Concordato preventivo biennale esteso, cosa cambia

Tra le principali novità previste per i titolari di partita Iva, vi è la possibilità di accedere già a partire dal 2024 al concordato preventivo biennale, un vero e proprio accordo con il Fisco per la tassazione di due anni successivi.

Il concordato preventivo biennale in prima stesura

Il concordato preventivo biennale nasce con l’obiettivo di semplificare i rapporti con il Fisco attraverso una tassazione frutto di accordo e valida per due anni, in questo modo non è necessario presentare dichiarazioni e seguire adempimenti, inoltre si sa fin da subito quante tasse si pagheranno. Si tratta per il contribuente di una sorta di scommessa perché, se effettivamente c’è un maggiore guadagno rispetto all’anno preso come punto di riferimento, vi è un risparmio di imposta, ma se si guadagna di meno, vi è una perdita.

Nella prima formulazione disponibile, il concordato preventivo biennale prevede dei limiti, ovvero non possono accedervi i titolari di partita Iva che abbiano un punteggio ISA (Indici sintetici di affidabilità fiscale) inferiore a 8. Perché tale esclusione? Perché il Fisco parte dal presupposto che un contribuente che abbia un punteggio Isa inferiore a 8 non sia affidabile dal unto di vista fiscale e di conseguenza è bene applicare una tassazione analitica anno per anno anche con maggiori controlli.

Di fatto chi accede al concordato preventivo facendo un accordo che implica l’esclusione dalla tassazione sui redditi effettivi prodotti per i due anni, non è sottoposto a controllo sui redditi dichiarati.

Come cambia il concordato preventivo biennale

Partendo da tale riflessione è stata proposta l’estensione del concordato preventivo biennale anche ai contribuenti con un punteggio Isa inferiore a 8. Nonostante l’eliminazione del punteggio Isa come causa ostativa all’accesso, resta la valutazione da parte dell’Agenzia delle Entrate di tale parametro (ne deriva che nella proposta di tassazione l’AdE può prendere in considerazione l’affidabilità fiscale).

Queste non sono le uniche proposte formulate che potrebbero portare a modifiche al concordato preventivo biennale infatti è previsto anche il limite di aumento del reddito concordato fissato al 10% rispetto al reddito dell’anno di riferimento. Infine, sono previsti corsi di formazione professionale per professionisti a elevata specializzazione impegnati nel rilascio della certificazione del rischio fiscale le cui spese saranno a carico degli ordini professionali e della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.

Leggi anche: Concordato biennale e sanzioni fiscali dimezzate, le novità

Guadagni via web: nuovi controlli fiscali per chi guadagna con le piattaforme online

In attuazione della Direttiva Dac7 , direttiva (Ue) 2021/514 del Consiglio del 22 marzo 2021 è stato firmato dal Presidente della Repubblica il decreto legislativo del 1° marzo 2023 che sarà presto pubblicato in Gazzetta Ufficiale. L’obiettivo principale del decreto è intercettare tutte le entrate provenienti dal web e che spesso sfuggono alla tassazione. I guadagni via web ora non potranno più essere nascosti.

Guadagni via Web, controlli incrociati in Unione Europea

Il web ha cambiato l’economia globale, ma spesso sfugge ai tentativi di tassazione, il problema è diventato rilevante al punto di essere oggetto di norme europee. La Dac7 stabilisce che le piattaforme online saranno obbligate a comunicare nel Paese Membro dell’Unione Europea in cui hanno la residenza tutti i guadagni online degli utenti.  Sarà poi il Paese in cui sono stati comunicati i guadagni online ad avvisare le autorità tributarie del Paese di residenza delle operazioni compiute dai vari utenti.

Ad esempio una piattaforma con sede in Francia comunicherà le operazioni compiute alle autorità fiscali francesi, questo analizzerà i dati e in base alla residenza invierà la comunicazione al fisco del Paese in cui gli utenti sono ubicati. Questo incrocerà i dati con quelli dichiarato dallo stesso contribuente in Italia e in caso di mancata concordanza potrà avviare un accertamento fiscale.

In base alla normativa la prima comunicazione dovrà essere effettuata entro il 31 gennaio 2024 per i redditi del 2023. L’obbligo sussiste anche se in Italia il decreto ancora non è entrato formalmente in vigore, questo perché siamo in ritardo rispetto ai termini dettati dall’Unione Europea.

Guadagni via web: tutti i dati da comunicare

In base ai calcoli della Commissione UE questa norma dovrebbe portate nel territorio dell’Unione Europea un maggiore gettito pari a circa 30 miliardi di euro. Tra gli utili che con questo metodo potrebbero essere tassati vi sono quelli generati attraverso le affiliazioni Amazon. I dati da comunicare riguardano le operazioni di vendita beni, ad esempio affiliazione Amazon, ma anche quelli relativi alla locazione di immobili, noleggio di beni, servizi personali e qualunque attività generi comunque compensi attraverso l’uso di piattaforme online.

Le informazioni sono divise per due categorie di utenti, la prima riguarda tutti coloro che compiono operazioni attraverso le piattaforme. In questo caso le piattaforme per le varie operazioni dovranno chiedere i dati fiscali, se le operazioni sono compiute da un’impresa occorre ragione sociale, partita Iva, indirizzo dell’attività. Nel caso in cui le operazioni di scambio siano effettuate da un privato è necessario raccogliere, nome cognome, indirizzo, data di nascita, codice fiscale, insomma tutti i dati utili ad individuare correttamente il soggetto che attraverso la piattaforma genera ricavi.

La seconda categoria di dati riguarda i venditori qualificati, cioè coloro che nell’arco dell’anno compiono 30 operazioni e hanno scambi per valori da 2000 euro. In questo caso è necessario identificare anche il conto finanziario attraverso il quale si opera. Le comunicazioni devono essere trimestrali e avere ad oggetto anche l’ammontare di commissioni, diritti e imposte versati ed eventualmente trattenuti.

Nel caso in cui un utente non fornisca alla piattaforma i dati necessari ad adempiere all’obbligo di comunicazione, la piattaforma dovrà impedire al soggetto di operare.

Leggi anche: Influencer: in quali casi è obbligatorio aprire la partita Iva?

Deduzione Irpef per la previdenza complementare, vantaggi e limiti

Continuiamo la disamina degli strumenti che possono consentire un risparmio sull’Irpef parlando delle deduzioni per i versamenti in favore della previdenza complementare.

Previdenza complementare: perché viene agevolato l’accesso ad essa?

Le varie riforme del sistema pensionistico adottate dall’Italia hanno portato nel tempo a una vistosa riduzione dell’assegno di pensione che si può maturare. Proprio per questo il legislatore auspica un sempre più frequente uso della previdenza complementare in modo da integrare l’assegno pensionistico maturato e mantenere l’autosufficienza economica anche dopo aver cessato il lavoro. Tra i sistemi adottati per incentivare il ricorso a forme di previdenza complementare vi sono le deduzioni Irpef.

L’articolo 10 comma 1 lettera e-bis del TUIR stabilisce che sono deducibili ai fini Irpef gli importi versati alle forme pensionistiche complementari. Ricordiamo che la deduzione agisce sulla base imponibile. Sono quindi determinati prima i redditi imponibili, poi alla loro somma sono sottratti gli oneri deducibili. Si ottiene quindi la nuova base imponibile su cui viene calcolata l’imposta. Di conseguenza è come se tali somme non fossero entrate nella disponibilità del contribuente.

Quali sono i fondi complementari che consentono di avere la deduzione Irpef?

In primo luogo è bene chiarire quali sono i fondi complementari che possono accedere alla deduzione. Si tratta di:

  • Fondi pensione negoziali anche denominati fondi chiusi ( si può aderire entro un lasso di tempo):
  • fondi pensione aperti ( si può aderire in qualunque momento):
  • contratti di assicurazione sulla vita con finalità previdenziali.

I fondi previdenziali che danno luogo all’agevolazione fiscale possono essere individuali, quindi stipulati dal singolo soggetto, oppure collettivi, ad esempio quelli organizzati per una categoria di lavoratori ( metalmeccanici) a cui i singoli lavoratori possono aderire o meno.

Chi può aderire a forme di previdenza complementare?

Possono aderire alle forme di previdenza complementare i lavoratori dipendenti del settore pubblico e privato. Inoltre possono accedere anche i lavoratori con contratto:

  • di somministrazione;
  • intermittente;
  • ripartito;
  • part time;
  • apprendistato;
  • occasionale;
  • lavoratori a progetto;
  • infine, possono aderire i soci lavoratori di cooperative.

Le forme pensionistiche complementari prevedono la costruzione di una pensione ulteriore rispetto a quella maturata con i contributi versati, attraverso dei versamenti volontari. Al momento dell’accesso al fondo viene aperta una posizione alimentata dai fondi versati e dagli interessi che derivano dagli investimenti eseguiti dal gestore dei fondi. I lavoratori possono alimentare il fondo anche attraverso la devoluzione al fondo stesso del TFR maturato. Non è obbligatorio versare il TFR nel fondo di previdenza complementare, ma se lo si fa, lo stesso non contribuisce a raggiungere la soglia massiam di deduzione che a breve vedremo.

In base alla normativa i lavoratori sono liberi di versare le somme che desiderano in tali fondi. Nel caso in cui aderiscano a fondi collettivi, ad esempio quelli di categoria, i contratti e gli accordi collettivi possono stabilire una contribuzione minima all’alimentazione del fondo. La misura minima può essere fissa oppure può variare in base alla categoria dei lavoratori.

Misura della deduzione Irpef per fondi di previdenza complementare

E’ possibile dedurre dall’imponibile i contributi versati nei fondi pensione che abbiamo visto in misura massima di 5.164,57 euro, quindi è possibile ridurre la base imponibile del relativo importo.

I versamenti superiori contribuiscono ad alimentare il fondo pensione, possono dar luogo a rendimenti maggiori ma non possono essere portati in deduzione al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi e quindi non contribuiscono a ridurre l’Irpef.

Le regole sulla deduzione Irpef per i fondi di previdenza complementare sono in parte diverse per i lavoratori del settore pubblico, infatti per loro la misura massima della quale è possibile avvalersi del vantaggio fiscale è riconosciuta nel minore importo tra il 12% della retribuzione e 5.164,57 euro.

Il risparmio che si può ottenere dipende da diversi fattori, tra cui lo scaglione Irpef nel quale si rientra e gli importi che sono versati al fondo di previdenza complementare. Maggiore è l’aliquota applicata e maggiore è il risparmio di imposta che si può ottenere. Naturalmente nel caso in cui un soggetto sia incapiente e quindi non debba versare l’Irpef, ad esempio se si colloca nella No Tax Area identificata in 8.500 euro, oppure possa far valere altre deduzione e altre detrazioni che vanno ad azzerare gli importi dovuti, il risparmio non matura. In ogni caso avere una forma di previdenza complementare aiuta ad avere un importo pensionistico mensile futuro maggiore.

Altri vantaggi fiscali dell’adesione a un fondo di previdenza complementare

A questo punto è bene ricordare che i vantaggi fiscali derivanti dall’adesione a una forma di previdenza complementare non finiscono qui. La quota di rendita pensionistica, o di capitale, che deriva dai contributi non dedotti fiscalmente è esente dalle imposte. Per poter accedere a tale diritto il contribuente entro il 31 dicembre di ogni anno successivo rispetto a quello in cui ha maturato il beneficio deve comunicare alla forma pensionistica le quote di versamenti per i quali non accede ai benefici fiscali. Ad esempio, per i versamenti dell’anno 2021, entro il 31 dicembre 2022 deve comunicare al gestore del fondo le quote dei versamenti per i quali non ha usufruito delle deduzioni.

Deve essere, infine, sottolineato un ultimo aspetto: è possibile portare in deduzione anche i versamenti alle forme di previdenza complementare effettuati in favore di un proprio familiare fiscalmente a carico. Ad esempio se il coniuge nell’arco dell’anno matura redditi bassi che quindi lo portano ad essere a carico dell’altro coniuge, lo stesso può dedurre versamenti ai fondi pensione dedicati al coniuge con reddito basso.

Ultime informazioni

I contributi versati alle forme di previdenza complementare devono essere indicati nella dichiarazione 730 nel quadro RP.

I rendimenti dei fondi pensione sono però tassati, ma godono di una tassazione agevolata. I rendimenti sono gli incrementi di valore determinati dagli investimenti effettuati dal gestore del fondo. Gli stessi sono tassati al 20% , a differenza dell’aliquota solitamente applicata per i rendimenti finanziari che solitamente è al 26%. Nel caso in cui il fondo preveda investimenti in titoli di Stato, i rendimenti da questi generati sono tassati al 12,5%.

Per maggiore comodità inseriamo gli approfondimenti sulle altre deduzioni e detrazioni che si possono  fare valere in sede di dichiarazione dei redditi.

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Come sono tassati i premi e le vincite, dalle lotterie ai giochi di abilità

In Italia, sui premi e sulle vincite, nella generalità dei casi, occorre pagare le tasse. Precisamente, a titolo di imposta, una ritenuta alla fonte con le aliquote che possono variare in ragione della tipologia di gioco o di premio corrisposto.

Vediamo allora, nel dettaglio, come sono tassati in Italia i premi e le vincite, dalle lotterie ai giochi di abilità. Ed anche quali sono i casi in corrispondenza dei quali, invece, la ritenuta non è prevista in quanto è già compresa nel prelievo operato dallo Stato italiano.

Dalle lotterie ai giochi di abilità, ecco come sono tassati in Italia i premi e le vincite

Nel dettaglio, l’aliquota applicata per la ritenuta sui premi e sulle vincite varia in base alla tipologia. Questa, in particolare, è pari al 25% nella generalità dei casi, ma può scendere al 20%. E questo quando i premi assegnati per i giochi sono riconducibili a manifestazioni, a competizioni sportive ed a spettacoli radio-televisivi. Ma a patto che i potenziali vincitori dei premi, ovverosia i concorrenti, si sottopongano a prove che siano basate sulla casualità, sull’abilità o su entrambe.

La ritenuta, dal 25% al 20%, scende invece al 10% quando i premi sono riconducibili, a favore di enti e comitati di beneficenza, a lotterie, a tombole, a pesche ed a banchi di beneficenza autorizzati. Così come si legge inoltre sul sito Internet dell’Agenzia delle Entrate, c’è un’altra aliquota, che è pari al 6% di ritenuta, e che riguarda alcuni premi e lotterie che, quando la vincita supera la soglia dei 500 euro, è soggetta a questo prelievo addizionale.

Quando la ritenuta sulle vincite e sui premi non è prevista, oppure è già compresa in altre imposte

Su come sono tassati i premi e le vincite, inoltre, c’è anche da dire che ci sono casi in corrispondenza dei quali la ritenuta non è prevista. In quanto magari questa è compresa in altre imposte. Per esempio, per le vincite pagate dalle case da gioco autorizzate la ritenuta non è prevista. In quanto questa risulta essere compresa nell’imposta sugli spettacoli.

Nessuna ritenuta è prevista pure per le vincite legate ai giochi di abilità ed a concorso dell’Unione nazionale incremento razze equine e del Comitato olimpico nazionale italiano. E questo perché, nella fattispecie, la ritenuta è compresa nell’imposta unica prevista dalle leggi vigenti. Così come non è applicata la ritenuta sui premi e sulle vincite dei giochi di Stato. Ovverosia, il lotto, i giochi di abilità, i concorsi a pronostico e le lotterie nazionali.

Buoni fruttiferi postali: decisione sulla class action rimandata

Slitta ancora la decisione sull’ammissibilità della Class Action proposta da Federconsumatori contro Poste Italiane per le liquidazioni più basse rispetto alle aspettative dei Buoni Fruttiferi Postali della serie Q.

Class Action: decisione rimandata, occorre integrare il contraddittorio con Poste Italiane e Cassa Depositi e Prestiti

Oggetto della controversia sono i rendimenti e la tassazione calcolati sui buoni fruttiferi postali emessi tra il 1° luglio 1986 ed il 31 ottobre 1995 . Come già annunciato in un precedente articolo l’udienza che avrebbe dovuto decidere sull’ammissibilità dell’azione era stata fissata per l’8 novembre 2021.

La stessa si è tenuta ma il giudice ha chiesto maggiore tempo per decidere in quanto è opportuno preliminarmente valutare se debbano essere coinvolti  Cassa Depositi e Prestiti e il Ministero dell’Economia e delle Finanze perché entrambi hanno emesso dei titoli. Federconsumatori non appoggia tale tesi perché ritiene che la stessa porti esclusivamente ad allungare i tempi. L’altro nodo da sciogliere è se effettivamente sia ammissibile la Class Action contro Poste Italiane, quest’ultima ritiene che non si possa utilizzare tale procedura in quanto i fatti si riferiscono a un periodo in cui nel nostro ordinamento ancora non era prevista tale tipologia di azione giudiziaria.

Nel frattempo cresce il numero di coloro che hanno deciso di sostenere tale azione e di aderire alla stessa. Le pre-adesioni registrate da Federconsumatori superano le 4.000 unità anche se l’associazione sottolinea che i soggetti interessati potrebbero essere molti di più considerando l’emissione di circa 250.000 titoli.

Al momento non si conosce la data della nuova udienza per l’ammissibilità della Class Action, rimandiamo agli approfondimenti già scritti per coloro che sono in cerca di informazioni, mentre cercheremo di aggiornare nel più breve tempo possibile appena sarà nota la decisione.

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Cosa sono le convenzioni contro le doppie imposizioni fiscali

Per evitare sui redditi e sui patrimoni la doppia imposizione fiscale in Italia e all’estero, l’Agenzia delle Entrate ha siglato delle apposite convenzioni con tanti Paesi. Si tratta, nello specifico, di Paesi esteri che sono comunitari e non. Con la convenzione che permette, nello specifico, di andare a disciplinare e quindi a ripartire quello che deve essere il potere impositivo tra i due Stati contraenti. Vediamo allora cosa sono queste convenzioni contro le doppie imposizioni fiscali applicate dall’Agenzia delle Entrate con i Paesi esteri. E quando inoltre queste convenzioni sono applicabili, e quando invece no.

Ecco cosa sono le convenzioni contro le doppie imposizioni fiscali e come evitarle

Per i contribuenti che sono residenti all’estero, in data 10 luglio del 2013, il Direttore dell’Agenzia delle entrate ha approvato appositi modelli finalizzati ad evitare la doppia imposizione fiscale. Precisamente, al fine di ottenere il rimborso dell’imposta italiana. Oppure per ottenere quando è previsto l’esonero dall’imposta italiana.

Oppure ancora per beneficiare dell’applicazione diretta della ritenuta convenzionale. L’Agenzia delle Entrate, attraverso il proprio sito Internet, precisa inoltre, ed in ogni caso, che i modelli approvati non sono stati concordati con le altre autorità fiscali estere. Ragion per cui risultano essere, in tutto e per tutto, il frutto di un’iniziativa unilaterale da parte dell’Italia.

Per i soggetti che sono residenti in Italia, invece, cambia radicalmente la procedura per evitare la doppia imposizione fiscale Italia-Paese estero. In tal caso, infatti, il contribuente deve presentare apposita istanza eventualmente predisposta su modello messo a disposizione dall’autorità fiscale estera. Solo in questo modo il soggetto residente in Italia potrà infatti ottenere il rimborso dell’imposta estera. Oppure l’applicazione di aliquote che sono ridotte e che sono previste con lo Stato estero dal trattato fiscale in vigore.

Dove si trovano i modelli di domanda per evitare la doppia imposizione fiscale

Al fine di evitare la doppia imposizione fiscale, i modelli di domanda per il rimborso sono visionabili e sono scaricabili dal sito Internet dell’Agenzia delle Entrate. E sono stati approvati proprio con il sopra citato provvedimento del Direttore del Fisco riportante la data del 10 luglio del 2013.

In particolare, i modelli sono stati approvati in forza non solo alle convenzioni stipulate contro le doppie imposizioni sui redditi. Ma anche in ottemperanza delle direttive comunitarie del 23 luglio del 1990 e del 3 giugno del 2003. Direttive che sono note, rispettivamente, come direttiva ‘madre-figlia’ e come direttiva ‘interessi e canoni’.

In calce ai modelli approvati dall’Agenzia delle Entrate, inoltre, c’è pure quello di attestazione di residenza fiscale in uno Stato estero. Ma in certi casi può essere l’autorità fiscale del Paese di residenza del beneficiario del reddito che può andare a rilasciare tale attestato. Ed in tal caso il tutto avviene attraverso una diversa modulistica che, ai fini del rimborso, dovrà essere in ogni caso allegata all’istanza che è finalizzata ad evitare la doppia imposizione fiscale.

Tassazione nel Multi Level Marketing: come si applica alle commissioni

Il Multi Level Marketing è una forma di vendita sempre più scelta dalle aziende anche perché è un sistema che fondamentalmente si auto-alimenta e di conseguenza assicura buoni margini di guadagno a chi sta in vetta al sistema. Ciò che molti sottovalutano sono gli obblighi fiscali, in questo caso ci occupiamo della tassazione del Multi Level Marketing.

Le entrate nel Multi Level Marketing

Il Multi Level Marketing, anche chiamato Network Marketing, è un sistema di vendita diretto, dove coloro che vendono prodotti sono a loro volta procacciatori di ulteriori venditori. Nella maggior parte dei casi vendono prodotti ai vari clienti e gli propongono di diventare a loro volta venditori e in cambio di un servizio di tutoraggio hanno una percentuale di guadagno anche sui prodotti venduti dai loro “affiliati”. Si crea quindi un sistema in cui i guadagni arrivano da due fonti: da un lato ci sono i guadagni sulle proprie vendite e dall’altro i guadagni sulle vendite degli affiliati che a loro volta possono trovare ulteriori affiliati e trattenere da questi una percentuale. Da questa descrizione si nota bene che in azienda si creano diversi livelli di venditori che creano una catena sempre più ampia alla base.

Chiamare il Multi Level Marketing con il nome Network Marketing è un gioco di parole perché allontana l’immagine della piramide e fa immaginare una rete di pari livello, ma in realtà i guadagni diminuiscono man mano e quindi il livello non è pari, infatti ci sono anche sistemi premiali per salire di livello. I guadagni del Multi Level Marketing sono solitamente definiti “commissioni” e il ricevente deve emettere una ricevuta in favore dell’azienda per poterli riscuotere.

Ricordiamo che se i guadagni arrivano esclusivamente o prevalentemente dal cercare nuovi affiliati ci si trova di fronte a un sistema piramidale vietato per legge.

Per brevità rimandiamo alla guida: Multi Level Marketing e sistemi piramidali: differenze e divieti

Tassazione nel Multi Level Marketing

Ora ci occupiamo invece della tassazione del Multi Level Marketing. Si è visto che in Italia quando si produce un reddito è necessario che lo stesso sia tassato, tranne nel caso in cui i livelli di reddito siano di entità tale da non subire imposizione fiscale.

Solitamente nel Multi Level Marketing per entrare nel sistema vi è comunque l’obbligo di acquistare dei kit o dei prodotti. Questa premessa è importante perché in molti casi una parte dei guadagni viene consumata proprio da tali acquisti e si tratta spesso di prodotti costosi. Capita soprattutto con i cosmetici e i prodotti dimagranti, cioè ogni mese vi è un minimo di acquisto da fare per poter continuare ad essere parte del sistema di vendite, questa tecnica viene spacciata come un modo per essere dei testimonial affidabili, oppure si dice al consumatore che lamenta i costi eccessivi, che in fondo permetterseli è semplice, infatti basta a propria volta vendere. Il risultato è uno stuolo di consumatori. Inoltre allargando la sfera di venditori tra i conoscenti, si perdono potenziali clienti.

La disciplina fiscale applicata in Italia è quella del sistema porta a porta definita dall’art. 3 della Legge n. 173/2005, il quale distingue tra attività:

  • occasionale se l’incasso netto non supera i 5000 euro annuali (articolo 3 comma 4);
  • professionale: superato il limite in precedenza visto vi è l’obbligo di partita IVA con codice ATECO 46.19.02 come Procacciatori di affari di vari prodotti senza prevalenza di alcuno , quindi si applicano le varie imposte previste per le imprese organizzate nelle sue varie forme e di dichiarazione IVA. I venditori porta a porta possono accedere al sistema forfettario che prevede una tassazione agevolata.

Aliquote applicate alla tassazione nel Multi Level Marketing

Per quanto riguarda la tassazione applicata dai sostituti di imposta, il regime previsto per le vendite è del 23% su una base imponibile del 78%. Se il venditore ha altri redditi, visti che questi sono già tassati alla fonte, non deve cumulare i redditi ai fini della dichiarazione dei redditi.

Questa è la disciplina prevista per il caso in cui la società che fornisce i prodotti abbia sede in Italia, nel caso in cui la stessa abbia invece residenza all’estero, l’azienda non funge da sostituto d’imposta. Da ciò deriva che gli importi devono essere indicati nella dichiarazione dei redditi annuali e quindi viene successivamente tassata facendo riferimento al totale delle entrate e alle aliquote normalmente applicate nel sistema fiscale italiano. Questa precisazione è importante perché in realtà spesso le società che operano nel Multi Level Marketing non hanno sede in Italia.

Coloro che operano nel settore del Multi Level Marketing hanno l’obbligo di iscriversi alla Gestione Separata INPS e quindi di versare i contributi previdenziali e assistenziali determinati in percentuale sui guadagni dichiarati. Tali contributi devono essere versati per 2/3 da parte dell’azienda e per 1/3 da parte del venditore.

Divisione utili società: quante tasse si pagano e come

Essere parte di un’attività esercitata in forma societaria porta spesso delle entrate, anzi questo può essere definito l’obiettivo principale della stessa attività: si parla anche di dividendi o divisione di utili della società.  Nella guida di seguito proposta ci addentreremo su un tema spinoso e in particolare sulla divisione degli utili e sulla loro tassazione, cioè su quante tasse si pagano e come.

Divisione utili società

La prima cosa da dire è che la distribuzione degli utili nelle società non sempre è possibile, vi sono infatti dei vincoli, ad esempio l’articolo 2430 del Codice Civile stabilisce l’obbligo di accantonare il 5% degli utili netti annuali al fine di costituire una riserva legale fino al raggiungimento del 20% del capitale sociale. Lo statuto della società può costituire ulteriori vincoli alla divisione degli utili e se previsti devono essere rispettati, tranne nel caso in cui si provveda a una modifica dello statuto, si tratta infatti di un atto vincolante. 

Quello ora visto può essere considerato un limite, ma esistono anche dei divieti, ad esempio nel caso in cui ci siano perdite relative agli esercizi precedenti e ci siano in circolo obbligazioni il cui ammontare è superiore al doppio del capitale sociale. Si tratta evidentemente di una norma che vuole tutelare i creditori della società stessa, cioè gli obbligazionisti. In ogni caso prima di procedere alla divisione degli utili è necessario che sia approvato il bilancio di esercizio che siano accantonate le somme previste per legge e rispettati i vincoli, solo in seguito si può approvare la delibera di distribuzione di utili ai soci che deve essere a sua volta registrata con assolvimento dell’imposta fissa di 200 euro.

Rircordiamo che un’eventuale distribuzione di utili ai soci senza seguire vincoli, limiti e procedure è reato, si parla anche di Distribuzione in nero di utili ai soci, scopri cosa si rischia.

A questo punto si può avere la distribuzione degli utili, ma quante tasse si pagano e come?

Società di capitali: quante tasse si pagano?

La tassazione degli utili societari solitamente viene applicata con il criterio di cassa, ciò con riferimento all’anno in cui l’utile viene incassato e non facendo riferimento all’anno in cui lo stesso viene prodotto (criterio di competenza). Applicando il criterio di competenza gli utili dovrebbero essere tassati al momento in cui sono iscritti nel bilancio di esercizio, ma in realtà la distribuzione può avvenire anche successivamente. Le società di capitali sono SRL, SPA, SE (Società Europea), SAPA (Società in Accomandita per Azioni) ed SRLS (Società a Responsabilità Limitata Semplificata). Per queste forme societarie è prevista la qualificazione degli utili societari come reddito di capitale e di conseguenza si applicano gli articoli 44 e 45 del TUIR (Testo Unico Imposte sul Reddito).

I dividendi corrisposti ai soci devono essere certificati con il modello CUPE Certificazione Utili e altri Poventi Equiparati.

Come si applica la tassazione

A questo proposito occorre però ricordare che la legge Bilancio 2018 (legge 205 del 2017) ha previsto delle novità sulla tassazione delle entrate derivanti dalla distribuzione degli utili societari.

  1. La prima cosa da sottolineare è che la normativa, per i soci che non agiscono in qualità di imprenditori, quindi non sono titolari di partita IVA, ha parificato il trattamento fiscale per le partecipazioni qualificate e non qualificate. Per partecipazioni qualificate in società di capitali si intendono quelle che inglobano più del 20% dei diritti di voto in assemblea o più del 25% del patrimonio/capitale. Nelle società quotate le partecipazioni qualificate sono al 5% del patrimonio o 2% dei diritti di voto in assemblea ordinaria. Le aliquote applicate sono al 26%. La ritenuta viene applicata alla fonte e quindi in dichiarazione dei redditi non si deve dichiarare altro. Essa deve essere versata dalla società entro il 16 del mese successivo rispetto al trimestre in cui si attua la divisione degli utili.
  2. Diverso però è il caso in cui il socio sia un titolare di partita IVA, in questo caso infatti è diversa la base imponibile pari al pari al 58,14% e su tale base saranno applicate le aliquote ordinarie IRPEF, quindi il soggetto della dichiarazione dei redditi, insieme ad eventuali altre entrate, dovrà dichiarare anche i proventi della divisione degli utili e il tutto sarà tassato secondo le ordinarie regole.
  3. Se il percettore di utili è a sua volta un’altra società, quindi una società che partecipa ad un altra società, la tassazione è diversa e in particolare la base imponibile è al 5%, l’esenzione è invece totale nel caso in cui la società partecipante abbia optato per il regime in Trasparenza.

La legge di bilancio 2018 ha previsto però un regime transitorio, questo si applica agli utili prodotti fino al 31 dicembre 2017 e distribuiti entro il 31 dicembre 2022, limitatamente a questi continua ad applicarsi la vecchia disciplina sulla tassazione degli utili distribuiti dalle società.

Società di Persone: quante tasse si pagano?

Diverso è il caso delle società di persone come la Società Semplice, la SNC (Società in nome collettivo) e la SAS (Società in Accomandita Semplice). In questo caso gli utili divisi sono tassati per trasparenza in campo al socio percipiente art. 32-quater del D.L. n. 124/19, quindi applicando gli stessi scaglioni previsti per l’IRPEF, questo perché i soci in tali strutture societarie sono illimitatamente responsabili per i debiti assunti dalla società e non vi è distinzione tra il patrimonio della società e quello del socio.

Vedremo in seguito cosa succede nel caso in cui i redditi societari arrivano da società che sono ubicate in paradisi fiscali.

Tassa auto aziendale, come funziona?

Cambiano le tasse sull’auto aziendale dal 2021. L’intenzione è di penalizzare l’uso dei veicoli più inquinanti per incentivare l’utilizzo di vetture a bassa emissione di anidride carbonica. Ma è tempo di scoprire qual è la nuova tassazione sulle auto aziendali e come viene effettuato il calcolo dell’importo del fringe benefit. Inoltre, a chi spetta il pagamento e se l’aumento è retroattivo.

Auto aziendale: come funziona la tassazione

Il calcolo del fringe benefit delle auto aziendali concesse al dipendente ad uso promiscuo subisce alcune variazioni. Fino ad ora, questi veniva effettuato indipendentemente dalla tipologia del veicolo, ed era pari al 30% sulla base delle tabelle ACI che indicano il costo chilometrico. Adesso, la legge prevede che quel 30% si abbassi al 25%, ma solo per le auto a bassa emissione di CO2.

Per quanto concerne le auto più inquinanti, il fringe benefit aumenta al 50% e fino al 60%. Decisamente una brutta notizia per il dipendente che fruisce dell’auto aziendale ad uso promiscuo, costretto a pagare più tasse.

Tuttavia, si deve tenere conto che la nuova tassazione riguarda solo le auto aziendali di nuova immatricolazione e assegnate al dipendente tramite un contratto sottoscritto dal 1° luglio 2020. Quindi, la legge applicata non ha efficacia retroattiva e il fringe benefit auto aziendale non viene calcolato in base alle relative emissioni di anidride carbonica.

L’importo della tassa

La tassa sull’auto aziendale trattenuta nella busta paga del dipendente, si calcola sul fringe benefit, cioè, il valore percentuale da attribuire all’utilizzo personale che il lavoratore fa del veicolo aziendale. Fino ad ora, il valore era stabilito nella misura del 30%, ma non a caso. Infatti, si tratta di una percentuale forfettaria ricavata dalla presunzione che l’auto aziendale ad uso promiscuo è utilizzata dal dipendente a fini privati, due giorni alla settimana, mentre gli altri cinque sono dedicati ad un utilizzo con finalità professionali.

Il fringe benefit, non è altro che l’uso personale che il dipendente fa dell’auto aziendale. In quanto tale, questo tipo di utilizzo viene tassato. Ribadiamo che con la nuova legge il famoso 30% non è più fisso, in quanto la percentuale varia a seconda del livello di emissione di CO2 dell’auto. E’ bene sottolineare che ai fini della deducibilità aziendale, l’applicazione della nuova tassazione non incide.

Il calcolo del fringe benefit

Una volta stabilito che la nuova tassa sull’auto aziendale concessa al dipendente ad uso promiscuo, vale esclusivamente per i contratti stipulati a partire dal 1° luglio 2020, la soglia del fringe benefit soggetta a tassazione prende in considerazione una percorrenza media annuale di 15.000 chilometri. Detto che la nuova tassazione penalizza le auto aziendali più inquinanti e premia quelle che lo sono meno, diamo uno sguardo alle percentuali da tassare di fringe benefit:

  • 25% per le auto con emissioni di CO2 inferiori a 60 g/km;
  • 30% per le auto con emissioni di CO2 comprese tra 60 e 160 g/km;
  • 40% per le auto con emissioni di CO2 comprese tra 160 e 190 g/km;
  • 50% per le auto con emissioni di CO2 superiori a 190 g/km.

Tuttavia, a partire dal 2021 la percentuale aumenta ulteriormente per le auto più inquinanti. Infatti, se per le prime due fasce essa non subisce variazioni, per le auto con emissioni di anidride carbonica comprese tra 160 e 190 g/km, la percentuale passa dal 40% al 50%. Per le auto con emissioni di anidride carbonica superiore a 190 g/km, la percentuale passa dal 50% al 60%.

Riassumendo

La nuova tassazione del fringe benefit auto aziendale che si basa sul suo livello di inquinamento, grava sulla retribuzione netta del dipendente nel caso di utilizzo di un veicolo con maggiori emissioni di CO2. E’ importante sottolineare che esiste una soglia di esenzione alla tassazione IRPEF applicata al fringe benefit, la quale scatta se il valore del bene concesso al dipendente non supera i 258,23 euro.

La nuova legge non ha effetto retroattivo, quindi, non cambia la tassazione per i contratti di concessione auto aziendale firmati entro il 30 giugno 2020, che resta pari al 30% per tutti i tipi di veicoli. Nessun cambiamento anche per le percentuali di deducibilità dei costi sostenuti dall’azienda per le auto aziendali concesse ai dipendenti, invariata al 70%.

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Tassazione e sgravi: alcuni effetti fiscali della legge di stabilità 2015

La legge di stabilità 2015, approvata due giorni prima di Natale, ha portato alcuni “regali” dal punto di vista della tassazione.

Innanzitutto aumenta la tassazione sulla previdenza in generale: sui rendimenti dei fondi pensione, che passa dal 11,50% al 20%, sulla rivalutazione del TFR, dal 11% al 17%, sui rendimenti finanziari delle casse di Previdenza, dal 20% al 26%, sulle polizze vita che passano da 0% a 26%.

Secondo molte sentenze dei tribunali italiani e della Corte di Cassazione, le polizze vita sono strumenti assimilabili ai prodotti previdenziali quando hanno due caratteristiche: sono collegati ad un evento inerente la vita umana e prevedono un premio di maggiorazione per decesso all’età dell’assicurato. In pratica assumono la funzione di integrazione del reddito dei superstiti, beneficiari della polizza.

La tassazione dei rendimenti di tali polizze era pari a zero, nei confronti dei beneficiari, mentre con la nuova legge sono ora tassati ordinariamente al 26% con in più un effetto retroattivo ai rendimenti del 2014.

Rimangono, per il momento, escluse dall’asse ereditario e quindi esenti da imposte di successione o donazione, ma non credo che questo vantaggio rimanga ancora per molto tempo, considerando la media europea in tema di imposte di successione molto più elevata rispetto all’Italia e l’assenza o la scarsa presenza in Europa di esclusioni e franchigie. Ricordo che da noi la franchigia è di 1 milione di euro per erede.

Anche l’aumento della tassazione sui fondi pensione li rende meno appetibili e convenienti per i pensionandi. Considerando anche la scarsa trasparenza sulle gestioni dei medesimi e i rendimenti non esattamente brillanti, viene da pensare se esistono alternative per costruire un reddito supplementare da utilizzare al momento della pensione.

Stesso discorso vale per il TFR: aumentata la tassazione sulla rivalutazione, investire il proprio TFR in strumenti a carattere previdenziale, rimane un investimento utile ad integrare la pensione? Con la nuova legge viene data la possibilità ai lavoratori del settore privato (escluso quello agricolo e domestico) di incassare quanto versato e inoltre di ricevere in busta paga l’importo che l’azienda dovrebbe accantonare. Se queste somme venissero impiegate cum grano salis ed investite correttamente, potrebbero generare risultati integrativi della pensione molto più soddisfacenti rispetto ai tradizionali strumenti previdenziali, seppur appesantite dalla tassazione che in questo caso diverrebbe ordinaria e non più agevolata (ma sempre meno).

Lo Stato sicuramente ci guadagna, perché la tassazione è più elevata, ma forse anche il lavoratore può trarne dei vantaggi, se non fiscali, almeno per quanto riguarda libertà di utilizzo di quanto versato e rendimenti generati nel tempo. Chi aderisce alla previdenza complementare o versa il TFR alla medesima, è vincolato alle regole in materia pensionistica; difficoltà ad ottenere quanto versato se non per casi eccezionali, conversione in rendita almeno del 50% del versato (non viene restituito tutto il capitale a scadenza), e tabelle di conversione in rendita applicate dalle compagnie assicuratrici o dai fondi pensione, che pareggiano la rendita annuale con quanto versato mediamente dopo 18 anni (65+18=83 anni). Se il pensionato vive oltre, inizia a guadagnare qualcosa. Altrimenti, ci guadagna la compagnia o il fondo.

Una buona notizia: è invece aumentato a 30.000,00 euro l’importo massimo per la deducibilità ai fini IRES delle erogazioni liberali in denaro (effettuate in maniera tracciabile) in favore delle Organizzazioni No Profit di Utilità Sociale, aumentando al 26% la percentuale di detraibilità ai fini IRPEF.

Ma c’è il rovescio della medaglia, che è la nuova tassazione degli enti non commerciali, di cui fanno parte appunto gli enti No Profit, le fondazioni, le organizzazioni di volontariato e i trust. In precedenza questi enti avevano una esenzione di imposta del 95%, pagavano quindi le imposte solo sul 5% degli utili distribuiti. Ora invece l’esenzione è ridotta al 22,76% e pagheranno quindi sul 77,24% degli utili. Retroattiva anche questa, a partire dal primo gennaio 2014. In pratica, se prima pagavano 27,5%*5%=1, 375%, ora pagano 27,5%*77,24%= 21,24%, che significa un aumento di oltre 15 volte l’imposta.

Inoltre, se gli enti hanno dei beneficiari individuati, l’aliquota sarà quella marginale e quindi mediamente 43% invece del 27,5%, con un ulteriore inasprimento per il contribuente.

La ragione del provvedimento è stata motivata con l’equiparazione tra tassazione degli enti non commerciali e quella delle persone fisiche, che appunto pagano mediamente il 43% di aliquota. Però non si comprende la ratio, perché le persone fisiche possono utilizzare gli utili e i dividendi per le finalità che ritengono opportune, mentre gli enti no profit devono reinvestire gli utili per i fini istituzionali e non possono utilizzarli diversamente. Di fatto gli enti No Profit reinvestono gli utili in favore dei propri assistiti o dei beneficiari dell’ente, rimettendo in circolo il risultato generato. Quindi perché equipararli alle persone fisiche?

La retroattività invece non si applica allo sconto sull’Irap di imprese e professionisti, che decorre dal 2015. Potrà essere scalato interamente il costo dei soli lavoratori a tempo indeterminato, esclusi quindi collaboratori a progetto, collaboratori e tutti i lavoratori assunti con contratti a tempo determinato. Sono esclusi gli enti non commerciali.

Ma si tornano però ad applicare le aliquote IRAP del 2013, più elevate rispetto al 2014, aumentando nuovamente dal 3,5% al 3,9% l’aliquota base, questa con effetto retroattivo al 2014. Viene annullato quindi il beneficio concesso lo scorso anno, che non entra in vigore. Chi ha già anticipato, dovrà integrare sulla base della nuova aliquota. Abbiamo scherzato, insomma!

Sempre il bastone e la carota, non c’è verso di cambiare. Se c’è una agevolazione da un lato, subito spunta un aumento dall’altro. Ci sarà un credito di imposta in compensazione, aumentato al 10% dell’imposta lorda, per chi non ha dipendenti; è stato introdotto per bilanciare lo svantaggio di non poter utilizzare il taglio IRAP per i dipendenti per chi non ne ha.

Il bonus IRPEF di 80 euro in busta paga diventa, da credito d’imposta precedente, una detrazione per l’azienda e diventa strutturale, non più provvisorio.

E’ ovvio che più dipendenti, assunti a tempo indeterminato, ha un’azienda, maggiore sarà il vantaggio fiscale, che però, decorrendo dal 2015, diventerà effettivo solo a partire dai versamenti del 2016. Quindi tocca tirare la cinghia anche per il 2015!

dott. Marco Degiorgis – Consulente indipendente per la gestione dei patrimoni familiari, Studio Degiorgis