il rigetto sul fatto che il contribuente non aveva dato prova della disponibilità di fondi che potessero giustificare le spese. Il contribuente ha proposto ricorso in Cassazione adducendo che il Giudice non aveva sufficientemente analizzato la copiosa documentazione prodotta per giustificare le spese sostenute nell’anno sottoposto a controllo

La Corte di Cassazione ha ribadito che l’accertamento dell’Amministrazione finanziaria deve essere sintetico e che spetta al contribuente in sede endoprocedimentale difendersi dalle contestazioni adducendo prove certe circa la capacità di spesa oppure sull’inesistenza delle spese dedotte dal “controllore”.

Qualora l’ufficio ritenga di non dover tenere in considerazione i rilievi del contribuente deve però darne un’adeguata motivazione. In caso contrario l’accertamento è nullo.

Nell’Ordinanza 5504 la Cassazione va oltre e ribadisce che anche in caso di ricorso giurisdizionale vi deve essere la stessa attenzione, cioè il giudice deve analizzare in modo analitico la documentazione prodotta dal contribuente non potendosi limitare a giudizi sommari privi di riferimenti alla massa documentale prodotta dal contribuente. Nel caso in oggetto quindi la sentenza viene considerata nulla perché non è possibile ripercorrere il percorso logico giuridico che ha portato l’organo giudicante a ritenere non sufficiente la documentazione prodotta dal contribuente. Una motivazione siffatta, cioè che non analizza in modo analitico la documentazione prodotta dal contribuente, ma semplicemente sottolinea che la stessa è insufficiente a dimostrare le ragioni del soggetto, viene considerata dalla Corte di Cassazione apparente e quindi non valida.

IMU: arrivano i controlli sulla residenza dei coniugi, ma senza sanzioni

E’ dovuta l’IMU se due coniugi hanno due case intestate, ciascuna a uno solo, e allo stesso tempo hanno anche residenze diverse? Questa è la domanda che per molto tempo si sono posti contribuenti e tribunali. Ora sembra esserci chiarezza, ma nel frattempo non si applicano sanzioni in seguito a controlli del fisco sulla residenza dei coniugi.

IMU e doppia residenza cosa succede?

L’IMU è una delle imposte più odiate dagli italiani. Nel tempo la disciplina ha avuto diverse modifiche, attualmente è prevista l’esenzione dall’IMU per l’abitazione principale, mentre il pagamento avviene per le seconde e ulteriori case. Coloro che si ritrovavano quindi con due case hanno preferito spesso diversificare l’intestazione dell’immobile in modo da far risultare un’unica casa per ogni coniuge. Su tale abitudine ci sono state però interpretazioni contrastanti, infatti nella circolare 3/DF del 2012 il Ministero dell’Economia e Finanze ha sottolineato che era giusta l’esenzione dal pagamento dell’IMU per i coniugi che vivono separati e hanno ciascuno una propria abitazione, ad esempio nel caso in cui gli stessi lavorino in città diverse.

La sentenza della Corte di Cassazione n° 20130 del 24 settembre 2020 ha invece ribaltato tale interpretazione e ha previsto l’obbligo di assoggettamento all’IMU dell’abitazione principale in quanto il proprietario per motivi lavorativi aveva trasferito la residenza in altro Comune in cui aveva un altro immobile di proprietà.

La legge di bilancio 2022 ha provveduto invece a sistemare la questione in modo più equilibrato stabilendo l’obbligo di pagare l’IMU solo per una delle due abitazioni in cui i coniugi hanno la residenza e affida ai proprietari la facoltà di scegliere quale immobile adibire ad abitazione principale e quindi quale immobile esonerare dal versamento dell’IMU. La decisione deve essere palesata in sede di dichiarazione e quindi entro mese di giugno.

Controlli ma senza sanzioni: le precisazioni del MEF a Telefisco 2022

Fatta questa scelta, la domanda che molti si sono posti è: come devono essere svolti i controlli sulla veridicità delle dichiarazioni? A questa il MEF ha risposto il 27 gennaio 2022, nel corso di Telefisco, fornendo importanti chiarimenti.

Il MEF ha ribadito che vi sarà applicazione dell’articolo 10 dello Statuto del Contribuente il quale tutela la buona fede del contribuente e stabilisce che, in caso di controlli, non possono essere applicate sanzioni se l’errore del contribuente è determinato dall’essersi conformato ad indicazioni contenute in atti dell’Amministrazione finanziaria e dalla stessa successivamente modificate.

Il contribuente non è destinatario di sanzioni anche nel caso in cui gli errori siano dovuti a ritardi, omissioni o errori degli uffici fiscali. Infine, sempre a norma dell’articolo 10 dello Statuto del Contribuente non possono essere irrogate sanzioni se gli errori dei contribuenti sono dovuti a incertezze sulla portata e sull’ambito di applicazione di una norma tributaria.

Nel caso dell’IMU sulla seconda casa intestata a ciascuno dei coniugi, gli errori potrebbero essere determinati dal fatto che nel tempo si sono succedute interpretazioni diverse della normativa generando una possibile confusione nel contribuente.

Per ulteriori informazioni sui casi in cui l’IMU non è dovuta, leggi l’articolo: IMU, se la casa è occupata non va pagata, si cambiano le regole

Difetti di costruzione immobili: quando presentare la denuncia?

Cosa succede se dopo aver commissionato la costruzione di un edificio ti accorgi che questo ha dei difetti che lo rendono poco stabile o non funzionale? In questo caso puoi far valere la garanzia del costruttore. Gli edifici sono dei beni destinati a durare nel tempo, ma possono presentare dei difetti di costruzione che spesso non sono percepibili fin da subito. Per dare maggiore tutela al proprietario di un immobile sono previsti termini di prescrizione particolarmente lunghi per la denuncia di difetti di costruzione, diverso è invece il trattamento riservato a difformità della costruzione oppure vizi dell’opera. Ecco cosa rischia un’impresa edile.

I difetti di costruzione

Ad occuparsi dei termini per la denuncia dei difetti di costruzione è l’articolo 1669 del codice civile, questo prescrive che, nel caso in cui un bene immobile destinato a durare nel tempo dovesse manifestare dei problemi prima che siano trascorsi 10 anni dalla sua realizzazione, il costruttore è responsabile di tali difetti. Gli stessi devono però essere denunciati da chi ne ha diritto entro un anno dalla loro scoperta. Dal momento della denunzia di tali difetti di costruzione il committente deve iniziare un’eventuale azione contro l’appaltatore/costruttore, ciò a pena di decadenza.

La Corte di Cassazione in merito ha stabilito che il termine per la denuncia comincia a decorrere dal momento in cui i difetti della costruzione acquisiscono un apprezzabile grado di conoscenza, ma la stessa Corte ha precisato che, se per valutare correttamente il vizio e la sua entità, dovesse essere necessaria una perizia, il termine di un anno per presentare la denuncia inizia a decorrere dal momento in cui la perizia è nella disponibilità del committente.

Quali difetti di costruzione possono essere denunciati?

L’articolo 1669 del codice civile prevede che possano essere denunciati difetti dovuti a vizi del suolo o difetti di costruzione. Appare fin da subito evidente che può essere difficile determinare i vizi del suolo che potrebbero portare a una responsabilità del costruttore. La giurisprudenza afferma che si tratta del caso in cui il terreno su cui si edifica sia franoso e il costruttore non abbia adottato i giusti accorgimenti idonei a rendere stabile l’edificio, oppure il costruttore non abbia rilevato che il terreno non era adatto a supportare tale tipologia di edificio.

Per quanto riguarda invece i difetti di costruzione, questi possono essere inerenti sia alla staticità sia alla durata e conservazione dell’edificio, inoltre possono essere riconosciuti come difetti di costruzione anche quelli che, pur non riguardando parti essenziali dell’edificio, ne alterano gli elementi accessori, ad esempio un difetto nella installazione della canna fumaria o nella posa in opera dei pavimenti o dei rivestimenti, si deve trattare di difetti che vanno a incidere sulla durata dell’intervento stesso e incidono in modo negativo e considerevole sul godimento del bene. Ad esempio la giurisprudenza ha considerato come difetti di costruzione la presenza di gravi crepe sui muri, cedimento di solai e pavimenti e tutti i difetti che in genere vanno a incidere sulla funzionalità dell’edificio e riducono in modo apprezzabile il godimento del bene.

Cosa si intende per difformità dell’opera e quando va denunciata

La denuncia può essere fatta anche al verificarsi di una difformità dell’opera, per tale si intende ogni differenza tra gli accordi fatti in sede contratto e l’opera realizzata. In questo caso deve però essere sottolineato che se la difformità è palese, conoscibile ed evidente, il termine per la denuncia comincia a decorrere dal momento della consegna dell’opera. Ad esempio se nel progetto c’erano 10 finestre e il committente si ritrova un edificio con 9 finestre, la difformità è evidente e se non si procede subito alla denuncia si ritiene che tale difformità sia accettata, se non addirittura concordata. I termini per la denuncia della difformità sono però diversi, infatti in questo caso trova applicazione all’articolo 1667 del codice civile il quale stabilisce che le difformità devono essere denunciate entro 60 giorni dalla scoperta. L’azione invece si prescrive dopo due anni dalla consegna dell’opera.

Il committente in seguito alla prova della difformità dell’opera può chiedere che le difformità e i vizi siano eliminati a spese dell’appaltatore oppure che sia dato un congruo risarcimento e, infine, una riduzione del prezzo concordato.

Chi deve provare i difetti di costruzione?

Il regime probato per i difetti di costruzione è lo stesso che si applica in linea generale e quindi spetta a chi afferma un fatto, cioè al committente, dimostrare i difetti di costruzione e i vizi del suolo. Se non riesce a provarlo in modo adeguato, la domanda viene rigettata anche se il costruttore in un eventuale giudizio fosse contumace. Resta naturalmente la facoltà del costruttore provare che in realtà il vizio non esiste o che lo stesso non è dovuto a una sua imperizia, negligenza o colpa, ma a un fatto del committente, ad esempio la cattiva manutenzione dell’opera, un cattivo uso della cosa. Inoltre il costruttore può liberarsi anche provando che in realtà il difetto di costruzione o vizio del suolo è dovuto a un’azione o omissione di terzi soggetti.

Ordine di demolizione su immobile abitato da minori: si può eseguire?

Gli abusi edilizi purtroppo sono molto frequenti e in alcuni casi possono portare a un ordine di demolizione dell’immobile con la conseguenza che, se l’immobile è utilizzato come abitazione principale, si possono avere reali problemi ad affrontare l’imminente esecuzione. Ciò che molti si chiedono è se l’ordine di demolizione possa essere eseguito anche nel caso in cui nell’immobile vivono minori e il nucleo familiare non ha un altro alloggio a disposizione. Vedremo a breve che negli ultimi anni la prassi giurisprudenziale è piuttosto uniforme.

Cos’è l’abuso edilizio

Deve essere fin da subito detto che la giurisprudenza sul punto non sempre è stata unanime e molto dipende dalla situazione concreta del singolo, infatti l’ordine di demolizione può andare a contrastare con il diritto all’abitazione nei casi di “abusi di necessità”.

Per capire bene è necessario fare una premessa. Si verifica l’abuso edilizio quando una parte costruisce un immobile senza un idoneo titolo edilizio, cioè senza il permesso di costruire, in assenza della comunicazione di inizio dei lavori oppure quando l’opera appare difforme rispetto ai titoli edilizi concessi. Nel caso in cui l’abuso edilizio venga scoperto dall’autorità vi è l’ordine di demolizione al fine di ripristinare lo stato dei luoghi.

Nel caso in cui il proprietario non provveda alla demolizione, può essere acquisito alla proprietà comunale, inoltre in presenza di reato è possibile l’arresto e la comminazione di una sanzione pecuniaria. C’è il reato penale nel caso di costruzione realizzata in violazione delle norme, in caso di totale assenza di titolo e in caso di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio.

Sanataria per abusi edilizi: quando si può evitare l’ordine di demolizione?

Vi sono dei casi in cui però è possibile la sanatoria, ciò può avvenire solo nel caso in cui non ci sia un contrasto tra il fabbricato e il piano regolatore generale e quindi in teoria si poteva avere il titolo edilizio per realizzare la costruzione. Per ottenere la sanatoria inoltre è richiesto un ulteriore requisito, cioè l’immobile deve essere conforme alla normativa vigente in materia di edilizia.

Per ottenere la sanatoria deve essere presentata istanza presso il Comune in cui è ubicato l’immobile entro 60 giorni dal momento in cui è stato rilevato l’illecito.

Ordine di demolizione in presenza di minori

Fatta questa prima premessa sull’abuso edilizio e sui casi in cui può esserci ordine di demolizione, occorre ora capire se la presenza di minori nella casa possa essere motivo ostativo all’esecuzione della demolizione stessa. Come detto, le sentenze in materia sono numerose, ma in questo caso si fa particolare riferimento alla pronuncia 45971 del 15 dicembre 2021.

I giudici della Corte di Cassazione hanno rilevato che la presenza di minori nell’abitazione non sempre è ostacolo all’esecuzione dell’ordine di demolizione. Seguiamo l’iter logico giuridico seguito dalla Suprema Corte.

La premessa è che il diritto all’abitazione previsto negli articoli 2 e 3 della Costituzione (articolo 2 stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo anche all’interno delle formazioni sociali, articolo 3 prevede il principio di uguaglianza sostanziale e stabilisce che è compito della Repubblica eliminare gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.) e articolo 8 della CEDU (Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza) è di pari rango rispetto ad altri principi costituzionali come la necessità che vi sia un ordinato sviluppo del territorio e la salvaguardia dell’ambiente.

Tale “parità” giustifica l’ordine di demolizione di un immobile abusivo purché tale obbligo sia proporzionato rispetto allo scopo della normativa edilizia. Insomma va demolito un immobile abusivo in una zona dove vige il divieto di costruire.

Il ricorrente aveva sottolineato nel ricorso che il nucleo familiare era composto da 3 minori e che l’ordine di demolizione, confermato da una sentenza del Tribunale di Napoli, non aveva ottemperato a un giusto bilanciamento tra la tutela dei minori e l’interesse al ripristino della situazione antecedente. L’abitazione infatti era l’unica dimora a disposizione della famiglia e le condizioni economiche sociali non permettevano altre soluzioni.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ritenendolo inammissibile. Ha precisato che il diritto all’abitazione non deve essere visto in termini assoluti, ma deve essere confrontato con valori di pari rango. D’altronde è necessario scoraggiare comportamenti illegali che contrastano con l’esigenza di tutela dell’ambiente e del territorio.

Ha inoltre sollevato due particolari questioni. Spetta alla parte ricorrente infatti indicare in modo preciso e circostanziato i motivi che osterebbero all’esecuzione dell’ordine di demolizione. In primo luogo il ricorrente non ha specificato i problemi di salute che lo riguarderebbero ( ha solo rinviato al contenuto di una relazione dei servizi di protezione sociale), inoltre il ricorrente non si è mai attivato per la ricerca di un alloggio popolare infatti non si è rivolto ai servizi competenti per l’individuazione di una situazione abitativa nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica.

Ordine di demolizione in caso di ampliamento e in presenza di minori

Già in altre pronunce la Corte di Cassazione aveva sottolineato come il diritto previsto dall’articolo 8 della CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) non deve essere visto come assoluto, ma deve essere contemperato con altre esigenze e in particolare con il diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato e a ripristinare l’equilibrio urbanistico-edilizio (Sentenza Corte di Cassazione 844 del 2020 depositata il 13 gennaio 2020).

Nella stessa trova conferma l’ordine di demolizione parziale di un edificio e a nulla è valso il fatto che nella stessa abitassero due minori o le consulenze tecniche di parte da cui si evince che la demolizione della parte abusiva avrebbe compromesso anche la stabilità della parte regolarmente costruita e danneggiato l’impiantistica, tra cui quella del metano. Per la Corte di Cassazione in sede di merito, Tribunale di Brindisi, il ricorrente non aveva sufficientemente provato tale pericolo e nel caso in oggetto non vi era parziale difformità tra il progetto iniziale di ampliamento e i lavori effettivamente eseguiti, infatti non aveva richiesto alcun titolo edilizio relativo a tale ampliamento, di conseguenza non è possibile la sanatoria.

Si può evincere da queste due pronunce che la presenza di minori spesso non è un elemento ostativo rispetto all’ordine di demolizione.

Passaggio generazionale azienda e neutralità fiscale

Al fine di favorire la continuità aziendale il legislatore ha previsto delle agevolazioni per il passaggio generazionale. Vi sono però delle limitazioni all’applicazione di tale principio e a sottolinearle è la Corte di Cassazione con l’ordinanza 33789 del 2021.

Neutralità fiscale nel passaggio generazionale

La normativa sul passaggio generazionale delle aziende mira a trasferire a soggetti terzi ( in passato solo eredi, oggi qualunque terzo) l’azienda senza applicazione di imposte e quindi in regime di neutralità fiscale. L’obiettivo è favorire la continuità aziendale e quindi assicurare un passaggio non traumatico da una gestione all’altra. Generalmente si vuole favorire la sopravvivenza di aziende solide che potrebbero essere danneggiate da un passaggio generazionale tassato con regole ordinarie. L’articolo 58 del TUIR, Testo Unico Imposte sul Reddito, prevede che “Il trasferimento di azienda per causa di morte o per atto gratuito non costituisce realizzo di plusvalenze dell’azienda stessa; l’azienda è assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa.”

Vi sono però dubbi interpretativi su tale norma in particolare nel caso in cui la donazione avviene non in favore di una persona fisica ma di una società.

Il caso concreto: passaggio generazionale in favore di SRL

Nel caso concreto un imprenditore cede con atto di donazione un ramo d’azienda del valore di oltre 177.000 euro a una SRL che aveva come socio al 50% la figlia del donante.

L’imprenditore intende tale donazione fatta in applicazione del principio di neutralità fiscale dell’articolo 58 del TUIR, ma l’Agenzia delle Entrate impugna l’atto ritenendo invece che i proventi conseguiti dalla SRL a titolo di liberalità debbano essere considerati sopravvenienze attive e conseguentemente tassati.

Naturalmente il contribuente decide di impugnare l’atto dell’Agenzia delle Entrate e la Commissione Tributaria Provinciale accoglie la posizione dell’Agenzia delle Entrate. La parte propone ricorso in secondo grado e la Commissione Tributaria Regionale accoglie invece la tesi del contribuente. Secondo questa la donazione doveva essere considerata come un passaggio generazionale anche se avvenuto tra un’impresa individuale e una Società. A questo punto è l’Agenzia delle Entrate a proporre un ulteriore appello in Cassazione e la Corte offre un’interpretazione in linea con quella della Commissione Tributaria Provinciale.

Secondo l’Agenzia delle Entrate la neutralità fiscale prevista dal comma 1 dell’articolo 58 del TUIR si applica esclusivamente quando il donatario è una persona fisica, mentre nel caso in cui il donatario sia una società o un imprenditore, trova applicazione l’articolo 58, ma comma 3 che tratta le plusvalenze e riconosce in capo al donatario, una sopravvenienza attiva, ex art. 88, comma 3, lett. b) .

Ordinanza 33789 del 12 novembre 2021 della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, in linea con l’Agenzia delle Entrate, afferma che in realtà la neutralità fiscale dell’articolo 58 comma 1 del TUIR si realizza esclusivamente in capo al donante, ma non in capo al donatario, infatti, la tassazione viene semplicemente rimandata in un secondo momento in quanto in caso di successiva cessione o vendita del ramo di azienda, le plusvalenze realizzate vengono tassate. Precisa però la Corte di Cassazione nell’ordinanza citata che nel caso in cui il donatario non sia una persona fisica ma una società trova applicazione l’articolo 88 comma 3 del TUIR, questo stabilisce che sono considerate sopravvenienze attive le liberalità. Lo stesso comma sottolinea che “Tali proventi concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui sono stati incassati o in quote costanti nell’esercizio in cui sono stati incassati e nei successivi ma non oltre il quarto”.

Tale trattamento differenziato a seconda che il destinatario della donazione sia una persona fisica o una società commerciale è dovuto al fatto che nel secondo caso non è possibile distinguere tra la sfera personale e quella imprenditoriale del soggetto che si vorrebbe beneficiare, in questo caso si tratta della figlia dell’imprenditore socia al 50% della SRL che dovrebbe beneficiare della liberalità.

La Corte di Cassazione ritiene che quindi nel caso in oggetto la SRL abbia solo la possibilità di scegliere tra la tassazione immediata nell’esercizio in cui i proventi sono incassati oppure in quote costanti per i successivi 4 anni.

Passaggio generazionale: la neutralità fiscale si applica sono tra impresa individuale e persona fisica

Riassumendo, nel caso in cui un imprenditore voglia ottenere i benefici fiscali inerenti il passaggio generazionale dell’azienda, la donazione della stessa o di un ramo della stessa non deve essere fatta in favore di un ente commerciale collettivo o una società, ma in favore di una persona fisica.

A questo punto occorre ricordare che le aziende agricole sono sottoposte a una normativa speciale, per saperne di più leggi l’articolo: Patto di famiglia per la continuità dell’azienda agricola

Rinuncia all’eredità: non è valida se non si presenta l’inventario

Sei stato chiamato all’eredità avente ad oggetto beni di cui già sei in possesso? In questo caso si perde la possibilità di rinunciare all’eredità se non si redige l’inventario entro 3 mesi.

Cos’è la rinuncia all’eredità

La rinuncia all’eredità è uno strumento dato ai chiamati all’eredità allo scopo di poter decidere se effettivamente entrare nell’asse ereditario di un soggetto. I motivi della rinuncia possono essere di varia natura, ad esempio si può trattare di motivi di ordine morale, come nel caso in cui una persona non ha voluto avere a che fare con un congiunto e decide di non volere i suoi beni neanche dopo la morte della persona. Possono però essere anche motivi di ordine economico, ovvero se si ha il sospetto che il patrimonio sia incapiente rispetto ai debiti contratti dal soggetto, si può decidere di non accettare l’eredità.

Qualunque sia il motivo di tale scelta, è necessario rispettare delle procedure specifiche e in una recente pronuncia la Corte di Cassazione ha stabilito che chi vuole rinunciare all’eredità deve fare l’inventario. La regola generale prescrive che la rinuncia deve essere effettuata entro 10 anni dall’apertura della successione testamentaria. Vi sono però delle eccezioni e oggi ci interessa una di esse, cioè il caso in cui il chiamato sia già in possesso dei beni.

Rinuncia all’eredità quando gli eredi sono già in possesso dei beni

Nel caso in esame occorre fare delle precisazioni. Trova applicazione l’articolo 485 del Codice Civile il quale stabilisce che coloro che per vari motivi sono in possesso dell’eredità entro tre mesi dall’apertura della successione devono fare l’inventario. Se non procedono in tal senso, l’eredità si intende accettata e quindi si perde la possibilità di esercitare la rinuncia all’eredità. Se gli eredi hanno iniziato a redigere l’inventario, ma non riescono a completarlo nell’arco di 3 mesi, possono chiedere al tribunale del luogo in cui si è aperta la successione una proroga che, salvo gravi circostanze, non può eccedere i tre mesi.

Questo è il caso che interessa nel concreto, cioè i chiamati all’eredità erano già in possesso dei beni. Si verifica ciò nel caso in cui Tizio lasci, ad esempio, in eredità al figlio Caio una casa e costui vive già nella casa, oppure un’azienda che il soggetto già dirige, un terreno che già coltiva.

Ordinanza n°36080 Corte di Cassazione

Nel caso trattato con l’ordinanza n. 36080/2021, l’Agenzia delle Entrate aveva provveduto a notificare collettivamente agli eredi del contribuente una cartella di pagamento. Gli eredi avevano proposto ricorso e si erano opposti alla stessa indicando come motivazione la rinuncia all’eredità con efficacia retroattiva, in applicazione dell’articolo 521 del codice civile, presentata però successivamente alla notifica.

Il tribunale in primo e in secondo grado (Commissione Tributaria Provinciale e Regionale), avevano accolto la tesi del contribuente. La CTR aveva addirittura azzardato come motivazione il fatto che non vi era la prova sufficiente del fatto che gli eredi avessero il possesso dei beni. L’Agenzia delle Entrate ha sottolineato che il domicilio fissato presso l’immobile oggetto dell’eredità poteva essere considerato prova del possesso.

A questo punto l’Agenzia delle Entrate si rivolge alla Suprema Corte che capovolge le pronunce del giudice di prime e seconde cure.

Secondo l’Agenzia delle Entrate gli eredi non avevano provveduto a dimostrare di avere presentato l’inventario dei beni nei termini previsti e di conseguenza erano divenuti eredi a tutti gli effetti.

La Corte di Cassazione ha effettivamente sposato la tesi dell’Agenzia delle Entrate, la questione è stata quindi rimandata alla Commissione Tributaria Regionale in diversa composizione che dovrà quindi dirimere la questione.

Come comportarsi in caso di eredità

In sintesi, se non si vuole essere esposti al rischio di dover pagare i debiti del de cuius è necessario provvedere ad accettare con beneficio dell’inventario, oppure rinunciare all’eredità. Se però si è già in possesso dei beni dell’eredità occorre entro tre mesi redigere l’inventario. Se non si provvede si sarà tenuti a pagare i debiti del de cuius. nel nostro caso erano verso l’Agenzia delle Entrate, ma potrebbero esservi anche altri creditori che comunque potrebbero aggredire l’eredità e in caso di incapienza i beni degli eredi.

Per conoscere la procedura per eseguire correttamente la rinuncia all’eredità, leggi l’articolo: Rinuncia all’eredità: caratteristiche, limiti e procedura