Pensioni per tutti con uscita flessibile a 64 anni, la quiescenza del futuro

Apertura piena da parte del governo a mettere finalmente mano alle pensioni. Il superamento della riforma Fornero vede il governo, forse per la prima volta aprire ad una revisione completa del sistema. Ma non sono certo buone notizie, o meglio, non sono le notizie che tanti attendevano. Infatti si parte con un secco no alla quota 41 per tutti, misura caldeggiata dai sindacati da molto tempo, ed una volta caldeggiata anche dalla Lega di Matteo Salvini salvo poi fare dietrofront o quasi come su quasi tutta la linea politica del Carroccio di questi tempi.
E poi, pensione flessibile dai 62 anni e senza penalità, altro cavallo di battaglia dei sindacati, cestinata e non ammissibile per il governo. Ma allora di cosa si tratta e su cosa avrebbe aperto il governo? La riforma delle pensioni secondo l’esecutivo prevede una pensione flessibile dai 64 anni di età. La stessa medesima età con cui si concede oggi l’uscita con la nuova quota 102, tanto per intenderci.

Cosa si sta preparando per le pensioni, l’uscita a 64 anni per tutti, ma con penalità

Nessuna intesa e non poteva essere altrimenti tra sindacati e governo alla luce dell’ultimo summit di ieri 15 marzo. Posizioni sempre distanti e governo che apre alla riforma, ma partendo da una età che ai sindacati non piace. Uscita come per la quota 102 di oggi, cioè pensione per tutti a 64 anni. Una nuova misura flessibile.
Pochi fanno rilevare cosa significa flessibile quando si parla di pensioni. Flessibilità significa opzione, cioè lasciare la scelta al lavoratore se continuare a lavorare o andare in pensione. La parola flessibilità collegata alle pensioni significa penalità. Così come non può esistere sistema pensionistico contributivo senza flessibilità, così non può esistere sistema flessibile senza penalizzazioni di assegno.
In un sistema basato sul calcolo contributivo della pensione, cioè su un calcolo che prevede una pensione in base al montante contributivo, è naturale che una pensione sarà più ricca per chi più versa. Prima si esce dal lavoro, meno contributi si versano, meno si prende di pensione. E questo è alla base della flessibilità, che lascia la scelta al lavoratore se uscire prima prendendo una pensione più bassa di quella che gli spetterebbe l’anno successivo per esempio, restando in servizio.
Ma flessibilità significa porre delle nette differenze tra l’importo dell’assegno in base all’età prescelta per uscire. E qui che entra in gioco la penalizzazione di assegno che resta alla base della proposta del governo di una pensione flessibile dai 64 anni di età.

Si litiga anche sul taglio dell’assegno

Per il governo ogni anno di anticipo rispetto alla pensione di vecchiaia ordinaria a 67 anni dovrebbe prevedere il 3% di taglio dell’assegno. Conti semplicistici parlano quindi di un taglio del 9% massimo considerando in 3 anni il numero massimo di anni di anticipo tra i 64 anni della pensione flessibile ed i 67 della quiescenza ordinaria. Se così fosse, un lavoratore che a 67 anni percepirebbe un assegno da 1.500 euro al mese uscendo a 67 anni, uscendo a 64 anni percepirebbe 1.365 euro al mese.
Per i sindacati invece questo taglio non è quello che effettivamente subirebbero i pensionati. Secondo le parti sociali infatti il taglio sarebbe ben maggiore. Soprattutto per chi rientra nel sistema misto si rischia di perdere il 30% di pensione.
Più elevati sono gli anni di contributi prima del 1996, più è forte la perdita di assegno. Infatti il governo avrebbe in mente di applicare il ricalcolo contributivo a questa pensione a 64 anni per tutti. Infatti verrebbe estesa la pensione anticipata contributiva a tutti. La misura oggi vigente è destinata ai lavoratori privi di contribuzione al 31 dicembre 1995.

La pensione anticipata contributiva per tutti, e sempre a 64 anni

Si esce dal lavoro infatti a 64 anni con almeno 20 anni di contributi, a condizione che il primo contributi a qualsiasi titolo versato è a partire dal primo gennaio 1996 e che la pensione liquidata sia pari ad poco più di 1.300 euro al mese, cioè pari o superiore a 2,8 volte l’assegno sociale.
Il contributivo puro però non ha alternative al ricalcolo contributivo della prestazione, quello del misto invece si. E per chi ha maturato già 18 anni di contribuzione prima del 1996, il diritto al favorevole calcolo retributivo arriva fino al 2012.
Il sacrifico che il governo imporrebbe ai pensionandi che opteranno per l’uscita a 64 anni è importante. Oltre al taglio lineare di assegno, anche il ricalcolo contributivo della pensione. Ed inoltre, va considerato il meno favorevole coefficiente di trasformazione dei contributi in pensione, che è tanto più penalizzante quanto prima si lascia il lavoro. E non va sottovalutata la perdita in termini di assegno, per via dei 3 anni teorici di contributi in meno versati se il lavoratore esce a 64 anni e non a 67.

La solita misura con poco appeal per le pensioni future

Siamo di fronte quindi ad una misura di pensione anticipata che nasce come le ultime varate negli ultimi anni. Misure che nascono con vincoli e paletti adatti a renderle quanto meno appetibili possibile, in modo tale da dotare il sistema di una misura di pensionamento anticipato che pochi vorranno sfruttare. L’esempio di opzione donna è lapalissiano, visto il netto anticipo che consente (Già a 58/59 anni di età) e visto il netto taglio di assegno che impone.

Le pensioni anticipate del passato una rovina, dal 2023 si cambia

Se c’è un esperto di pensioni in Italia, uno che da tempo è addentrato nel sistema, questo è senza ombra di dubbio Alberto Brambilla. Si tratta del Presidente del Centro Studi Itinerari Previdenziali. Diverse altre volte in passato, Brambilla ha parlato di pensioni arrivando più volte a proporre misure e soluzioni. Proposte queste, atte a rispondere alle esigenze di riforma della previdenza sociale. Stavolta il Presidente del Centro Studi Itinerari Previdenziali interviene a gamba tesa criticando le vecchie riforme e suggerendo politiche idonee ad una profonda riforma.

Perché sulle pensioni in passato tutto è stato sbagliato

Alberto Brambilla stavolta passa ad attaccare le riforme previdenziali del passato, arrivando a parlare di stretta per la nuova riforma che dovrebbe partire dal 2023. Quando si parla di stretta in materia previdenziale, le notizie non sono positive. Stretta significa limitare le uscite troppo anticipate, inasprire ulteriormente le misure pensionistiche, già oggi aspre.

“Basta con le pensioni anticipate” è ciò che si legge sul quotidiano il Messaggero e sono le parole di Alberto Brambilla, che parla di rovina dell’Italia proprio in riferimento alle vecchie riforme. Secondo il Presidente di Itinerari Previdenziali, è da ricercare nelle pensioni anticipate troppo facili la colpa di un sistema non propriamente virtuoso dal punto di vista della sostenibilità.

In sostanza, per via delle pensioni troppo facilmente erogate in passato, il sistema sta scoppiando e i giovani di oggi dovranno lavorare sempre di più in futuro per accedere alla pensione.

L’analisi del Centro Studi Itinerari Previdenziali, uno spaccato desolante del sistema

L’analisi del Centro Studi Itinerari Previdenziali di cui Brambilla è Presidente, parla di un trentennio disastroso. Infatti il disastro sulle pensioni nasce tra il 1965 ed il 1997, con tanti, forse troppi lavoratori mandati in pensione troppo presto. È il caso delle pensioni con 14 anni 6 mesi ed un giorno di lavoro, appannaggio storicamente delle lavoratrici statali con figli a carico e sposate. Le cosiddette baby pensioni che tante critiche hanno riscosso in passato.

L’analisi di Itinerari Previdenziali è piuttosto approfondita e si estende anche a chi in quei 30 anni riusciva ad andare in pensione con solo 19 anni  6 mesi ed un giorno di lavoro o con 25 anni di contributi (per esempio i lavoratori degli enti locali).

Eloquente come funzionava il sistema fino al 1981, quando si andava in pensione con la quiescenza di anzianità a 50 anni di età.

Un impatto devastante anche sulle pensioni di oggi

L’impatto di queste misure così vantaggiose come uscite dal lavoro si manifesta ancora oggi, perché stando al dossier che presto Itinerari Previdenziali presenterà in Senato, i numeri sono eloquenti.  Oggi a carico dello Stato ci sono ancora 476mila pensioni che vengono pagate da 44/46 anni. Una enormità per il sistema, un peso enorme per le casse dello Stato. Si mette in luce il fatto che in passato le pensioni venivano usate come ammortizzatori sociali, ma gravando sulla spesa previdenziale.

E ritorna in mente l’annoso problema relativo al dividere l’assistenza dalla previdenza. Infatti quando si calcola la sostenibilità del sistema, oppure la spesa pubblica per le pensioni, dentro il calderone finiscono anche le misure assistenziali, che sono un’altra cosa.

Secondo Brambilla le pensioni per essere sostenibili e per essere eque non dovrebbero essere pagate ai beneficiari per più di 25 anni (se non addirittura 20).

 

Cosa andrebbe fatto secondo Itinerari previdenziali sulle pensioni

I conti sono presto fatti se per Brambilla il periodo massimo in cui lo Stato può accollarsi l’onere di pagare la pensione ad un lavoratore è tra i 20 ed i 25 anni. Bisogna calcolare la vita media degli italiani. Evidente che la pensione non può certo essere erogata prima dei 60 anni e forse nemmeno a 61 o 62 anni.

Secondo Itinerari Previdenziali infatti, oggi in Italia si va in pensione troppo presto mediamente, intorno ai 62 anni e mezzo di età. Negli altri Paesi invece la soglia è vicina ai 65 anni.  Come dire, la pensione con opzione donna a partire dai 58 anni di età o quella che parte dalla stessa età per i militari, non potranno che essere debellate dal nostro ordinamento.

Una rivisitazione completa del sistema che guarda in su come età pensionabile quindi, con buona pace di chi chiedeva vie di uscita ad anagrafica inferiore. Un duro colpo anche per i sindacati, che il 15 febbraio saranno impegnati al tavolo con il governo per parlare proprio di pensioni. Immaginare oggi che il governo possa dire di si ad una ipotetica quota 41 per tutti o ad una altrettanto ipotetica flessibilità dai 62 ani è assolutamente azzardato.

Soprattutto alla luce di questa analisi del Centro Studi Itinerari Previdenziali del Presidente Alberto Brambilla.

Pensioni, la riforma: ecco cosa può cambiare con il DEF di aprile, novità in arrivo

In agenda martedì 15 febbraio un nuovo summit sul tema delle pensioni tra governo e sindacati. C’è da approntare la riforma delle pensioni, con il sistema pensionistico che necessita di nuove misure e nuove possibilità di uscita per i lavoratori.

Niente è facile, soprattutto perché le posizioni, come è naturale che sia, sono differenti al tavolo della trattativa. I sindacati a chiedere uscite più facili per tutti, magari dai 62 anni o con una 41 anni di contributi.

Il governo invece, stretto nella morsa dell’Europa, che chiede parsimonia in materia di conti pubblici e che deve cercare di fare i compiti a casa per ottenere i soldi già assegnati come Recovery Plan.

Ecco perché si è arrivati ad un punto dove alcune misure verranno sicuramente introdotte, ma non esattamente come i lavoratori si aspettano. Nuove misure verranno varate e dovrebbero andare a sostituire alcune misure oggi in vigore che viaggiano verso il capolinea.

Cosa accadrà adesso sulle pensioni

Misure che vanno e misure che vengono, forse mai come quest’anno, si interverrà forte in materia previdenziale. Dopo il nulla di fatto o quasi della scorsa legge di Bilancio, che ha partorito solo la quota 102, ecco che probabilmente non si dovrà attendere la prossima manovra finanziaria per iniziare a mettere mano alle pensioni.

Tutto sembra andare verso un intervento già con il prossimo Documento di Economia e Finanza. Nell’atto, propedeutico alla legge di Bilancio, che i governi di norma emanano ad aprile, vengono segnate le linee che un esecutivo segue in materia economica e finanziaria.

E tutto sembra spingere a considerare quell’atto come quello dove si inizierà a varare la riforma. In primo luogo un ritocco serve per le pensioni delle Forze dell’ordine, dei militari e così via, per i quali è prevista la pensione dai 58 anni.

Misure da correggere sulle pensioni, ecco quelle a rischio

Ma potrebbero con ogni probabilità sparire misure oggi vigenti che consentono a determinate categorie di lasciare il lavoro anticipatamente. Parliamo per esempio di opzione donna.

Il regime contributivo anticipato per le lavoratrici, oggi consente il pensionamento dai 59 anni di età per le lavoratrici autonome. Invece è dai 58 anni per le lavoratrici dipendenti. In ogni caso servono anche 35 anni di contributi. Opzione donna però si centra se l’età e il montante contributivo vengono completati al 31 dicembre 2021.

Una misura che però, stando alle indiscrezioni di cui tratta il quotidiano “Il Giornale”, è destinata a scomparire. Si lascerebbe sempre un canale agevolato per le donne.  Ma partendo da 60 e 61 anni, cioè due anni più lontano di quanto prevede oggi il regime contributivo donna.

Occorre allontanare le pensioni, non basta il calcolo contributivo, la riforma come deve essere

Tutto lascia presupporre quindi un inasprimento dei requisiti. Anche perché nonostante il taglio delle pensioni dovuto al ricalcolo contributivo imposto, la giovane età è un peso. Le uscite anticipate troppo come età sono un fardello pesante in materia di spesa pensionistica. E la riforma pensioni non può non considerare questo.

E la UE è proprio questo che da sempre contesta all’Italia. L’elevato costo della spesa previdenziale (che a dire il vero erroneamente in Italia è cumulata con la spesa assistenziale). È proprio il costo delle misure previdenziali che verrà messo in discussione. E probabilmente questo costo sarà utilizzato come scudo da parte del governo per dire di no a qualsiasi ipotesi di alleggerimento dei requisiti di uscita.

Riforma pensioni: si va verso i 63 anni per tutti, ma come sarebbe?

La riforma delle pensioni inizia a prendere sempre più forma. E si va sempre più su un potenziamento dell’Ape sociale. Lo hanno dimostrato anche i legislatori quest’anno, col pacchetto pensioni della legge di Bilancio. La misura è state estesa a molte più categorie di lavoratori. I lavori gravosi sono stati estesi come platea. E potrebbe essere questa la strada principale che si intraprenderà per portare a casa il risultato di una riforma che resta prioritaria per il governo.

Pensioni, ritocchi nel Def?

Cosa accade adesso? Le vie restano due. O si riesce ad intervenire subito, magari nel Documento di economia e finanza o si aspetta a fine anno, con la solita manovra finanziaria.

Il Def è in aprile, e potrebbe essere una possibilità. Difficile ma possibile. Anche perché se davvero è l’Ape sociale l’indirizzo, con la sua pensione a 63 anni, i lavori sono già allo stato avanzato.

La Commissione sui lavori gravosi ha già prodotto una graduatoria con una serie di attività che andrebbero tutelate come pensionamento. È da questa lista che sono già state estrapolate le attività che adesso sono finite tra le beneficiare dell’Anticipo Pensionistico Sociale.

E da questo elenco che probabilmente si attingerà in futuro. Una graduatoria basata sull’incidenza numerica di malattie professionali e infortuni sul lavoro.

L’obiettivo del governo quindi è che si deve arrivare ad aprile in vista del Documento di economia e finanze, quanto meno con un piano da proporre ai sindacati. Per una riforma che entrerà in vigore il 31 dicembre 2022, se davvero verrà introdotta.

Appuntamento al 7 febbraio per un primo nuovo appuntamento governo-sindacati

Sarà il giorno 7 febbraio il primo appuntamento in cui tra governo e sindacati si tornerà a parlare di pensioni per davvero. L’incontro del 3 febbraio serve solo per andare a fissare alcuni paletti di quelli di cui si parla da giorni. Pensione di garanzia per i giovani e tutele per le donne in prima linea. Ma ripetiamo, l’indirizzo sempre ormai assodato. SI va verso il potenziamento dell’Anticipo pensionistico sociale.

Anche perché gli studi sull’età media dei pensionamenti in Italia ha dimostrato che pur se si poteva uscire a 62 anni con la quota 100, pochi di coloro che si trovavano anche ad aver raggiunto i 38 anni di contribuzione hanno colto l’occasione. Infatti si esce più vicini ai 64 anni che ai 62, come media.

In questo ambito la pensione con l’Ape sociale, su cui magari si può ritoccare il parametro dei contributi necessari come accaduto nella legge di Bilancio per i ceramisti e gli edili (si è passati solo per queste categorie dai 36 ai 32 anni di versamenti necessari).

Resta fermo il fatto che si viaggia in direzione di utilizzare l’Ape sociale come alternativa ai canali ordinari di uscita, compresa naturalmente al pensione di vecchiaia dai 67 anni.

Come funziona l’Ape sociale

Parlare di Ape sociale come misura alternativa alla pensione di vecchiaia, nel regime della flessibilità, è argomento che necessita di alcuni passaggi tecnici. Va bene collegare le uscite agevolate alle attività svolte, perché da sempre si parla di differenziare le uscite in base alla pesantezza del lavoro.

Ma è altrettanto vero che occorre innanzi tutto limare l’Anticipo Pensionistico Sociale e portarlo più vicino alle altre misure. E non parliamo di requisiti di accesso, ma di struttura della misura.

Non si può lasciare come alternativa alla pensione di vecchiaia a 67 anni, una uscita dai 63 anni con l’Ape sociale, così come è fatta oggi questa particolare misura. Senza maggiorazioni, senza tredicesima, senza assegni familiari, non reversibile. Per renderla davvero una misura di pensionamento anticipato, non c’è altra via che eliminare questi paletti.

Pensioni: il piano del governo, cosa accade per quota 41 e uscita a 62 anni

 

Presto si tornerà a parlare di pensioni e soprattutto di riforma delle pensioni. Scampato il pericolo di dover rivedere il tutto alla luce di un nuovo Presidente della Repubblica e magari di un nuovo governo, adesso si dovrà affrontare l’argomento.

La riconferma al Quirinale di Sergio Mattarella e la conferma in pieno del governo Draghi, vuoi anche per l’evidente attaccamento alle poltrone dei parlamentari, lascia presupporre che si arriverà a fine legislatura. Ciò significa che se davvero la riforma delle pensioni deve vedere i natali quest’anno, sia con un provvedimento ad hoc o solo con la prossima manovra di fine anno, sarà questo esecutivo ad occuparsene.

Ci eravamo lasciati all’ultimo incontro governo sindacati con le solite richieste delle parti sociali e le solite aperture del governo, pur con tutte le limitazioni del caso dovute alla necessità di assecondare le direttive UE per poter godere dei soldi del Recovery Plan.

Il punto della situazione al momento resta questo. Ma cosa c’è da aspettarsi sulle pensioni e sulla loro riforma?

La posizione dei sindacati

Le richieste dei sindacati sembrano sempre le stesse, e così ormai da anni ed anni. I sindacati chiedono la pensione flessibile per tutti e senza penalizzazioni di assegno. Una misura monstre che consentirebbe, a scelta dei diretti interessati, di lasciare il lavoro una volta arrivati a 62 anni di età ed una volta arrivati a 20 anni di contributi versati.

Sarebbe il lavoratore a scegliere in base alle sue esigenze e ai suoi fabbisogni, se accontentarsi o meno di andare in pensione prima.

Infatti se è vero che più si lavora più si prende di pensione, il lavoratore che opta per una uscita anticipata è già di per se penalizzato. Inutile quindi prevedere tagli lineari di assegno, per anno di anticipo o per ricalcolo contributivo della prestazione.

Altro punto cardine delle richieste dei rappresentanti dei lavoratori è la quota 41 per tutti.

Si tratterebbe di una autentica, nuova, pensione anticipata. Infatti senza alcun limite di età, ed anche in questo caso senza penalizzazioni, con 41 anni di contributi secondo i sindacati si dovrebbe uscire dal lavoro.

Il metodo contributivo come principio base delle nuove pensioni

Ciò che il governo potrà fare è il respingere al mittente le richieste dei sindacati. Non è immaginabile che si arrivi a dire di si a queste misure, con la UE che chiede di ridurre la spesa pubblica e di tornare alla piena attuazione della riforma Fornero.

Il governo deve mettere a terra i soldi del Pnnr del governo. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che l’esecutivo ha prodotto per sfruttare le risorse assegnate all’Italia dalla UE e dal Recovery Plan.

Occorre fare i compiti a casa, e farli bene per ottenere quello che all’Italia è stato assegnato, soprattutto con lo sguardo attento dei Paesi Frugali che già in passato hanno contestato i troppi aiuti all’Italia.

In aiuto a questa necessità, senza dubbio il metodo contributivo. Non c’è metodo di calcolo delle pensioni che non sia più virtuoso del sistema contributivo in fatto di contenimento della spesa pubblica. Ed è lì che il governo, come scrivono anche sul quotidiano “Il Giornale”, il governo andrà a parare.

Cosa intende fare il governo sulle pensioni

L’esecutivo si prepara quindi ad una nuova serie di incontri coi sindacati. Incontri dove c’è da giurarci, le posizioni resteranno quelle prima descritte. L’anno corrente segna il primo anno del post quota 100 e l’unico anno di funzionamento della quota 102.

E si parla di una nuova riforma a partire dal 2023. L’idea del governo, che poi è quella che da anni ha già intrapreso il sistema pensioni nostrano, è quello del contributivo. Non ci sono proposte, idee o misure che proposte da fonti vicine al governo, non  prevedono penalizzazioni di assegno. E se i tagli lineari sono poco popolari, allora meglio riversarsi sull’altra grande soluzione per rendere sostenibile la riforma e le eventuali misure. Il metodo contributivo per calcolare gli assegni.

Come già detto infatti, la UE da tempo chiede all’Italia questa soluzione, o meglio una soluzione low cost che per i vertici europei è la riproposizione fedele della riforma Fornero, senza necessariamente trovare scorciatoie. SI arriva per esempio, alla soluzione della pensione flessibile con taglio lineare di assegno, che poi a conti fatti è esattamente una applicazione, celata del metodo contributivo. In questo modo i futuri pensionati, a fronte di una uscita anticipata, subiranno almeno 3 livelli di penalizzazione.

I tre punti cardine di un autentico salasso per i futuri pensionati

Il primo è la penalizzazione del 3% per anno di anticipo. Ipotizzando una misura che permette di uscire a 62 anni, significa il 15% in meno di pensione.

E se la pensione teoricamente spettante è pari a 1000 euro, significa subito un taglio di 150 euro, con assegno che passa ad 850 euro. Ma c’è da fare i conti con il taglio derivante dai peggiori coefficienti di trasformazione applicati alla pensione per le uscite anticipate. Come è noto infatti, prima si esce dal lavoro più penalizzanti sono i coefficienti di trasformazione.

Questi parametri sono quelli per cui si passa il montante dei contributi e tra 62 e 67 anni c’è quasi un punto. Significa perdere un’altra fetta di pensione, stavolta variabile in base agli importi dei contributi. Infine, c’è da fare i conti con i 5 anni in meno di contributi versati, cioè quelli che il lavoratore avrebbe versato se fosse rimasto in servizio fino ai 67 anni.

Riforma pensioni: come si uscirebbe nel 2023

C’è una finestra che potrebbe tornare utile per riuscire finalmente a mettere mano al sistema pensioni italiano. È quella del mese di aprile, in cui il governo dovrebbe presentare il Documento di Economia e Finanze (DEF).

Questa almeno è la speranza, cioè l’obbiettivo che forse hanno i sindacati. Esperienza però ci dice che probabilmente se ne riparlerà a fine anno, come al solito, con la nuova legge di Bilancio. Infatti dopo il nulla di fatto o quasi dell’ultima manovra finanziaria, si guarda al futuro. L’ultima manovra ha prodotto solo una piccola novità rappresentata da quota 102.  Ecco perché quest’anno si cercherà di intervenire in maniera più profonda su quella riforma delle pensioni che sembra sempre più necessaria.

Tra l’altro la quota 102 è stata varata solo per 12 mesi, perché si tratta di uno strumento previdenziale che verrà utilizzato fino al 31 dicembre 2022, per poi sparire, salvo proroghe. Un indizio questo che potrebbe riguardare la volontà di tornare a correggere il sistema nel corso del 2022. Ma nell’ultimo summit tra governo e sindacati, in base alle richieste di questi ultimi, sembra che le distanze sono invariate tra le parti. Ed allora ipotizzare che ci vorrà più tempo rispetto ad aprile, non è esercizio azzardato.

Ma cosa potrebbe accadere nel 2023 al sistema previdenziale alla luce delle ipotesi di riforma più attendibili?

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Riforma delle pensioni, i sindacati continuano sulla loro via

Serve una flessibilità in uscita maggiore di quella offerta oggi dal sistema pensionistico e si dovrebbe partire dai 62 anni di e dai 20 anni di contributi. E poi con 41 anni di contributi versati dovrebbe essere consentito andare in pensione a tutti, senza alcun limite di età. In ogni caso, per entrambe le misure, nessun collegamento al ricalcolo contributivo delle pensioni, perché nessuna penalizzazione deve essere imposta a chi esce prima. Sono queste le posizioni dei sindacati, ormai autentici cavalli di battaglia delle parti sociali.

Misure che già in passato sono state definite impossibili da adottare per evidenti questioni di sostenibilità. E così sarà anche stavolta, c’è da scommetterci visto che dal punto di vista dell’esecutivo, con tutti i tecnici e gli esperti che quotidianamente dicono la loro, occorre andare verso il sistema contributivo per il calcolo della pensione e verso misure a basso impatto sulle casse dello Stato.

In altri termini, occorre trovare misure che da un lato offrano flessibilità in uscita, e che dall’altro siano economiche dal punto di vista della spesa pensionistica.

Il rebus pensioni, due proposte sembrano godere di maggiori possibilità

In uno scenario del genere è evidente che parlare di penalizzazioni di assegno o di ricalcolo contributivo della prestazione non è una cosa strana. Difatti, sono sostanzialmente queste le strade che sembrano ad oggi più percorribili per riformare il sistema. E sono vie che non dovrebbero riscontrare un parere favorevole da parte dei sindacati, per evidenti ragioni.

La novità delle ultime ore è un ritorno al passato, perché si parla di misure di pensionamento anticipato, a partire da una determinata età (e forse su questo si può assecondare la volontà dei sindacati, partendo dai 62 anni), ma con tagli di assegno.

Si parla di un taglio del 3% annuo sulla quota retributiva, una specie di sistema contributivo mascherato, e forse anche peggio. In pratica si arriverebbe a prevedere quel taglio lineare in base agli anni di anticipo, che era alla base anche di vecchie proposte come quelle dell’allora Presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano e il suo DDL 857.

La pensione in due quote di Tridico

Non un taglio vero e proprio, ma una sorta di penalizzazione a tempo invece è alla base di una proposta che proviene direttamente dall’Istituto Previdenziale. È stato il Presidente dell’Inps Pasquale Tridico a produrre una idea alternativa per consentire, a partire dai 63 anni (ma l’età può essere ritoccata in più o in meno), di accedere alle quiescenze con una doppia quota di pensione.

Uscendo in anticipo si andrebbe così ad accettare solo la quota contributiva della pensione, con un taglio tanto più pensate quanti più sono gli anni di contributi versati nel sistema retributivo (prima del 1996 ndr). AL compimento della canonica età pensionabile dei 67 anni di età invece, la pensione verrebbe ricalcolata con l’aggiunta della parte retributiva, quella mancante alla data di liquidazione della pensione anticipata e flessibile.

Riforma pensioni e dopo quota 100, per l’Acli occorre più flessibilità e uscita a 63-65 anni

Un sistema previdenziale più equo, flessibile e stabile è quanto chiede l’Acli per la riforma delle pensioni e il dopo quota 100. Una misura, quest’ultima, che terminerà la sua sperimentazione il 31 dicembre 2021 senza che possa essere rinnovata. Ma, al di là dei numeri e delle modalità di uscita, è necessario anche analizzare le motivazioni che hanno spinto i contribuenti a scegliere quota 100 per andare in pensione negli ultimi anni. Interessanti sono, a tal proposito, i risultati dello studio condotto proprio dall’Osservatorio del Patronato Acli sulla quota 100.

Pensioni, quanti sono stati i pensionati con quota 100 nel 2019-2021?

Non si può parlare di un ritorno alle pensioni della riforma Fornero in quanto i requisiti della legge del 2011 sono tutt’ora in vigore e lo sono stati anche negli anni in cui è rimasta in vigore quota 100. Tuttavia, nell’analisi dell’Acli, solo una minima parte dei pensionati degli ultimi anni ha beneficiato della misura. Nel primo anno, il 2019, le domande di quota 100 accolte sono state 193 mila. Poi si il numero si è ridotto progressivamente: 74 mila circa nel 2020 e un dato ancora da calcolare per l’anno in corso. Ma molto difficilmente si arriverà all’obiettivo della misura, ovvero a un milione di pensionati in tre anni.

Pensioni, si esce prima con quota 100 per avere più tempo per la famiglia

Più dei numeri è interessante avere il polso della situazione di chi ha scelto di andare in pensione con quota 100. Nello studio dell’Osservatorio Acli, infatti, quasi la metà del campione degli intervistati ha affermato di aver aderito a quota 100 “per dedicare più tempo alla famiglia” o per “avere più tempo libero”. Molto più bassa (il 12%) è stata la percentuale dei neopensionati che hanno scelto la misura di uscita dai 62 anni di età per le preoccupazioni legate alle “prospettive occupazionali del mercato del lavoro”.

Pensioni e riforma, qual è la giusta flessibilità?

Lo studio condotto dall’Osservatorio porta, dunque, a delle riflessioni su come intendere il sistema delle pensioni. La domanda da porsi è: “Perché oggi non si può scegliere di andare liberamente in pensione?”. Il quesito è direttamente legato a quanto richiesto dalle parti sociali in merito alla flessibilità in uscita dal lavoro. Ovvero, il contribuente deve aver libertà di decidere quando andare in pensione utilizzando il montante contributivo accumulato durante gli anni di attività. Anche a costo di avere una pensione più bassa.

Pensioni, un sistema più equo e stabile

Nella scelta di andare in pensione si rivendica, dunque, la possibilità da offrire al lavoratore il giusto bilanciamento tra la diminuzione dell’assegno di pensione e le esigenze di prepensionamento. È un cambio di prospettiva che l’Acli sente di poter appoggiare in vista di una riforma delle pensioni più equa, più flessibile e più stabile.

Equità delle pensioni, perché quota 100 non è stata la misura ‘per tutti’

Nell’analisi dell’Acli, il sistema previdenziale al quale i governanti dovranno giungere dovrà assicurare l’equità che quota 100 non ha garantito. Innanzitutto perché chi ha potuto beneficiare della misura sono soprattutto gli uomini con carriere lavorative più continue, situazione non replicabile per le donne per via delle interruzioni lavorative dovute alle gravidanze e al lavoro domestico. Arrivare a delle pensioni davvero eque significa assicurare trattamenti pensionistici per tutti, senza discriminazioni o situazioni di partenza che impediscano a chiunque di poter maturare i requisiti per una determinata misura.

Pensioni anticipate: troppi circa 43 anni di contributi per uscire da lavoro

In una situazione di carriere frammentate e discontinue, perfino i requisiti attuali di prepensionamento o di futura pensione delle giovani generazioni appaiono da riformare. È impensabile richiedere requisiti di pensione anticipata con circa 43 anni di contributi divenuti ormai un traguardo quasi irraggiungibile, così come i 71 anni di età ai quali andranno incontro i giovani come requisito aggiornato dalla speranza di vita dei prossimi anni.

Flessibilità delle pensioni, proposta di uscita tra 63 e 65 anni

In questo scenario, la flessibilità delle pensioni potrebbe risolvere varie situazioni. Intanto perché gli strumenti che dovrebbero garantire un’uscita agevolata ai lavoratori con particolari disagi economici o sociali (come l’opzione donna, l’Ape sociale o la stessa quota 100) si sono rivelati sistemi “rigidi” oppure “troppo selettivi”. La flessibilità dovrebbe assicurarsi con la libertà per il lavoratore di andare in pensione tra i 63 e i 65 anni, con un minimo contributivo che potrebbe essere fissato a 20 anni di versamenti.

Riforma pensioni, purché sia un sistema stabile e di regole certe

Infine, la riforma delle pensioni dovrà garantire la stabilità delle norme. Non è possibile accedere al mercato del lavoro con determinate regole pensionistiche e ritrovarsi le stesse stravolte dal passare degli anni, delle leggi e dei meccanismi di uscita. In tal senso dovrà essere superata anche la logica degli interventi sperimentali. Misure frammentarie, episodiche, valide per qualche anno hanno caratterizzato la materia previdenziale per troppi anni, soprattutto negli ultimi decenni.

Pensioni integrative in soccorso dei lavoratori del contributivo

E, da ultimo, tra le proposte dell’Acli figura quella di rendere obbligatoria l’iscrizione alla previdenza complementare. Uno strumento che potrebbe risolvere molte delle situazioni penalizzanti dei contribuenti, soprattutto dei giovani. Con un sistema previdenziale che tra qualche anno sarà costituito da soli lavoratori del contributivo, costruirsi una “pensione di scorta” non potrà che rafforzare la scelta flessibile per andare in pensione prima.

Pensioni, cosa succede se la riforma parte dai coefficienti di trasformazione?

Se dovesse arrivare una vera e propria riforma delle pensioni per il dopo quota 100, quasi certamente andrebbe a modificare i criteri e i meccanismi che sono alla base del diritto alla pensione stessa. Ma non si agirebbe sui criteri di calcolo delle pensioni che possono indirizzare le scelte dei lavoratori, ovvero se uscire prima da lavoro oppure attendere ancora qualche anno.

Dalla riforma Dini alle riforme pensionistiche più recenti

Agire sul calcolo della pensione equivale a dire modificare i coefficienti di trasformazione. Ne è convinto il professor Sandro Gronchi che, in un articolo scritto per Il Sole 24 Ore, analizza il sistema italiano dei coefficienti rispetto a quelli applicati in alcuni Paesi nordici, soprattutto in Svezia. Il punto di partenza è la riforma Dini del 1995 per i pensionamenti che sarebbero maturati nel 1996, l’anno che fa da spartiacque tra sistema retributivo, misto e contributivo.

Coefficienti di trasformazione, la mancanza di una vera riforma delle pensioni

Il risultato, dalla riforma Dini a quelle più recenti, è stato di un sistema pensionistico italiano basato su criteri di uscita che creano dubbi, disparità di trattamento previdenziale e un’età pensionistica in crescita. Ma non l’età media effettiva di uscita. L’introduzione dei coefficienti di trasformazione nel 1996 in Italia è stata superficiale, “non furono legiferate né la formula, né le fonti cui attingere i molti dati contenuti nei coefficienti”. E furono trascurate riforme previdenziali che  avrebbero dovuto intervenire sull’invalidità, sul meccanismo di perequazione, sulla reversibilità e sui requisiti anagrafici stessi della pensione.

Pensioni, come funziona il coefficiente di trasformazione?

Il calcolo della pensione si basa essenzialmente sul montante contributivo e sul coefficiente di trasformazione. Quest’ultimo è un indice che va moltiplicato al montante per ottenere l’assegno di pensione. L’analisi va fatta, dunque, sui coefficienti che caratterizzano ogni anno di uscita per la pensione e la differenza tra essi. Il coefficiente è tanto più alto quanto più si ritarda la pensione. Ma di coefficienti, aggiornati ogni due anni (e sempre al ribasso), ve n’è uno per ogni anno in cui il lavoratore può accedere alla pensione. Attualmente, vi sono coefficienti corrispondenti alle età dai 57 anni ai 71 anni.

Perché più si va in pensione tardi e più è alto il coefficiente di trasformazione?

Tra i fattori che incidono sul coefficiente di trasformazione vi è la speranza di vita. Al crescere dell’età di pensionamento, la durata degli anni “da pensionato” è più bassa. Di conseguenza il coefficiente non può che aumentare. Ciò implica che, a parità di contributi versati, chi esce dopo ha una pensione più alta. In qualche modo deve essere “premiato”. Ma questo meccanismo presenta tre anomalie per il professor Gronchi. La prima è che se la pensione è reversibile, allora la speranza di vita non dovrebbe riguardare il solo pensionato, ma anche il coniuge superstite.

Come cambiano i coefficienti di trasformazione per la pensione

La seconda anomalia che presenta il coefficiente di trasformazione è che l’indice è applicato indipendentemente dall’anno di nascita. Ovvero, il coefficiente corrispondente all’età di pensione di 65 anni dell’attuale biennio, viene applicato nel 202i ai nati nel 1956 e nel 2022 sarà applicato ai nati nel 1957. Anche a distanza di un anno, l’applicazione dello stesso coefficiente potrebbe determinare elementi di obsolescenza nel calcolo della pensione.

Pensioni, il fattore obsolescenza dei coefficienti di trasformazione

La terza anomalia si riscontra nella differenza tra pensioni di vecchiaia a 67 anni e pensioni anticipate (o anzianità contributive). Le seconde possono essere raggiunte già dai 57 anni di età e maturare lungo un lasso di tempo ampio. Ad esempio, una lavoratrice nata nel 1964 potrebbe andare in pensione dai 57 anni ai 67 anni (dal 2021 al 2031). Nel frattempo cambieranno 6 volte i coefficienti di trasformazione, una volta per biennio.

Coefficienti di trasformazione e speranza di vita

Con la speranza di vita in aumento, la rinuncia a uscire a un’età più bassa determina l’erosione della pensione, dal momento che l’assegno dovrà essere spalmato su un numero di anni superiore. Questo meccanismo di obsolescenza dei coefficienti può essere più chiaro confrontandosi con un collega che, a parità di contributi, ha deciso di andare in pensione prima.

Il modello Svezia per i coefficienti di trasformazione

La Svezia ha adottato un sistema di coefficienti di trasformazione diverso da quello italiano. Innanzitutto per il diverso meccanismo di pensionamento riconosciuto dai 65 ai 68 anni. La scelta all’interno della fascia è libera e flessibile, e non sono richiesti anni minimi di contribuzione. E, di conseguenza, gli indici sono calcolati per i soli 4 anni di uscita per limitare l’obsolescenza. A ciascuna età è assegnato un coefficiente di trasformazione legato all’anno di nascita. Dunque, vi è un coefficiente fisso per il 2021 assegnato al 65enne nato nel 1956 che voglia andare in pensione. Coefficiente che è stato ricalcolato rispetto a quello applicato al 65enne che è andato in pensione nel 2020 essendo nato nel 1955.

Come si potrebbero calcolare le pensioni con pochi anni di coefficienti di trasformazione?

Un sistema come quello svedese in Italia rivoluzionerebbe tutto il meccanismo dei coefficienti, proprio per l’ampia fascia di età (dai 57 ai 71 anni) in cui è possibile andare in pensione. Applicare il modello svedese vorrebbe dire avere fin da subito un coefficiente da assegnare al lavoratore nato nel 1964 che volesse andare in pensione con l’anzianità contributiva nel 2021. Diversamente lo stesso lavoratore dovrebbe attendere il 2031 per avere il coefficiente della pensione di vecchiaia dei 67 anni. Ciò spiega perché l’adozione di pochi coefficienti di trasformazione richiedere un numero di anni di calcolo (e di uscita) contenuto. In Italia una riforma ragionevole potrebbe essere dai 64 ai 67 anni, in linea con i requisiti della Fornero.

Pensioni anticipate in Svezia: l’anticipo viene scalato dal montante dei contributi

Ma un meccanismo del genere comporterebbe anche l’abbandono di varie formule di pensionamento anticipato vigenti in Italia. Nel modello pensionistico svedese esiste una possibilità di uscita anticipata dai 62 anni. Si tratta di assegni mensili configurati come “prestiti” garantiti dal montante contributivo maturato. Alla maturazione della vecchiaia il debito viene rimborsato a valere sul montante stesso.

Previsioni di riforma delle pensioni in Italia: novità in arrivo sui requisiti di accesso

E dunque, la pensione si calcola moltiplicando il montante residuo con il coefficiente di trasformazione corrispondente ai 65, 66, 67 o 68 anni. Ma la formula anticipata è piuttosto snobbata dai lavoratori. Vi ricorre un terzo dei pensionati, molti dei quali rimasti senza lavoro. L’esempio svedese potrebbe essere un ottimo sistema per il riordino delle pensioni italiane e per il ricalcolo dei coefficienti di trasformazione. Tuttavia, le indiscrezioni sulla riforma italiana anticipano provvedimenti che si limiteranno ad agire sui requisiti di accesso alla pensione.

Pensione anticipata dal 1 gennaio 2022: chi potrà accedere?

L’imminente scadenza della quota 100 e l’incertezza dei pensionamenti 2022 sono argomenti che si fanno sempre più pressanti nell’ambito della riforma previdenziale. Proprio per questo appare sempre più urgente capire quelle che sono le intenzioni del governo per il prossimo anno.

La scadenza della quota 100 provocherà irrimediabilmente uno scalone di 5 anni per chi si pensionerà a partire dal 1 gennaio 2022, rischio che, mese dopo mese, appare sempre più concreto.

Pensione gravosi e usuranti

Sul tema riforma pensioni si sono espressi diversi personaggi di spicco della politica italiana e lo stesso Giuseppe Conte ha sottoloneato l’urgenza di un intervento: “Il problema di quota 100 è una questione che va risolta, bisogna intervenire e il modo migliore credo sia allargare la platea dei lavori gravosi o usuranti sulla base di dati oggettivi che fornisce l’Istat e a quel punto lì si può creare e rinforzare lo strumento”.

Anche il segretario del PD, Enrico Letta parla del superamento della quota 100 affermando che “per il superamento Quota 100 si deve partire dal concetto di lavoro usurante. Io sono d’accordo che a 65, 66 anni si vada in pensione prima, ma soprattutto se chi lavora deve stare su ponteggi, inseguire dei rapinatori o lavorare in condizioni usuranti. E’ un tema che va affrontato, ma non con la logica attuale, va affrontato mettendo al centro il concetto di lavoro usurante, e credo sia importante che governo e sindacati ne parlino per trovare una soluzione che superi Quota 100”.

Cosa scade con quota 100?

La quota 100 ha permesso per un triennio di pensionarsi con 38 anni di contributi a chi ha compiuto i 62 anni di età. Con la sua scadenza, dal 1 gennaio 2022, per accedere alla pensione sarà necessario attendere i 67 anni di età o raggiungere i 42 anni e 10 mesi di contributi (per le donne un anno in meno) e questo, appunto, significa un allungamento di 5 anni dell’età pensionabile.

Le ipotesi più probabili di una flessibilità in uscita nel prossimo anno potrebbero essere date da un prolungamento dell’Ape sociale a cui affiancare, però, anche un ampliamento della platea dei beneficiari. E proprio per questo si sta lavorando sull’ampliamento delle categorie che rientrano nelle mansioni gravose: individuare i lavoratori che, realmente, hanno bisogno di maggiore tutela nel pensionamento.

Riforma pensioni, a che punto siamo?

La riforma pensioni è quanto mai attesa. Tra conferme, ed addii ecco le ultime novità sull’età pensionabile a 57 anni.

Riforma pensioni: si muovono i primi passi

L’attesa di una riforma pensioni non è ancora finita. Ma spuntano i primi passi incerti di questo Governo. Ma una cosa è certa la famosa Quota 100 sarà abolita. Anche perché la misura era stata introdotta in via sperimentale per il triennio 2017-2021. A questo punto sono varie le ipotesi da vagliare sul tavolo dei Ministri. Il primo è legato alla quota 41 di contributi uguale per tutti. Misura che potrebbe permettere ai lavoratori di lasciare definitivamente il mondo del lavoro e di ritirarsi all’età di 56-57 anni. Rimarrà, forse, quota 41, destinata ai lavoratori precoci. Tuttavia sarà valida per donne ed uomini con una contribuzione maturare di  41 e 10 mesi di contributi per le donne, oppure, 42 e 10 mesi per gli uomini.

Le novità già date per certe

Il Governo ha annunciato la conferma di Opzione donna anche per il 2022. La misura farà parte integralmente della riforma pensioni, senza ulteriori conferme. Risulta anche interessante la proposta di ANFA che propone “dodici mesi di anticipo dell’età della pensione per ogni figlio, senza limiti massimi che penalizzino le famiglie numerose”. Mentre i possessori della Legge 104 potranno ancora sfruttare la possibilità di mettersi in pensione al compimento dei 57 anni di età. Inoltre l’Ape sociale sarà riconfermata, anche se sarà interessata da qualche modifica. Si ricorda che l’Ape sociale è un anticipo pensionistico fino a quando si avrà diritto alla pensione di vecchiaia, riconosciuto per il raggiungimento di 63 anni di età e con un’età contributiva variabile.

Quali gli scenari possibili per la riforma pensioni?

Gli scenari possibili non sono finiti. Gli economisti Boeri e Perotti propongono un pensionamento a partire da 63 anni, ma accettando una riduzione attuariale sull’importo della pensione, come già proposto in passato dall’Inps. Mentre Pasquale Tridico, numero uno dell’Inps parla di quota pensione divisa in due parti: una retributiva e una contributiva così composta. In pratica un anticipo pensionistico solo per la parte contributiva: 62/63 anni e 20 anni di contributi. Il resto (la quota retributiva) lo si ottiene a 67 anni. Alcuni ripropongono la legge Fornero, ma che non è ben vista, pertanto poco credibile in questo momento.