Ticket sanitario, quale reddito per non pagarlo?

Il Sistema Sanitario Nazionale può essere gratuito,  quindi si possono avere prestazioni mediche specialistiche ed esami strumentali e di laboratorio in modo gratuito. Ma vi sono casi specifici in cui si può ottenere l’esenzione dal ticket sanitario. Ecco quando non si paga.

Esenzione ticket per reddito

L’esenzione dal ticket sanitario, e quindi prestazioni sanitarie gratuite, si può ottenere solo in casi specifici e in particolare per motivi di reddito per motivi legati in maniera congiunta al fattore anagrafico e al reddito e infine per patologia. In questo ultimo caso si ottengono prestazioni gratuite solo relativamente a tale patologia, ad esempio un diabetico può ottenere dispositivi per la misurazione del diabete e insulina.

Ci soffermiamo ora sul caso di esenzione dal ticket per motivi economici.

Il welfare italiano prevede un sistema sanitario pubblico gratuito, o quasi, in particolare le prestazioni come analisi del sangue, esami diagnostici presso il servizio pubblico o presso privati convenzionati, visite mediche sempre tramite servizio pubblico sono rese dietro il pagamento di un ticket sanitario che può essere di diverso importo in base alla tipologia della prestazione. Nel caso in cui però la persona che deve ottenere la prestazione appartiene ad un nucleo con un reddito basso la prestazione si può ottenere gratuitamente.

Qual è il limite del reddito per ottenere l’esenzione dal ticket?

I casi sono diversi e per ognuno c’è un codice dedicato che deve essere inserito da chi prescrive la prestazione medica. Ecco la lista delle esenzioni ticket per reddito:

  • per bambini fino a 6 anni e ultra-sessantacinquenni, esenzione ticket con codice E02 con reddito del nucleo inferiore a 36.151,98 euro annui;
  • disoccupati e familiari a carico, reddito del nucleo familiare inferiore a 8.263,31 euro, elevati a 11.362,05 euro quando uno dei coniugi è a carico. Per ogni altro familiare a carico il limite del reddito deve essere aumentato di 516,46 euro. Il codice esenzione ticket in questo caso è E02;
  • titolari di pensione sociale o percettori di assegno sociale e familiari a carico, codice E03;
  • titolari di pensione minima di età superiore a 60 anni e familiari a carico. Codice esenzione ticket E04.

Per ottenere l’esenzione non basta dire al medico che effettua la prescrizione che si ha diritto a essa, occorre rivolgersi alla Asl di appartenenza alla Regione presentando un’autocertificazione del reddito e il documento di riconoscimento. L’Asl rilascerà un certificato provvisorio in scadenza il 31 marzo di ogni anno.

Gli over 65 non sono tenuti di anno in anno a chiedere il rilascio del certificato all’Asl, ma nel caso in cui il reddito cambi e quindi sia superato il limite, occorre comunicarlo all’Asl.

Effettuato questo passaggio, il codice viene inserito nella banca e nel momento in cui il medico compone la ricetta medica, il codice viene inserito in automatico.

Leggi anche: Pensione, invalidità civile, pensione sociale, i nuovi importi

Detrazione spese universitarie, ecco perché si perdono

Ci sono numerosi studenti universitari che per non pesare troppo sulle spalle dei genitori decidono di lavorare, che si tratti di fare i camerieri, pizzaioli, lavorare part time per qualche azienda, questo porta alla formazione di un reddito. Tale reddito potrebbe precludere la possibilità di avvalersi delle detrazioni fiscali per le spese universitarie. Ecco come comportarsi.

Detrazione spese universitarie per i figli, ecco quando si possono perdere

La detrazione spese universitarie consente di “scalare” dall’Iperf il 19% delle spese sostenute per la frequentazione di corsi universitari. La detrazione può essere fatta valere anche nel caso in cui lo studente sia iscritto a facoltà private, riconosciute dal Miur, in questo caso dei limiti di spesa che dipendono dalla facoltà frequentata e dall’ubicazione della facoltà.

I genitori che pagano le tasse universitarie dei figli ed altre spese connesse, ad esempio l’abbonamento per il trasporto pubblico, possono richiedere la detrazione delle spese sostenute per il figlio, ma cosa succede nel caso in cui il figlio non sia più considerabile fiscalmente a carico sebbene appartenga allo stesso nucleo familiare?

Ecco i chiarimenti.

Un figlio non si considera fiscalmente a carico nel caso in cui abbia un reddito proprio che supera 4.000 euro l’anno per figli fino a 24 anni di età, scende a 2.840,52 età per i figli di età maggiore. In questo caso i genitori pur continuando a pagare le tasse universitarie per il figlio, ad esempio come regalo o perché oggettivamente con un reddito di 4.000 euro non si è autonomi, non potranno comunque avvalersi delle detrazioni per spese universitarie.

Al limite è il figlio che in dichiarazione dei redditi può far valere la detrazione fiscale in oggetto, sebbene, vista la detrazione per lavoro dipendente spettante ai lavoratori, potrebbe comunque risultare “incapiente” non versare imposte e di conseguenza non avere capienza fiscale per far valere la detrazione.

Leggi anche: Detrazioni 730/2023: l’elenco completo delle spese che si possono scaricare

Stato di disoccupazione e reddito di cittadinanza: nuovi limiti

Con la nota 5824 il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha indicato i nuovi limiti di reddito per poter conservare lo stato di disoccupazione e percepire il reddito di cittadinanza godendo di alcuni esoneri.

Come si conserva lo stato di disoccupazione anche lavorando?

Il decreto legge 4 del 2019, convertito in legge 26 del 2019, prevede all’articolo 4 comma 3 che alcune categorie di lavoratori, pur svolgendo attività di lavoro dipendente o autonomo, possano conservare lo stato di disoccupazione, continuare a percepire il reddito di cittadinanza e prevede che siano esonerate da alcuni obblighi connessi alla percezione del reddito di cittadinanza. In particolare non sono tenuti a dare la disponibilità immediata al lavoro ( ricordiamo che la stessa deve essere data da tutti i membri maggiorenni del nucleo familiare). Sono inoltre esonerati dall’obbligo di aderire al percorso finalizzato all’inserimento lavorativo.

Il limite per poter conservare lo stato di disoccupazione era pari al reddito corrispondente a un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell’articolo 13 del testo unico delle imposte sui redditi.

Nuovi limiti di reddito per conservare lo stato di disoccupazione

La legge di bilancio per il 2022 ha provveduto a modificare tale limite previsto dall’articolo 13 del Tuir e ciò ha portato a una modifica anche del limite di reddito previsto per la conservazione dello stato di disoccupazione. I nuovi limiti sono:

  • 8.174 euro per il lavoro dipendente, anche di tipo intermittente ( in precedenza era 8.145 euro);
  • 5.500 euro in caso di lavoro autonomo. Questo limite si occupa anche in caso di prestazioni occasionali senza partita Iva, collaborazione in imprese familiari, partecipazione in qualità di coadiuvanti in imprese familiari ( limite precedente 4800 euro).

Ricordiamo che questi non sono i limiti previsti per avere diritto al reddito di cittadinanza, infatti tale limite corrisponde a un Isee non superiore a 9.360 euro. Naturalmente in presenza di reddito e in base alle singole situazioni familiari, cambiano gli importi.

Nota 5824/2022 del Ministero del lavoro: limiti orari

La nota 5824/2022 del Ministero del Lavoro, oltre ad adeguare a questi nuovi limiti i requisiti per conservare lo stato di disoccupazione e quindi godere dei privilegi previsti dal reddito di cittadinanza, sottolinea che gli esoneri precedentemente visti, cioè dall’obbligo per i percettori e per i membri del nucleo maggiorenni di dare immediata disponibilità al lavoro e dal partecipare a percorsi di formazione, sussistono se il tempo impiegato nell’attività di lavoro sia superiore a 20 ore settimanali e quando, aggiungendo alle ore di effettivo lavoro il tempo impiegato per raggiungere il posto di lavoro, sono superate le 25 ore.

Leggi anche: Le nuove regole per il reddito di cittadinanza: cosa cambia per i percettori

Reddito di cittadinanza: gli sgravi contributivi per le assunzioni. Novità

 

Immigrazione e Ius Scholae: in classe si costruisce la cittadinanza

Nel settore dell’immigrazione potrebbero esservi importanti novità,  è iniziato l’iter alla Camera per l’approvazione dello Ius Scholae che prevede la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana frequentando le scuole in Italia.

Immigrazione: come si ottiene la cittadinanza italiana?

La cittadinanza è alla base di molti benefici e privilegi che sono riconosciuti solo a coloro che vivono in Italia, da tempo si discute in Italia su una nuova base per diventare cittadini a tutti gli effetti e non mancano polemiche. Ora, dopo anni di tentativi, si prova di nuovo e stavolta con lo Ius Scholae, presentato alla Camera e in discussione alla Commissione Affari Costituzionali dal deputato del M5S Brescia, i tempi potrebbero essere maturi.

Attualmente la cittadinanza italiana si ottiene per:

  • nascita, cioè se si nasce da almeno uno dei due genitori con cittadinanza italiana (in questo caso si parla anche di ius sanguinis);
  • nascita su territorio italiano da cittadini stranieri, in questo caso per ottenere la cittadinanza è necessario il compimento del 18° anno di età, ma è necessario che in tale lasso di tempo, cioè dalla nascita al compimento della maggiore età, il soggetto abbia risieduto ininterrottamente e legalmente in Italia;
  • adozione, cioè un cittadino straniero adottato da un cittadino italiano;
  • matrimonio, quindi sposando una persona con cittadinanza italiana;
  • residenza.

Come si ottiene la cittadinanza per residenza?

Per la cittadinanza ottenuta per residenza è necessario fare qualche precisazione. Si può ottenere nel caso in cui il soggetto abbia un reddito nei tre anni antecedenti la proposizione della domanda di cittadinanza italiana di almeno:

  • 8.263,31 per richiedenti senza persone a carico;
  • euro 11.362,05 per richiedenti con coniuge a carico
  • il limite precedente viene aumentato di ulteriori 516 euro per ogni ulteriore persona a carico.

Tali redditi devono essere maturati ogni anno nei tre anni antecedenti alla presentazione della domanda.

Naturalmente questo requisito economico da solo non basta, ci vogliono ulteriori requisiti, le casistiche sono diverse. In particolare il richiedente deve:

  • essere legalmente residente in Italia da almeno 3 anni e deve esservi nato ( nasce in Italia, va all’estero, ritorna ed è residente per almeno 3 anni);
  • figlio o nipote in linea retta di cittadini italiani residente legalmente in Italia da almeno 3 anni (procedura utilizzata da molti calciatori);
  • cittadino straniero maggiorenne adottato da cittadini italiani e residente legalmente in Italia per almeno 5 anni successivi all’adozione;
  • cittadino straniero che ha prestato servizio per lo Stato Italiano per almeno 5 anni. Il servizio può essere stato prestato anche all’estero e la domanda deve essere proposta all’autorità consolare;
  • Cittadino UE residente in Italia da almeno 4 anni;
  • apolide residente legalmente in Italia da almeno 5 anni;
  • immigrato extracomunitario residente in Italia da almeno 10 anni.

Si ribadisce che in tutti questi casi deve coesistere anche il requisito reddituale.

Immigrazione: cosa prevede lo Ius Scholae?

Con la proposta di legge Ius Scholae l’obiettivo è semplificare questa procedura e dare la cittadinanza italiana a tutti quei bambini che frequentano per almeno 5 anni le scuole italiane. Secondo le stime fatte il provvedimento potrebbe interessare circa 800.000 persone, figli di stranieri, che di fatto hanno sempre vissuto in Italia, si sentono italiani e hanno frequentato le scuole italiane. Lo Ius Scholae andrebbe quindi a riguardare quelli che possono essere definiti gli immigrati di seconda generazione.

Il deputato Brescia nella presentazione del disegno di legge ha sottolineato che lo Ius Scholae potrebbe essere un importante fattore di integrazione. Questo anche grazie a un testo semplice che di conseguenza non può essere facilmente manipolato oppure strumentalizzato da chi fino ad ora si è sempre opposto a una riforma che rendesse più semplice l’ottenimento della cittadinanza italiana. Brescia ha sottolineato che il provvedimento pone al centro il sistema scolastico italiano alla base della costruzione della cittadinanza.

Nella proposta di legge si stabilisce che potrà ottenere la cittadinanza italiana il minore nato in Italia, o che vi abbia fatto ingresso entro il 12° anno di età, che abbia risieduto in Italia senza interruzione e frequentato le scuole in Italia per almeno 5 anni in uno o più cicli scolastici (ad esempio un anno di scuole elementari, tre anni di scuole superiore di primo grado, un anno di scuola superiore di secondo grado).

Per questo disegno di legge hanno già espresso soddisfazione Enrico Letta, segretario del Pd che ha sottolineato che si tratta di una questione di civiltà e di un provvedimento in linea con il sentire degli italiani

Contributo per genitori con figli con disabilità: via alle domande. Guida

L’INPS con il messaggio 471 del 2022, pubblicato il 31 gennaio 2022, rende noto che dal primo febbraio è possibile inoltrare le domande per ottenere il contributo per genitori con figli con disabilità che siano monoreddito oppure non abbiano reddito.

Contributo per genitori con figli con disabilità: dal 1° febbraio via libera alle domande

Il contributo per famiglie con disabili è previsto dall’articolo 1, commi 365 e 366, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (legge di Bilancio 2021) ed è rivolto ai nuclei familiari in cui sia presente una persona con una percentuale di invalidità riconosciuta almeno del 60%. Tale beneficio è rivolto però alle famiglie con disabili che si trovano in particolari condizioni di reddito, cioè con genitore disoccupato oppure famiglia monoreddito che percepisca un reddito inferiore a 8.145 euro annuali se lavoratore dipendente e 4.800 euro se autonomo. Viene naturalmente riconosciuto anche alle famiglie in cui sia presente un unico genitore.

Affinché si possa ottenere questo aiuto sono però necessari anche ulteriori requisiti, in particolare il genitore che presenta la domanda deve:

  • essere residente in Italia;
  • avere un ISEE di valore non superiore a 3.000 euro (abbiamo quindi il doppio requisito, reddito e ISEE);
  • avere uno o più figli a carico con una disabilità non inferiore al 60%. Si considera come figlio a carico colui che, se inferiore a 24 anni ha un reddito non superiore a 4.000 euro e se di età superiore a 24 anni ha un reddito non superiore a 2.840,51 euro. Ricordiamo che coloro che hanno ottenuto il riconoscimeto della disabilità possono comunque lavorare e di conseguenza avere un reddito.

A quanto ammonta il contributo per famiglie con disabili?

L’ammontare del contributo dipende dal numero di figli con disabilità presenti in famiglia. Nel caso in cui ci sia un solo figlio disabile l’importo è di 150 euro al mese. Se in famiglia ci sono due disabili l’importo è di 300 euro, per famiglie con più di due disabili, si potranno percepire 500 euro mensili.

Come si può notare la percentuale di disabilità che permette di maturare il diritto a percepire il contributo per genitori con figli con disabilità è del 60%, cioè molto più bassa rispetto a quella richiesta per poter accedere all’indennità di invalidità.

Questo beneficio può essere cumulato con altri strumenti del welfare, ad esempio è compatibile con la percezione del reddito di cittadinanza. Un altro dettaglio molto rilevante è dato dal fatto che le domande possono essere presentate dal primo febbraio 2022, ma in realtà il contributo per famiglie con disabili è previsto per il triennio 2021-2023, quindi una volta inoltrata la domanda, seguendo la procedura che a breve vedremo, si potranno ottenere anche gli arretrati del 2021 e dei primi mesi del 2022. Questa operazione può essere eseguita spuntando semplicemente la voce “Dichiaro di voler presentare domanda anche per l’anno 2021”.

Come inoltrare la domanda?

La prima cosa da fare è collegarsi al sito dell’INPS e accedere con le proprie credenziali, cioè SPID, CIE o CNS. A questo punto è necessario andare alla voce “Prestazioni e servizi”. Da qui si deve raggiungere la voce “Contributo genitori con figli con disabilità”. Per poter inoltrare a domanda è necessario inserire i dati del figlio disabile per il quale si chiede il contributo in favore di famiglie con disabili e monoreddito o monoparentale e il codice IBAN dove effettuare l’accredito. La domanda deve essere presentata una volta l’anno e quest’anno deve essere presentata anche per ricevere gli arretrati maturati dal 1° gennaio 2022.

La domanda può essere inoltrata anche attraverso i patronati, gli stessi entrano nella pagina INPS e possono accedere alla piattaforma per l’inoltro attraverso la voce “Portale dei Patronati” .

Una volta inoltrata la domanda, la ricevuta della stessa è disponibile alla voce “Ricevute e provvedimenti” con il relativo numero di protocollo. Si dovrà quindi attendere l’esito dell’istruttoria. L’INPS fa sapere che ci sarà una seconda comunicazioen avente ad oggetto le modalità di riscossione degli importi e degli arretrati.

Cosa cambia per le detrazioni figli a carico dal 2022 con l’Assegno Unico?

Con l’entrata in vigore dell’Assegno Unico per i figli a carico cambia il regime delle detrazioni per figli a carico che fino al 2021 hanno rappresentato un aiuto importante per le famiglie. Ecco come funzionerà l’avvicendamento tra queste due importanti misure.

Come cambiano le detrazioni per figli a carico dal 2022?

Il nuovo Assegno Universale per figli a carico entrerà in vigore il 1° marzo del 2022 e nel mondo delle detrazioni fiscali e dei bonus sarà una vera e propria rivoluzione. L’obiettivo del legislatore è rendere uniforme la disciplina ed eliminare i tanti sussidi che nel tempo si sono accumulati. Questo però porterà delle novità nell’ambito delle detrazioni per i familiari a carico, infatti le due misure non sono cumulabili. Cosa succede per coloro che rientrano nelle detrazioni, ma non rientrano nell’Assegno Unico? Questa la domanda a cui si cercherà di dare risposta.

Non potendo in questa sede fare nuovamente una disamina sull’Assegno Unico, rinvio all’articolo dedicato: Assegno Unico: importi, requisiti e cosa cambia con le detrazioni

A chi spettano le detrazioni fiscali per figli a a carico dal 2022?

Le detrazioni fiscali per figli e coniuge sono disciplinate dall’articolo 12 del TUIR (Testo Unico Imposte sul Reddito), il decreto legislativo del 18 novembre 2021 modifica la lettera C dell’articolo stesso. Ne consegue che tale misura resta in vigore esclusivamente per i ragazzi che hanno già compiuto 21 anni, fanno parte del nucleo familiare del beneficiario delle detrazioni e hanno un reddito inferiore 2.840,51 euro all’anno, somma che sale a 4.000 euro fino a 24 anni.

Gli importi dei benefici fiscali spettano per i figli legittimi, naturali riconosciuti, adottivi. Le detrazioni sono calcolate in base al reddito e vengono meno nel caso il cui lo stesso superi i 95.000 euro. Tale importo è aumentato di 15.000 euro per ogni figlio a carico ulteriore rispetto al primo.

Dal primo marzo 2022 sparisce inoltre il bonus di 1200 euro per famiglie numerose riconosciuto sempre in forma di detrazioni e spettanti ai nuclei familiari con almeno 4 figli a carico. Viene infatti abolito il comma 1-bis, articolo 1 del TUIR.

Sintesi

Per redere chiaro il passaggio e l’avvicendarsi tra Assegno Unico e Detrazioni per figli a carico propongo questo pratico schema:

  1. per i figli fino a 18 anni di età si riceverà l’Assegno Unico di importo minimo di 50 euro e massimo 175 euro per ogni figlio;
  2. dai 18 anni ai 21 anni si potrà percepire l’Assegno Unico mensile di importo minimo 25 euro e importo massimo 85 euro. Tale beneficio spetta a patto di seguire un corso di studi, di formazione oppure avere un lavoro;
  3. gli importi dell’assegno unico sono maggiorati per i figli disabili e le famiglie numerose;
  4. dai 21 anni si possono ottenere le detrazioni per figli a carico il cui ammontare è stabilito dal TUIR e dipende dal reddito familiare.

Quali sono le imposte sul reddito delle società? Scopriamolo

La società è un’organizzazione di beni e persone il cui obiettivo è realizzare un’attività di impresa con finalità di lucro o mutualistica. Naturalmente la società produce un reddito e quindi viene tassata, ora vediamo quali sono le imposte sul reddito delle società e come vengono applicate, ciò tenendo in considerazione che vi sono delle differenze tra le società di persone e le società di capitali.

Imposte sul reddito delle società: IRAP

L’IRAP è l’Imposta Regionale sulle Attività Produttive, la base imponibile dell’IRAP è formata dal valore della produzione netta ed è stata introdotta dal decreto legislativo 446 del 1997. Tra le peculiarità di questa imposta c’è il fatto che la base imponibile comprende anche elementi che in realtà non sono una vera e propria parte attiva, ad esempio i salari. L’IRAP è dovuta da:

  • società di persone e di capitali;
  • enti pubblici;
  • trust residenti in Italia;
  • persone fisiche titolari di redditi di impresa;
  • soggetti che svolgono lavoro autonomo;
  • amministrazioni dello Stato.

Vi sono invece dei limiti riguardanti le attività svolte nel settore dell’agricoltura, inoltre sono esenti dalla dichiarazione e dal versamento IRAP coloro che svolgono attività in modo occasionale.

Per scoprire chi sono i soggetti che devono presentare la dichiarazione IRAP, leggi l’articolo: Chi è obbligato a presentare la dichiarazione IRAP.

IRES

L’IRES è l’Imposta sul Reddito delle Società, la stessa però non viene pagata da tutte le società ma solo da quelle di capitali, società cooperative e mutue assicurazioni, enti pubblici, enti privati e trust. L’IRES dal 2004 ha sostituito l’IRPEG, cioè l’imposta sul reddito delle persone giuridiche. E’ caratterizzata dalla presenza di un’aliquota fissa, attualmente al 24%, in passato era più alta.

IRPEF

Le società di persone, cioè Società Semplice, Società in Nome Collettivo e Società in Accomandita Semplice hanno un’autonomia patrimoniale imperfetta, cioè non vi è separazione tra il patrimonio della società e quello dei soci e di conseguenza di eventuali debiti delle stesse rispondono anche i soci, sebbene dopo la principale escussione nei confronti della società.

Ne consegue che i redditi della società si dividono tra i soci della stessa e si imputano pro quota in base a quanto concordato dalle parti oppure in modo egualitario. I redditi quindi saranno tassati nel momento in cui entrano nella disponibilità dei soci e quindi con l’IRPEF e non con L’IRES. In questo caso si può dire che l’imposta si calcola sui redditi delle società di persone, ma in modo indiretto. D’altronde non si può tacere questa tassazione altrimenti apparirebbe uno squilibrio tra il trattamento fiscale delle società di persone e quello delle società di persone.

In teoria l’applicazione dell’IRPEF al posto dell’IRES potrebbe essere anche uno svantaggio, infatti l’IRES, come visto, si basa su un’aliquota fissa, attualmente fissata al 24%, mentre l’IRPEF ha una tassazione con aliquote progressive che cioè aumentano all’aumentare del reddito. Proprio per questo se la società genera profitti ragguardevoli, l’IRES può essere più conveniente. Lo squilibrio della tassazione diventa più evidente nelle società unipersonali o con pochi soci in quanto il reddito si divide in poche quote.

IRI

L’IRI è l’Imposta sul Reddito Imprenditoriale. L’obiettivo è evitare lo squilibrio tra le aliquote IRES e quelle IRPEF, chiarisce quindi l’Agenzia delle Entrate che si tratta di un regime opzionale a cui possono aderire le società di persone in contabilità ordinaria, le imprese individuali e alcune piccole società di capitali, trattasi di:  società a responsabilità limitata con un numero di soci non superiore a 10, o a 20 nel caso di società cooperativa, con ricavi annui non superiori a quelli previsti per l’applicazione degli studi di settore (5.164.569 euro).

Il vantaggio dell’IRI è dato dal fatto che si applica l’aliquota proporzionale al 24%.

L’IRI ha visto la luce con la legge 2015 del 27 dicembre 2017, cioè la legge di bilancio per il 2018 ed è in vigore dal 2018.

Occorre fare attenzione: una volta esercitata l’opzione, la stessa resta in vigore per 5 anni ed è rinnovabile, l’opzione deve essere esercitata al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi.

In realtà l’IRI dopo una prima fase di applicazione è sparita dal nostro ordinamento, sebbene il sito dell’Agenzia della Entrate ancora preveda l’imposta. E’ bene riparlare oggi dell’IRI perché tra le proposte sulla riforma fiscale 2021 vi è proprio il ritorno dell’IRI. Vedremo se si riuscirà a inserire nuovamente nel sistema questa imposta.

Occorre, infine, ricordare che queste non sono le uniche imposte da pagare, c’è infatti l’IVA, ci sono i contributi previdenziali e assistenziali, in molti casi la TOSAP e altre tasse la cui base imponibile non parte però dal reddito.

Partita Iva, come si calcola il reddito netto nel regime forfettario?

1Il regime forfettario delle partite Iva è un regime fiscale agevolato, applicato alle persone fisiche esercenti delle attività di impresa, arti o professioni. Introdotto dalla legge di Stabilità 2015, il regime forfettario è stato modificato negli anni successivi per rivedere le semplificazioni ai fini Iva e contabili. Tuttavia, la novità più importante è la determinazione forfettaria del reddito sul quale calcolare un’unica imposta in sostituzione di quelle previste nel regime ordinario. Con la legge di Bilancio 2020, infatti, si è arrivati a una disciplina che ha introdotto nuovi requisiti di accesso e cause di esclusione, oltre a un sistema premiale per chi utilizza la fatturazione elettronica.

Regime forfettario, i requisiti di accesso secondo le regole 2020

Possono accedere al regime forfettario le partite Iva che nel precedente anno abbiano conseguito:

  • sia un volume di ricavi o percepito compensi che non superino i 65.000 euro (nel caso in cui si esercitino più attività ricadenti in differenti codici Ateco è necessario considerare la somma dei ricavi e dei compensi delle diverse attività);
  • che un volume di spese non eccedenti l’importo di 20.000 euro lordi. Nelle spese vanno ricomprese quelle del lavoro accessorio, dipendente o collaborativo anche a progetto, gli utili da partecipazione agli associati che apportino il solo lavoro e le somme erogate per prestazioni rese dall’imprenditore o dai suoi famigliari.

Partita Iva, reddito e tassazione dei forfettari

Le partite Iva che rientrino nel regime forfettario determinano il reddito imponibile applicando, al totale dei compensi percepiti o dei ricavi conseguiti, il coefficiente di redditività previsto per la propria attività. Nel dettaglio, i coefficienti di redditività previsti sono i seguenti:

  • industrie alimentari e delle bevande, 40%;
  • commercio all’ingrosso e al dettaglio, commercio ambulante di prodotti alimentari e bevande, 40%;
  • commercio ambulante di altri prodotti, 54%;
  • costruzioni e attività immobiliari, 86%;
  • intermediari del commercio, 62%;
  • attività di servizi di alloggio e di ristorazione, 40%;
  • attività professionali, scientifiche, tecniche, sanitarie, di istruzione, servizi finanziari e assicurativi, 78%;
  • altre attività economiche, 67%.

Regime forfettario, come si determina il reddito imponibile

Dal reddito che si è determinato forfettariamente applicando il coefficiente di redditività al totale dei ricavi, si deducono i contributi previdenziali obbligatori, inclusi quelli corrisposti per conto dei collaboratori dell’impresa famigliare. Al reddito imponibile ottenuto si applica l’imposta fissa del 15% che va a sostituire quelle ordinariamente previste, ovvero le imposte sui redditi, le addizionali regionali e comunali e l’Irap.

Calcolo del reddito imponibile nel regime forfettario partite Iva: un esempio

Per sapere quante tasse dovrà pagare una partita Iva del regime forfettario, il primo passo da fare è quello di determinare il reddito imponibile, sul quale si applicherà il 15% dell’imposta unica. A tal fine è necessario conoscere il codice Ateco della propria partita Iva, al quale corrisponde un coefficiente di redditività, ovvero una percentuale che si dovrà andare a moltiplicare al totale dei compensi ottenuti nell’anno di riferimento.

Partita Iva, calcolo imposta da pagare con regime forfettario

Pertanto, se il codice Ateco della partita Iva è del 78% e il guadagno lordo annuo derivante dall’attività è pari a 30.000 euro, il reddito imponibile è pari al prodotto tra 30.000 e 78%. Il risultato, 23.400 euro, costituisce il reddito imponibile. A quest’ultimo dovranno essere sottratti i contributi versati: ipotizzando che siano pari a 8.000 euro, occorrerà sottrarre 23.400 – 8.000 = 15.400 euro. Le tasse che si dovranno pagare per un guadagno annuo di 30.000 euro di una partita Iva a regime forfettario saranno pari a 2.310 euro, valore dato dal rapporto tra 15.400 euro e il 15%.

I ricavi nel reddito imponibile dei forfettari

Il totale dei ricavi e dei compensi devono  far riferimento al principio di cassa e non a quello di competenza. Ciò vuol dire che devono essere considerati solo i ricavi effettivamente incassati nell’arco dell’anno oggetto di imposta. Pertanto, chi richiede un pagamento alla fine dell’anno ma lo incassi sul conto corrente solo all’inizio dell’anno dopo, dovrà conteggiarlo tra i ricavi dell’anno successivo.

Impossibilità di scaricare le spese deducibili nel regime forfettario

L’applicazione del coefficiente di redditività, derivante da percentuali introdotte nel 2015 in occasione del nuovo regime forfettario, non consente di considerare deducibili le spese che normalmente “si scaricano”. Pertanto, la scelta del regime forfettario ha molta convenienza nel caso in cui non si spendano cifre molto alte per la gestione dell’attività stessa. In caso contrario potrebbe essere più conveniente optare per il regime di partita Iva semplificato o per quello ordinario.

Imposta ridotta al 5% per chi avvia una nuova attività

L’imposta ridotta al 5% nei primi cinque anni di attività è riservata a coloro che avviano una nuova attività in presenza dei seguenti requisiti:

  • è necessario che il contribuente non abbia esercitato, nei 3 anni precedenti, attività professionale o d’impresa o artistica, anche in forma famigliare o associata;
  • l’attività avviata non deve costituire, in alcun modo, una mera prosecuzione di un’attività precedentemente. Quest’ultima si intende svolta da lavoratore dipendente o autonomo, ad esclusione della pratica obbligatoria necessaria per intraprendere arti o professioni;
  • nel caso in cui venga proseguita un’attività svolta precedentemente da un altro soggetto è necessario il ricalcolo dell’ammontare dei compensi. Infatti, i ricavi realizzati nel periodo di imposta precedente a quello in cui viene riconosciuto il beneficio dell’imposta ridotta non dovranno essere superiori al limite che consente l’accesso al regime forfettario.

Come si calcola il reddito imponibile nel regime forfettario?

I titolari di partita IVA godono di molti vantaggi nell’adesione al regime forfettario, grazie all’aliquota agevolata applicata sul reddito imponibile del 15% e a quella ridotta del 5% applicata per le nuove attività.

Dei requisiti e limiti richiesti per l’accesso al regime forfettario abbiamo già parlato, ma per evitare che si faccia confusione tra fatturato conseguito e reddito imponibile, scopriamo qual è la differenza e come si calcola il reddito netto o imponibile.

Reddito imponibile e fatturato incassato: differenze

Come abbiamo appena accennato, la tassazione agevolata utilizzata nel regime forfettario per le partita IVA viene applicata sul reddito imponibile e non sul fatturato totale. Quest’ultimo è costituito dall’ammontare delle fatture emesse e incassate nel corso dell’anno.

Il reddito imponibile, invece, è la parte del fatturato sottoposta a tassazione, una volta sottratte le spese inerenti l’attività professionale o aziendale che possono incidere in misure differenti a seconda del tipo di lavoro svolto e che si calcolano in modo diverso a seconda del regime fiscale scelto dal titolare di partita IVA.

Il calcolo può essere effettuato analiticamente, quindi, voce per voce nei regimi ordinario e ordinario semplificato. Oppure, forfettariamente: su base fissa nel regime forfettario.

Reddito netto e regime forfettario

Il regime forfettario è basato su un sistema di calcolo automatico, sia delle spese deducibili, sia del restante reddito lordo. Ossia, si procede con la deduzione dei costi sotto forma forfettaria, con una percentuale (coefficiente di redditività) che dipende dall’attività lavorativa svolta, quindi, dal codice Ateco associato alla partita IVA.

Avendo a disposizione questi dati, il consulente può valutare se sia il caso di adottare il regime forfettario piuttosto che quello ordinario. Infatti, nel caso di attività che prevede costi molto elevati, tanto da superare e non di poco il coefficiente di redditività, non conviene operare in regime forfettario.

Il calcolo del reddito imponibile

Il reddito imponibile nel regime forfettario viene, dunque, calcolato in base al codice Ateco associato alla partita IVA e al relativo coefficiente di redditività, ma anche sulla somma versata nell’anno per i contributi previdenziali.

Il reddito derivante dal fatturato incassato a cui viene applicato il coefficiente di redditività è denominato reddito lordo. Per ottenere il reddito imponibile tassato forfettariamente, è necessario sottrarre l’importo relativo ai contributi dal reddito lordo.

E’ importante tenere presente a quale percentuale corrisponde il coefficiente di redditività applicato ai vari codici Ateco.

Prendendo ad esempio le attività commerciali all’ingrosso e al dettaglio, il coefficiente è pari al 40%. Ciò significa che il reddito lordo su un fatturato annuo di 50.000 euro è pari a 20.000 euro. Mentre, la quota dedotta riguardante i costi inerenti tale attività è pari a 30.000 euro (60%).

L’esempio precedente riguarda il coefficiente di redditività più basso. Prendiamo ora in esame, uno più alto, pari al 78% e che riguarda le attività professionali, scientifiche, tecniche, sanitarie, di istruzione, servizi finanziari ed assicurativi. In tal caso, il reddito lordo su un fatturato incassato annuo di 50.000 euro è pari a 39.000 euro, mentre la quota dedotta per le spese correlate a questa attività è pari al 22% (11.000 euro).

Regime forfettario: spese deducibili

Parlando di quote dedotte per le spese professionali o aziendali, c’è da rimarcare che nel regime forfettario tali costi non sono deducibili. Quindi, prendendo in considerazione questo, ma anche quanto detto nel paragrafo precedente, la conclusione è che se le spese per l’attività sono molto alte, conviene aderire al regime ordinario o semplificato. A tal proposito, se sei interessato: Quanti tipi di Partita Iva esistono? I regimi fiscali: requisiti, vantaggi e svantaggi

Reddito imponibile: a cosa serve

Dopo quanto detto, è chiara la differenza tra fatturato incassato, reddito lordo e reddito imponibile, illustriamo come avviene il calcolo delle tasse nel regime forfettario.

Nel regime forfettario l’imposta sostitutiva applicata sul reddito netto è del 15%, mentre quella ridotta per start-up è del 5%.

Il reddito lordo si utilizza per calcolare i contributi di previdenza che corrispondono ad una aliquota del 25,72% da versare alla Gestione Separata INPS; l’aliquota è variabile nel caso di professionisti, in quanto differentemente stabilità dalla Cassa di Previdenza di ogni Ordine; l’aliquota da versare alla Gestione Artigiani e Commercianti è da calcolare solo sull’eventuale parte eccedente il reddito minimo di 15.953 euro.

Nuovo Isee: ecco le modifiche

E’ stato approvato lo scorso 3 dicembre il nuovo Isee, sottoposto ad un vero e proprio restyling dal Consiglio dei Ministri e che avrà, tra le principali novità: l’aggiornamento durante l’anno, l’ampliamento delle componenti reddituali e patrimoniali che concorrono a determinare l’Indicatore e l’introduzione di misure volte a contrastare gli abusi da parte dei soggetti che evadono il fisco.

I motivi di queste importanti modifiche sono stati dettati dall’esigenza di garantire una maggiore equità, poiché si tratta di uno strumento che viene incontro alle famiglie italiane.

Per quanto riguarda il reddito, inoltre, è stato stabilito che la situazione economica del nucleo familiare deve essere calcolata con tutti i redditi di tutti i componenti.
Vengono poi introdotti degli abbattimenti per redditi di lavoro e di pensione, viene sottratto l’importo degli assegni di mantenimento, dedotto una quota del canone di locazione, prevista una franchigia per i nuclei con disabili e l’abbattimento delle spese per collaboratori domestici e addetti all’assistenza personale per i non autosufficienti.

Relativamente al patrimonio è prevista la maggiorazione della franchigia relativa all’abitazione per ogni figlio convivente successivo al secondo, mentre si terrà conto di eventuali immobili all’estero posseduti dai componenti il nucleo.
Viene anche ridotta la franchigia prevista per il patrimonio mobiliare attualmente a 15.500 euro.

Inoltre il nuovo Isee supera il principio che ciascun soggetto può appartenere ad un solo nucleo familiare. La nuova formulazione apre la possibilità di definire, solo per alcune prestazioni, appartenenza di un soggetto ad un diverso nucleo familiare.

Come anticipato, arriva anche l’Isee corrente, che prevede, in vista di variazioni significative sul reddito durante l’anno, l’aggiornamento della dichiarazione.
Ma anche i controlli per evitare abusi diventeranno più severi e capillari.

Vera MORETTI