Il buco nero delle pensioni

Fino a quando la spesa per le pensioni, in Italia, sarà così elevata, i tentativi di riduzione della spesa pubblica saranno sostanzialmente inefficaci. Una verità certificata anche dall’Ufficio studi della Cgia, che ha rilevato come la spesa pubblica corrente al netto degli interessi è aumentata nell’ultimo anno di 340 milioni di euro, a quota 691,2 miliardi di euro.

Se, come constata la Cgia, alcune voci che compongono la spesa pubblica calano, quella per le pensioni e l’assistenza è aumentata di 3,1 miliardi nell’ultimo anno, al netto del bonus di 80 euro introdotto dal Governo Renzi per una parte del 2014 e per l’intero 2015.

Se tra il 2014 e il 2015 la spesa per il personale è calata di 1,8 miliardi grazie alla riduzione del numero degli addetti e al blocco dei contratti dei dipendenti pubblici e le altre uscite correnti si sono ridotte di 4,5 miliardi, vi sono voci si spesa che sono invece cresciute: i consumi intermedi (+267 milioni di euro) e le prestazioni sociali in natura (spesa e assistenza sanitaria/farmaceutica, +410 milioni). La spesa per le pensioni è invece decollata: +6,1 miliardi.

Il dato reale viene però ottenuto considerando che in questo capitolo sono compresi anche gli 80 euro per i lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi. Con questo, si ottiene che, al netto dei 16 miliardi che è costato negli ultimi due anni il bonus degli 80 euro, tra il 2014 e il 2015 la spesa pensionistica e assistenziale è cresciuta di 3,1 miliardi, passando da 320,3 a 323,4 miliardi.

Secondo il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, “i dati riferiti al costo delle pensioni sono in parte condizionati dal trend demografico. Tuttavia, non possiamo disconoscere che le politiche di spesa realizzate negli ultimi quarant’anni abbiano privilegiato, in termini macroeconomici, il passato, ovverosia gli anziani, anziché il futuro, cioè i giovani. Purtroppo, ancora adesso scontiamo gli effetti di un sistema pensionistico che fino agli inizi degli anni ’90 è stato molto generoso, soprattutto nei confronti dei lavoratori del pubblico impiego e delle aziende di Stato. E’ altresì corretto segnalare che nella spesa pensionistica le statistiche internazionali riferite al nostro Paese includono anche l’assistenza: tuttavia, anche depurando l’importo complessivo da quest’ultima componente, la spesa totale si ridurrebbe di circa 2 punti, rimanendo comunque nei primissimi posti della graduatoria europea per i costi sostenuti in materia previdenziale”.

Niente tagli alla spesa pubblica? 10 miliardi di tasse in più

La scorsa settimana, con la sua informativa, il ministro dell’Economia Padoan aveva lanciato l’allarme sulla necessità assoluta del taglio della spesa pubblica improduttiva per evitare ulteriori impennate delle tasse. Una presa di posizione che è stata subito fatta propria dalla Cgia, che per bocca del segretario Giuseppe Bortolussi ha dichiarato: “Dobbiamo sperare nel taglio della spesa pubblica improduttiva, altrimenti nel prossimo biennio pagheremo 10 miliardi di euro di nuove tasse: 3 nel 2015 e altri 7 nel 2016”.

Secondo il Def approvato nella primavera scorsa, nel triennio 2014-2016 il Governo si impegna a tagliare a regime laspesa pubblica per un importo di 32 miliardi. Per l’anno in corso, dice la Cgia, l’obiettivo è di raggiungere una riduzione delle uscite di 4,5 miliardi.

La situazione diventa ancor più impegnativa per gli anni a venire. Nel 2015 il Governo ha infatti deciso di tagliare la spesa pubblica di17 miliardi , con un impegno minimo da raggiungere che non potrà essere inferiore ai 4,4 miliardi .

Nel caso il Governo non sia in grado di centrare questo obiettivo minimo, scatterà la cosiddetta “clausola di salvaguardia”: a fronte del mancato taglio della spesa pubblica, i contribuenti saranno chiamati a sopportare un aggravio fiscale di 3 miliardi, a seguito della riduzione delle agevolazioni/detrazioni fiscali e all’aumento delle aliquote. I ministeri , dal canto loro, dovranno razionalizzare la spesa per un importo di 1,44 miliardi.

Nel 2016 l’impegno sarà ancora più gravoso. A fronte di una contrazione delle uscite che dovrà salire a 32 miliardi, l’obbiettivo minimo sarà di 7 miliardi di tagli alla spesa pubblica, altrimenti scatterà la clausola di salvaguardia per tutti i cittadini, mentre i ministeri dovranno tagliare le uscite per 1,98 miliardi.

Nel 2017 e 2018 le risorse già impegnate dal taglio della spesa pubblica ammontano rispettivamente a11,9 e 11,3 miliardi. Il raggiungimento di questo risparmio di spesa è garantito da apposite clausole di salvaguardia, che consistono nel taglio delle risorse a disposizione dei Ministeri, e da un aumento della tassazione per i cittadini di 10 miliardi nel 2017 e di altri 10 miliardi  nel 2018.

Spesa pubblica e tasse locali? Impazzite

È un pozzo senza fondo la spesa pubblica italiana. Non passa settimana che qualche studio o ricerca non ci metta sotto al naso qualcuna delle follie. Questa volta ci ha pensato l’Ufficio studi della Cgia, segnalando che dal 1997 ad oggi la spesa pubblica, al netto degli interessi sul debito, è aumentata del 68,7%. In termini assoluti è cresciuta di quasi 296 miliardi: alla fine di quest’anno le uscite, sempre al netto degli interessi, ammonteranno a 726,6 miliardi di euro.

Il rovescio della medaglia è dato dalle entrate fiscali, che sono cresciute del 52,7%. A fronte di una variazione pari a +240,8 miliardi, il gettito complessivo previsto entro il 2013 ammonterà a 698,26 miliardi di euro. Ricordiamo che le entrate fiscali comprendono solo le tasse, le imposte, i tributi e i contributi pagati dagli italiani.

Le entrate tributarie, ossia solo imposte, tasse e tributi che costituiscono il 70% circa delle entrate fiscali totali, sono date dalla somma del gettito in capo alle Amministrazioni centrali e da quelle incassate dalle Amministrazioni locali. Nel periodo considerato l’incremento è stato del 58,8%. Ma se si analizza il trend delle tasse locali ci accorgiamo che sono praticamente “esplose”: +204,3% (pari, in termini assoluti, a +74,4 miliardi di euro), con un gettito che nel 2013 sfiorerà i 111 miliardi. Quelle centrali, invece, sono cresciute “solo” del 38,8% (pari a + 102,6 miliardi in valore assoluto), anche se nel 2013 le entrate di competenza dello Stato ammonteranno a ben 367 miliardi di euro. Tutti gli importi sopra citati, sottolinea la Cgia, sono a prezzi correnti, ossia includono anche l’inflazione).

La spesa pubblica, al netto degli interessi, ha dunque “viaggiato” ad una velocità superiore a quella registrata dalle entrate fiscali, anche se a livello locale la tassazione ha subito una vera e propria impennata. Ciò ha contribuito ad aumentare il carico fiscale generale, portandolo a toccare un livello mai raggiunto in passato; inoltre, alla luce di una spesa pubblica complessiva che in questi anni è sempre stata superiore al totale delle entrate finali, la dimensione del debito pubblico italiano è continuata a crescere in maniera allarmante.

Secondo il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, “l’aumento delle tasse locali è il risultato del forte decentramento fiscale iniziato negli Anni ’90. L’introduzione dell’imposta sugli immobili, dell’Irap, delle addizionali comunali e regionali Irpef hanno fatto impennare il gettito della tassazione locale che è servito a coprire le nuove funzioni e le nuove competenze che sono state trasferite alle Autonomie locali. Non dobbiamo dimenticare che, negli ultimi 20 anni, le Regioni ed i Comuni sono diventati responsabili della gestione di settori importanti come la sanità, i servizi sociali e il trasporto pubblico locale senza aver ricevuto un corrispondente aumento dei trasferimenti. Anzi. La situazione dei nostri conti pubblici ha costretto lo Stato centrale a ridurli progressivamente, creando non pochi problemi di bilancio a molte amministrazioni locali che si sono difese facendo leva sulle nuove imposte locali introdotte dal legislatore”.

Apprendistato, un aiuto concreto per i giovani?

 

Garantisce un costo del lavoro più basso, perchè ne riduce il costo contributivo, ma è ancora troppo poco adottato dalla piccole e medie imprese per la sua complessità normativa e di gestione. Il contratto di apprendistato potrebbe rivelarsi un valido strumento per incentivare l’assunzione dei giovani in un momento in cui la disoccupazione giovanile ha raggiunto picchi storici e in cui la crisi economica non può più fungere da unico capro espiatorio.

Ma perchè le aziende faticano ancora a preferire il contratto di apprendistato? Oggi Infoiva ne discute con il Professor Maurizio Del Conte, Docente di Diritto del Lavoro presso l’Università Bocconi di Milano. Perchè per garantire un futuro a un’intera generazione che oggi viaggia ‘sul filo del rasoio’ della disoccupazione occorre agire adesso.

L’apprendistato avrebbe dovuto essere il canale d’ingresso principale dei giovani nel mercato del lavoro, ma a oggi pare fatichi ancora a decollare? Perché? Quali sono i suoi limiti?
Purtroppo l’apprendistato sconta una storia fatta di incertezze regolative, dove la indicazione del tipo di formazione – on the job o in aula – ed i suoi stessi contenuti sono rimasti appesi all’inerzia delle Regioni e della contrattazione collettiva nel regolare la materia. Il testo unico del 2011, rilanciato dalla riforma “Fornero”, dovrebbe spingere nel senso di un pieno completamento della disciplina, ma è necessario un maggiore impegno di Regioni e parti sociali.

La complessità normativa di questo tipo di contratto gioca a suo sfavore?
Il maggior ostacolo al ricorso all’apprendistato da parte delle imprese è proprio la complessità della disciplina e della gestione operativa degli apprendisti. Molto spesso i direttori del personale preferiscono rinunciare ai vantaggi del contratto di apprendistato, ritenuto troppo oneroso in termini di tempo e risorse organizzative da dedicare per ogni apprendista. Oltretutto, con il rischio di vedersi condannati a restituire gli sgravi contributivi nel caso si commetta qualche errore nella complicata gestione burocratica del contratto.

Perché un’azienda dovrebbe scegliere questo tipo di contratto piuttosto che un altro?
L’apprendistato potrebbe essere estremamente interessante per le imprese perché, da un lato, riduce significativamente il costo contributivo del lavoro e, dall’altro, garantisce la possibilità di formare il giovane neoassunto secondo le esigenze specifiche dell’organizzazione aziendale. Insomma un investimento nella qualità del lavoro ad un costo ragionevole. Nel panorama contrattuale a disposizione delle imprese non c’è nulla di altrettanto appetibile.

Ad oggi, alle piccole e medie imprese conviene stipulare contratti di apprendistato?
In teoria sì, ma la realtà ci dice che sono proprio le imprese meno strutturate ad essere maggiormente diffidenti nei confronti dell’apprendistato. Questo perché, vista la complessità di cui si è detto, all’interno delle piccole aziende non ci sono le risorse organizzative sufficienti per seguire gli apprendisti. Un’iniziativa importante, che dovrebbe essere estesa a tutto il territorio, è quella appena lanciata da Regione Lombardia, che finanzia le piccole e medie imprese che si avvalgano di operatori esterni accreditati per la gestione degli apprendisti.

Esistono, secondo lei, strumenti migliori per incentivare l’occupazione giovanile?
In questi tempi di grave congiuntura economica lo strumento più efficace per incentivare l’assunzione dei giovani sarebbe una decisa riduzione del costo del lavoro dovuto al carico fiscale/previdenziale. In attesa di vedere provvedimenti legislativi in questo senso, l’apprendistato garantisce un costo del lavoro più basso anche se, dobbiamo ricordarlo, un apprendista alterna il lavoro alla formazione e, dunque, nel breve periodo rende di meno di un lavoratore già formato.

Qual è il vero problema del mercato del lavoro in Italia? Pensa sia ancora troppo rigido, specialmente per quanto riguarda i vincoli di ingresso?
A mio avviso il vero problema è la bassa produttività del lavoro nel confronto con i paesi nostri diretti concorrenti. Mentre si profondevano fin troppo tempo ed energie in operazioni di ingegneria contrattuale e del mercato, il lavoro si andava drammaticamente assottigliando e quello che ancora resta è sempre meno produttivo. Il risultato è che stiamo scivolando verso un lavoro che produce minor valore aggiunto, rendendo le nostre imprese meno competitive nei mercati più ricchi e deprimendo ulteriormente i salari e la domanda interna. E’ un circolo vizioso che deve essere interrotto, pena un declino irreversibile del nostro sistema industriale nel mercato globalizzato.

Situazioni straordinarie come quella attuale per le imprese, l’economia e il lavoro, necessitano di iniziative e progetti straordinari: secondo lei il Paese e il governo stanno dando segnali positivi in tal senso?
Finora il governo si è concentrato nel ridurre la spesa per riportare i parametri del bilancio pubblico entro limiti accettabili dai mercati finanziari. Tuttavia senza l’impulso della spesa pubblica nessuna economia è mai riuscita ad uscire stabilmente da una fase di recessione economica grave come quella che stiamo attraversando. Dunque si pone un problema di dover sostenere la spesa pubblica in questa congiuntura straordinariamente negativa. Personalmente credo che non si possa più affrontare una disoccupazione che tocca ormai oltre un terzo dei giovani come se si trattasse di un semplice effetto collaterale della crisi. Quando raggiunge questa magnitudine, la disoccupazione diventa essa stessa causa della recessione. Per combatterla occorrono misure straordinarie, mettendo in campo risorse finanziarie straordinarie. Come ho già detto, la riduzione del cuneo fiscale è la prima e ormai indifferibile misura da prendere se si vuole produrre uno shock positivo sul mercato del lavoro. Dall’inizio della crisi sono state investite enormi risorse finanziarie per conservare i posti di lavoro già esistenti, ma pochissimo è stato speso per aiutare un’intera generazione di giovani che rischia di restare tagliata fuori anche dalla ripresa economica, quando finalmente ci sarà. Se si vuole scongiurare questo rischio occorre agire adesso.

Alessia CASIRAGHI

Claudio Siciliotti critica la Legge di Stabilità

Le manovre del Governo per recuperare denaro e rimpinguare le casse dello Stato non piacciono a Claudio Siciliotti, presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti.

In occasione del terzo congresso della categoria, svoltosi a Bari, Siciliotti ha criticato duramente i modi di procedere di Monti & Co, colpevoli di aver posto l’attenzione “unicamente alla leva fiscale, tralasciando il nodo del taglio della spesa pubblica”.

Non piace, ad esempio, la tassa di solidarietà del 3% per chi percepisce oltre 150mila euro, poiché questa soglia è considerata troppo bassa per pensare che sia riservata solo ai ricchi, quando, invece, secondo Siciliotti si tratterebbe di “quelli che in questo Paese producono, creano lavoro e ricchezza, che pagano le tasse e che forse non meritano questo ulteriore aggravio”.

Le misure fiscali contenute nella Legge di Stabilità, che potrebbero spostare il peso delle tasse dalle persone alle cose, piacciono parzialmente al presidente dei commercialisti, perché lo scambio Irpef-Iva non convince del tutto: “non è sufficiente per dire che ne trarrà beneficio la gran parte dei contribuenti“.

La spiegazione è semplice: il Governo avrebbe disatteso le speranze dei contribuenti che non si aspettavano un aumento dell’Iva. Perciò aver deciso di aumentare l’Imposta sul valore aggiunto di un solo punto, e ridurre l’Irpef, ha strappato un mezzo sorriso, e non un’approvazione unanime.
Anche perché questa soluzione, secondo Siciliotti, ha fatto bene principalmente allo Stato “perché le risorse che avrebbe dovuto trasferire ai cittadini per azzerare l’aumento dell’IVA già messo a bilancio sarebbero state pari a sette miliardi, il taglio dell’IRPEF costa 5 miliardi”.

La retroattività è stata del tutto bocciata, poiché avrebbe la colpa di violare lo Statuto del contribuente con inaccettabili norme retroattive, punitive per i cittadini.

La riforma fiscale dovrebbe, in questo particolare momento storico, partire da una vera revisione della spesa: “Tra il 2000 e il 2011 la spesa pubblica italiana è cresciuta in termini reali di 124 miliardi, di cui la metà circa sono puro aumento senza alcun ritorno per i cittadini in termini di servizi. Si tratta di circa 60 miliardi di minori spese che si possono recuperare per tornare ai numeri del 2000. Una cifra con la quale finanziare l’abrogazione integrale dell’IRAP per l’intero settore privato e il dimezzamento dell’IRES per le imprese labour intensive, ossia quelle che presentano una incidenza del costo del lavoro superiore al 50% del fatturato. La priorità è abbassare le tasse su imprese e professionisti che danno a loro volta lavoro, prima ancora che direttamente sui lavoratori”.

Vera MORETTI

La spending review è legge

La spending review non è più un decreto ma una legge.

La Camera, con una votazione di 371 favorevoli, 86 contrari e 22 astenuti, ha dunque dato l’ok definitivo, dopo che il testo era passato al Senato.

Questo provvedimento porterà, come principale risultato, il congelamento dell’Iva, anche se, per ottenerlo, sono stati fatti tagli, considerati “generici” dal sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo, che però destano preoccupazioni e dubbi soprattutto da parte delle Regioni e degli amministratori locali.
Per loro, infatti, più che una revisione della spesa, questa nuova legge assomiglia molto ad un’altra manovra.

I tagli degli organici pubblici, a dire il vero, hanno sollevato le proteste dei sindacati, in particolare di Cgil e Uil, che hanno già indetto uno sciopero per fine settembre. Anche se si sono dati appuntamento fuori dall’Aula di Montecitorio con tanto di mannaie per simboleggiare quanto grave sarà la conseguenza di questo decreto sul lavoro pubblico.
Polillo, però, più che con le mannaie promette che, nei prossimi mesi si lavorerà con il bisturi, con Enrico Bondi in prima linea in qualità di supercommissario all’economia.

Dopo la pausa estiva, i primi obiettivi su cui lavorare saranno i dossier Amato (finanziamenti ai partiti e permessi sindacali) e Giavazzi (incentivi alle imprese), anche se non saranno tralasciati riordino delle agevolazioni fiscali e nuova revisione della spesa degli enti locali.

Vera MORETTI

Tagli alla spesa pubblica? E il dipendente pubblico sciopera

di Davide PASSONI

Ecco, ci mancava solo questo. Già la spending review per come sta prendendo forma con il lavoro del governo sembra essere sempre più una sòla, con i tagli annunciati che, se arriveranno, saranno solo una goccia nel mare della spesa inutile ed elefantiaca dello Stato. Ora, come se non bastasse, c’è chi protesta contro di essa.

Naturalmente non possono che essere i dipendenti pubblici, non foss’altro perché la revisione della spesa incide proprio nel perimetro della spesa dello Stato. Cgil, Cisl e Uil sono infatti sul piede di guerra e hanno indetto per domani due ore di stop nel pubblico impiego “affinché il governo apra il necessario confronto e interrompa il percorso preannunciato su spending review e lavoro pubblico, tenendo fede all’intesa del 3 maggio“.

La Triplice protesta “contro la politica degli annunci e delle indiscrezioni a mezzo stampa portata avanti da questo governo. Ma soprattutto contro l’approccio ideologico nei confronti del pubblico impiego. Approccio che rischia di tradursi in tagli lineari di organico mascherati da revisione della spesa, accorpamenti di enti contrabbandati per riorganizzazioni, attacchi alla dignità dei lavoratori pubblici spiegati con le urgenze di cassa. Sono misure inaccettabili, tanto più in un momento di difficoltà del Paese“.

Se qualche giorno fa avevamo definito “alieni” i parlamentari, assodata la loro incapacità di comprendere in quale Paese e in quale momento storico stanno vivendo, oggi a chi fa queste affermazioni non possiamo che dare del marziano. Al di là del fatto che uscite “a mezzo stampa” di questo governo sono tutte da trovare, visto quanto poco credito Monti & c. racimolino ormai dalla maggiore stampa del Paese, come diavolo si fa a parlare di “approccio ideologico” nei confronti del pubblico impiego quando proprio nel pubblico, oggi, c’è il cancro maggiore che rode l’Italia? E non parliamo, badate, dei lavoratori del pubblico: lì, come nel privato, non mancano le sacche di lassismo, ma il problema non è il dipendente pubblico, quanto chi lo tutela con leggi fuori dal tempo, chi mette nero su bianco che la mobilità nel pubblico è ammessa ma all’atto pratico non la utilizza, chi si batte per non applicare nel pubblico il famigerato articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, chi permette che, a fronte di un calo di 110mila unità, la spesa per gli stipendi dei dipendenti dello Stato cresca di 40 miliardi in 8 anni.

Ovvero, se il pesce puzza dalla testa, parliamo dei vertici della funzione pubblica italiana; se il pesce puzza anche nella pancia, parliamo dei sindacati del pubblico impiego. Imprese e lavoratori dipendenti privati si vedono ridurre ogni giorno margini e stipendi (quando non devono chiudere bottega o non finiscono in mezzo alla strada con famiglia a carico) e chi rappresenta i lavoratori pubblici, oltre tutelarne di fatto l’inamovibilità, protesta pure se solo sente lontanamente minacciati privilegi e diritti acquisiti “in un momento di difficoltà del Paese“, come dicono loro?

Non ci siamo proprio, anche perché i maggiori sprechi nel pubblico sono (ed è un dato di fatto) nelle spese per i beni e i servizi più che nell’erogazione delle pensioni e degli stipendi dei dipendenti. E allora, cari sindacati, noi vi mandiamo un abbraccio forte, riconosciamo senza alcuna remora il vostro alto ruolo sociale di tutela e garanzia ma vi invitiamo con forza a svegliarvi, a capire che siamo nel XXI secolo e non nel XIX o nel XX, a pensare al Paese oltre che ai vostri iscritti. Certo, ogni tessera in tasca a un lavoratore sono soldi per voi, ma di questo passo se l’Italia continua la sua corsa lungo la china, i lavoratori dovranno scegliere tra dare la quota a voi o destinarla alla spesa settimanale per la famiglia. Non siamo veggenti, ma ci viene facile capire che cosa sceglieranno…

Sì, premier Monti: è ora di tagliare

di Davide PASSONI

Forse il governo si è deciso. Oltre a continuare a ficcarci le mani nelle tasche per prendere tasse dove ormai non c’è più nulla da prendere, forse forse ha capito che per provare a raddrizzare i conti di uno Stato che fa sempre più fatica a uscire dalla sua “tassicodipendenza” (come la chiama il buon Oscar Giannino) bisogna vendere asset pubblici e tagliare. Tagliare davvero. Non una sforbiciatina da 4 miliarducoli pari allo zerovirgola della spesa pubblica che fa ridere i polli.

E tagliare dove ci sono le maggiori sacche di improduttività. Nei ministeri, per esempio. Uno degli obiettivi ai quali sta lavorando il governo nell’ambito della manutenzione dei conti parla proprio di 30 miliardi nel triennio 2012-14 da ottenere con tagli ai ministeri. Wow! E una parte di questi interventi potrebbe essere anticipata nel prossimo decreto legge sulla spending review.

Ma come fare a segare il giusto in queste macchine mangiasoldi che, per carità, hanno comunque i loro costi vivi? Del resto, il più della spesa pubblica non è tanto a livello centrale ma periferico, in regioni, province, comuni… Per raggiungere l’obiettivo dei 30 miliardi di tagli, i ministeri sarebbero chiamati a contribuire in modo proporzionale ai rispettivi budget. Ciascuno stabilirà poi come spalmare la sforbiciata tra i vari capitoli di spesa del proprio bilancio.

Una parte dei tagli, quelli relativi al 2012, dovrebbe essere anticipata nel decreto legge della spending review da varare entro fine giugno, mentre gli interventi sul 2013 e il 2014 dovrebbero arrivare insieme alla Legge di stabilità in autunno. Giusto per far rabbrividire, il bilancio di competenza 2012 dei ministeri, secondo una tabella elaborata dal servizio bilancio del Senato, ammonta in totale (funzionamento, interventi e spesa in conto capitale) a quasi 300 miliardi di euro.

Capitolo a parte, il buco nero sanità, che contribuirà alla spending review con un miliardo di euro di risparmi nel 2012. Con ogni probabilità gli interventi per reperire le risorse si concentreranno sull’acquisto di beni e servizi, che valgono annualmente circa 30 miliardi, il 30% del Fondo sanitario nazionale. Uno scandalo vero, visto che, senza scadere nel qualunquismo, si sa come vengono effettuati questi acquisti…

Vediamo se ce la faranno davvero. Finora abbiamo solo sentito chiacchiere e proclami sui tagli, sulla crescita non ne parliamo; il povero Passera si è sentito rispondere sempre e solo dei gran “no” dalla ragioneria generale dello Stato. La fiducia nostra comincia a venir meno. E la vostra?

La magia degli statali: meno impiegati, più spesa

di Davide PASSONI

La Pubblica amministrazione italiana non smette di riservarci prodigi che neanche il mago Otelma. In un periodo di vacche non magre, potremmo dire letteralmente morte di fame, scopriamo infatti che, oltre al braccio di ferro tra il ministro del Welfare Elsa Fornero – che cerca di equiparare nella riforma del lavoro i dipendenti pubblici a quelli privati – e il ministro della Funzione Pubblica Patroni Griffi – che cerca in ogni modo di tutelare i suoi pari mantenendone diritti e privilegi acquisiti – nella Pubblica amministrazione in 8 anni il numero degli impiegati è sceso di 110mila persone (pari a circa il 3% del totale) mentre la spesa per i loro stipendi è cresciuta di 40 miliardi.

Magia? No, matematica contabile, con dati estrapolati dall’ufficio studi della Cgia di Mestre e commentati dal segretario Giuseppe Bortolussi: “Tra il 2001 e il 2009 i dipendenti pubblici sono diminuiti di quasi 111.000 unità, pari ad una contrazione del 3%. Tuttavia, la spesa per le retribuzioni, in termini assoluti, è aumentata di 39,4 miliardi di euro (+29,9%). Al netto dell’inflazione, invece, la stessa è stata più contenuta: solo, si fa per dire, dell’8,3%, che corrisponde, in termini assoluti, a circa 13 miliardi di euro“. Mica male…

E siccome, come recita un antico adagio, il pesce puzza dalla testa, Bortolussi azzarda un’ipotesi su dove sia finita la maggior parte di questi miliardi: “Questi aumenti non sono finiti in tasca agli infermieri, ai bidelli o alle maestre elementari. E’ molto probabile che ad avvantaggiarsene economicamente siano stati i livelli dirigenziali medio alti del nostro pubblico impiego“.

L’ufficio studi ha poi confrontato il trend di spesa dei dipendenti pubblici italiani, con quelli francesi e tedeschi. In Italia ci sono 58,4 dipendenti ogni 1.000 abitanti, valore vicino a quello della Germania (55,4 ogni 1.000 abitanti, 4,5 milioni di dipendenti pubblici) e a quello francese (80,8 ogni 1.000 abitanti, 5,2 milioni di dipendenti pubblici). Ma, e qui arriva la gabola, la spesa per le retribuzioni del settore pubblico in Italia è continuata a crescere, sia in rapporto al Pil, sia in valori assoluti: tra il 2001 e il 2009 la spesa per il personale pubblico è passata dal 10,5% all’11,2% del Pil per un valore, nel 2009, di 171 miliardi.

Amara la conclusione di Bortolussi: “Se in Italia i costi per il pubblico impiego al netto dell’inflazione fossero cresciuti seguendo il trend tedesco (-6,2%), la spesa per tale voce nel 2009 sarebbe stata di 148,1 miliardi, anziché 171, vale a dire 22,9 miliardi in meno. Si tratta di una simulazione che presenta ovviamente dei limiti di comparazione tra le istituzioni pubbliche dei due Paesi, ma che rende bene l’idea di quanto si possa ancora migliorare in Italia in questo settore, nonostante i progressi effettuati finora non siano affatto trascurabili“.

Capito Patroni Griffi? Capito Giarda? Per tagliare spese e costi senza tagliare le persone non serve il mago Otelma, bastano buona volontà e voglia di farlo.

Dall’alto o dal basso, ora fuori i tagli veri

di Davide PASSONI

E adesso applaudono a scena aperta. Dopo aver sfiorato il ridicolo la scorsa settimana, quando in fase di presentazione della spending review e del commissario per l’acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione, Enrico Bondi, hanno chiesto aiuto ai cittadini per segnalare online gli sprechi e i cespiti da tagliare, i signori del governo snocciolano soddisfatti i dati dell’iniziativa digitale a una settimana dal suo lancio. Oltre 95mila segnalazioni, di cui più di 24mila solo nel weekend. Un messaggio ogni due secondi, dicono loro. Una mole di roba che ha obbligato a costituire un gruppo di lavoro all’interno dell’Ufficio stampa e del Portavoce di Palazzo Chigi per leggere tutti i messaggi e archiviarli in categorie. Dieci funzionari dieci, che hanno esaminato e catalogato il 20% del totale delle segnalazioni. Diciannovemila circa, 1900 a testa diciamo noi.

Bene. Infatti, dice la nota del governo, “la partecipazione degli italiani al progetto di revisione della spesa pubblica è stata particolarmente elevata e dalle numerose mail giunte vi è un sollecito al governo a intervenire in modo tempestivo per cancellare le inefficienze. A scrivere sono in prevalenza cittadini, e tra questi molti giovani, ma anche dipendenti delle pubbliche amministrazioni e liberi professionisti, ricercatori, professori universitari, oltre a imprenditori, associazioni di categoria, enti no-profit, think-tanks. Circa un sesto dei messaggi contiene il medesimo testo e, quindi, ciò lascia pensare a una campagna organizzata“.

Bene. E gli italiani, dove suggeriscono di intervenire in maniera più o meno pesante? Enti locali, auto blu, stipendi pubblici, risparmio energetico, consulenze, pensioni. Ma dai! Rispettiamo ciascuna delle 95mila segnalazioni e ciascuna delle persone che le hanno inviate, ma pensiamo davvero che la banda Monti non sapesse da sé dove, come e che cosa tagliare? Se proprio il premier e l’Esecutivo avessero voluto far sentire protagonista la gente, perché non spendere una parola di vicinanza a quanti sono in difficoltà per le troppe tasse, il poco lavoro, la pochissima speranza? Tutti fattori di cui sono responsabili loro in prima persona. Loro e i governi che li hanno preceduti.

Perché non dire subito quanto e che cosa avrebbero tagliato? Un tecnico come Giarda ci è dentro da anni in queste problematiche, sa che cosa non va e sa come raccontarlo al presidente del Consiglio perché prenda le misure necessarie. E invece no, facciamo i fighi, usiamo internet, muoviamo le cose “dal basso“, ascoltiamo ciò che dicono i nostri cittadini. E se poi scopriamo che sapevamo già tutto, che ci dicono solo cose già sentite? Beh, che c’è di strano, noi siamo i professori, no?

Ma intanto i cittadini e le imprese aspettano i tagli veri, non i proclami. Ma intanto i cittadini affondano i partiti e votano Grillo. “Dal basso“. E Monti pare non accorgersene, o meglio, si accorge che per il governo “non c’è più la sintonia con il Paese che c’era a inizio mandato. Dobbiamo recuperare“. Che sia già finita anche la Seconda Repubblica? Beh, se fosse così la crisi qualche effetto positivo lo avrebbe pure…