Cos’è la deduzione fiscale, come e chi la applica per risparmiare sulle tasse

Al pari delle detrazioni fiscali, in Italia pure le deduzioni permettono, anche se in maniera differente, di risparmiare sulle tasse. Se con la detrazione, infatti, si ottiene un risparmio secco di imposta sulle tasse da pagare, con le deduzioni fiscali, invece, l’applicazione dello sconto avviene sull’ammontare su cui andare poi a calcolare le imposte, ovverosia sul reddito imponibile lordo. Questa è, nella pratica, la risposta a cos’è la deduzione, ma vediamo al riguardo di approfondire tutti gli aspetti fiscali correlati.

Perché la deduzione fiscale si applica sempre prima della detrazione

Per quanto detto, quindi, la deduzione fiscale abbassa il reddito imponibile su cui calcolare le tasse. Dopodiché, dall’imposta lorda, se maturate, si possono poi sottrarre e quindi scaricare, in sede di dichiarazione dei redditi, le detrazioni fiscali. Il che significa che l’applicazione delle deduzioni precede sempre la fruizione delle detrazioni fiscali.

Oneri deducibili, quando lo sconto sulle imposte è parziale e quando invece è totale

Le spese che si possono detrarre fiscalmente rientrano tra i cosiddetti oneri deducibili, e si possono scaricare dal reddito imponibile lordo in maniera totale o parziale in base a quella che è la tipologia di costo sostenuto.

Per esempio, per un’attività imprenditoriale, sono totalmente deducibili dal reddito aziendale i costi sostenuti per l’acquisto dei cosiddetti beni strumentali. Che possono spaziare dai macchinari ai computer, passando per il software.

Alcuni costi, invece, sono sempre deducibili ma solo parzialmente. Per esempio, i costi legati all’acquisto di un veicolo, le spese per i contratti di leasing sui beni immobili, ed i costi sostenuti per la partecipazione a fiere e congressi.

La deduzione fiscale, chi la applica con i conseguenti benefici per risparmiare sulle tasse da versare

La deduzione fiscale è fruibile non solo dalle imprese, ed in generale da parte dei titolari di partita IVA, ma anche dalle persone fisiche quando previsto in base alla normativa fiscale vigente. Ed il tutto chiaramente a patto di essere in possesso di fattura o di ricevuta di pagamento per la spesa sostenuta.

Inoltre, l’applicazione e la fruizione della deduzione fiscale spetta sempre, con i conseguenti benefici, a chi sostiene la spesa. Includendo pure quel soggetto che ha sostenuto la spesa per conto ed a favore di un familiare che è fiscalmente a carico.

Divisione utili società: quante tasse si pagano e come

Essere parte di un’attività esercitata in forma societaria porta spesso delle entrate, anzi questo può essere definito l’obiettivo principale della stessa attività: si parla anche di dividendi o divisione di utili della società.  Nella guida di seguito proposta ci addentreremo su un tema spinoso e in particolare sulla divisione degli utili e sulla loro tassazione, cioè su quante tasse si pagano e come.

Divisione utili società

La prima cosa da dire è che la distribuzione degli utili nelle società non sempre è possibile, vi sono infatti dei vincoli, ad esempio l’articolo 2430 del Codice Civile stabilisce l’obbligo di accantonare il 5% degli utili netti annuali al fine di costituire una riserva legale fino al raggiungimento del 20% del capitale sociale. Lo statuto della società può costituire ulteriori vincoli alla divisione degli utili e se previsti devono essere rispettati, tranne nel caso in cui si provveda a una modifica dello statuto, si tratta infatti di un atto vincolante. 

Quello ora visto può essere considerato un limite, ma esistono anche dei divieti, ad esempio nel caso in cui ci siano perdite relative agli esercizi precedenti e ci siano in circolo obbligazioni il cui ammontare è superiore al doppio del capitale sociale. Si tratta evidentemente di una norma che vuole tutelare i creditori della società stessa, cioè gli obbligazionisti. In ogni caso prima di procedere alla divisione degli utili è necessario che sia approvato il bilancio di esercizio che siano accantonate le somme previste per legge e rispettati i vincoli, solo in seguito si può approvare la delibera di distribuzione di utili ai soci che deve essere a sua volta registrata con assolvimento dell’imposta fissa di 200 euro.

Rircordiamo che un’eventuale distribuzione di utili ai soci senza seguire vincoli, limiti e procedure è reato, si parla anche di Distribuzione in nero di utili ai soci, scopri cosa si rischia.

A questo punto si può avere la distribuzione degli utili, ma quante tasse si pagano e come?

Società di capitali: quante tasse si pagano?

La tassazione degli utili societari solitamente viene applicata con il criterio di cassa, ciò con riferimento all’anno in cui l’utile viene incassato e non facendo riferimento all’anno in cui lo stesso viene prodotto (criterio di competenza). Applicando il criterio di competenza gli utili dovrebbero essere tassati al momento in cui sono iscritti nel bilancio di esercizio, ma in realtà la distribuzione può avvenire anche successivamente. Le società di capitali sono SRL, SPA, SE (Società Europea), SAPA (Società in Accomandita per Azioni) ed SRLS (Società a Responsabilità Limitata Semplificata). Per queste forme societarie è prevista la qualificazione degli utili societari come reddito di capitale e di conseguenza si applicano gli articoli 44 e 45 del TUIR (Testo Unico Imposte sul Reddito).

I dividendi corrisposti ai soci devono essere certificati con il modello CUPE Certificazione Utili e altri Poventi Equiparati.

Come si applica la tassazione

A questo proposito occorre però ricordare che la legge Bilancio 2018 (legge 205 del 2017) ha previsto delle novità sulla tassazione delle entrate derivanti dalla distribuzione degli utili societari.

  1. La prima cosa da sottolineare è che la normativa, per i soci che non agiscono in qualità di imprenditori, quindi non sono titolari di partita IVA, ha parificato il trattamento fiscale per le partecipazioni qualificate e non qualificate. Per partecipazioni qualificate in società di capitali si intendono quelle che inglobano più del 20% dei diritti di voto in assemblea o più del 25% del patrimonio/capitale. Nelle società quotate le partecipazioni qualificate sono al 5% del patrimonio o 2% dei diritti di voto in assemblea ordinaria. Le aliquote applicate sono al 26%. La ritenuta viene applicata alla fonte e quindi in dichiarazione dei redditi non si deve dichiarare altro. Essa deve essere versata dalla società entro il 16 del mese successivo rispetto al trimestre in cui si attua la divisione degli utili.
  2. Diverso però è il caso in cui il socio sia un titolare di partita IVA, in questo caso infatti è diversa la base imponibile pari al pari al 58,14% e su tale base saranno applicate le aliquote ordinarie IRPEF, quindi il soggetto della dichiarazione dei redditi, insieme ad eventuali altre entrate, dovrà dichiarare anche i proventi della divisione degli utili e il tutto sarà tassato secondo le ordinarie regole.
  3. Se il percettore di utili è a sua volta un’altra società, quindi una società che partecipa ad un altra società, la tassazione è diversa e in particolare la base imponibile è al 5%, l’esenzione è invece totale nel caso in cui la società partecipante abbia optato per il regime in Trasparenza.

La legge di bilancio 2018 ha previsto però un regime transitorio, questo si applica agli utili prodotti fino al 31 dicembre 2017 e distribuiti entro il 31 dicembre 2022, limitatamente a questi continua ad applicarsi la vecchia disciplina sulla tassazione degli utili distribuiti dalle società.

Società di Persone: quante tasse si pagano?

Diverso è il caso delle società di persone come la Società Semplice, la SNC (Società in nome collettivo) e la SAS (Società in Accomandita Semplice). In questo caso gli utili divisi sono tassati per trasparenza in campo al socio percipiente art. 32-quater del D.L. n. 124/19, quindi applicando gli stessi scaglioni previsti per l’IRPEF, questo perché i soci in tali strutture societarie sono illimitatamente responsabili per i debiti assunti dalla società e non vi è distinzione tra il patrimonio della società e quello del socio.

Vedremo in seguito cosa succede nel caso in cui i redditi societari arrivano da società che sono ubicate in paradisi fiscali.

Tasse sui bitcoin, come funzionano quelle per le persone fisiche?

Le tasse sui bitcoin, per le persone fisiche, sono materia ancora oggetto di osservazione. Ma vediamo cosa dice l’Agenzia delle entrate in merito.

Tasse sui bitcoin: ecco cosa sono queste monete elettroniche

Le tasse sui bitcoin sono materia giornaliera e mondiale. Prima di analizzare le tasse sui bitcoin per coloro che sono persone fisiche, al di fuori del reddito d’impresa, cerchiamo di capire cosa sono i bitcoin. Il Bitcoin è una criptovaluta ed un sistema di pagamento valutario internazionale creato nel 2009. Il sistema è stato inventato da una persona il cui pseudonimo è Satoshi Nakamoto. Un uomo che ha sviluppato l’idea online e che ha appassionato miglioni di utenti e speculatori.

Ma sono tante le persone che oggi investono online attraverso il sistema dei bitcoin. E se le prospettive sono queste, sicuramente aumenteranno sempre più. Criptovalute e tassazione sono sempre state oggetto di attenzione dell’Agenzia delle entrate e del Mef.

La tassazione sulle persone fisiche, il parere dell’Agenzia delle entrate

La tassazione dei bitcoin sulle persone fisiche è ovviamente molto recente. La stessa agenzia delle entrate ha risposto in passato con la risoluzione numero 72/E del 2 settembre. In cui era chiara la linea che: la valuta virtuale «bitcoin» non abbia altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento e che essa sia accettata a tal fine da alcuni operatori.

Mentre “Per quanto riguarda, la tassazione ai fini delle imposte sul reddito dei clienti della Società, persone fisiche che detengono i bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa, si ricorda che le operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa”. Ne deriva che non sono applicabili tasse su questo tipo di moneta, ma solo nel caso in cui il pagamento non è connesso ad attività d’impresa.

L’analogia con il mercato Forex

Ma l’interpretazione cozza con quello che potrebbe essere il mercato parallelo dei Forex. Il foreign exxhange market detto semplicemente Forex o mercato valutario, si ha quanto una valuta viene scambiata con un’altra. Tuttavia comprende il mercato di tutte le transazioni che avvengono tra i grandi istituti bancari, gli speculatori valutari, i governi, le multinazionali e per questo motivo viene detto il più grande mercato al mondo. I guadagni che derivano da queste transazioni vengono considerati dal TUIR come redditi Diversi. Tuttavia sono debiti diversi tutti quelli che non rientrano nelle classiche categorie predisposte dalla normativa fiscale.

Le operazioni di compravendita di valuta vengono effettuate sul mercato Forex attraverso la conclusione on line di contratti cosiddetti “spot e rolling spot. Pertanto per gli operatori è richiesta l’apertura di un conto corrente dedicato presso una delle primarie banche italiane, sul quale viene depositata una somma e vincolata a favore dell’intermediario. Anche le plusvalenze delle operazioni di compravendita di valute non sono soggette a tassazione secondo l’art. 67, comma 7, lettare c-ter) del Tuir. Pertanto anche il mercato dei Bitcoin le tasse sui bitcoin seguono la stessa sorte.

Tasse sui bitcoin: come funziona nel caso delle società?

Le tasse sui bitcoin sono diverse se si tratta di società che intendono remunerare commissioni pari alla differenza tra l’importo corrisposto al cliente che intende acquistare/vendere bitcoin e la migliore quotazione reperita dalla società sul mercato. In questi casi si tratta di prestazione di servizi con calcolo dell’Iva. Pertanto la tassazione segue quella prevista per le società che svolgono prestazione di servizi e quindi i componenti di redditi derivanti dall’intermediazione vanno tassati. Proventi che sono tassati al netto dei costi inerenti all’attività d’impresa.

Inoltre rispetto al cliente, la società non deve costituirsi come sostituto d’imposta. Mentre rimangono salvi tutti gli altri obblighi spettanti a questo tipo di imprese: come l’adeguata verifica della clientela o la segnalazione di operazioni sospette ai fini del condizionamento delle normali attività di mercato.

In Italia comunque la normativa risulta abbastanza obsoleta, nonostante si senta sempre più parlare di Bitcoin e criptomonete o criptovalute. Strano che però questo tipo di esenzione dalle tasse è prevista per i classici paradisi fiscali come Montecarlo e Svizzera che hanno scelto di non fa pagare nulla come tasse sui profitti da criptovalute. Almeno fino a ricavi pari a 51 mila euro.

 

 

 

Contributi previdenziali Casse professionali: tutte le aliquote e i nuovi aumenti

Continuano i ritocchi sui contributi previdenziali delle Casse professionali. Aumenti sono registrati per i medici, gli odontoiatri, i giornalisti e i veterinari. Per i geometri e i periti industriali, l’integrativo è al 5% per le commesse fatte a favore della Pubblica amministrazione. Ecco tutte le percentuali dei contributi, il contributivo integrativo e la quota di maternità (quasi sempre fissa) inerenti la dichiarazione dei redditi del 2021 per compensi maturati nel 2020.

Dichiarazione redditi 2021, a chi sono aumentati i contributi? I giornalisti dell’Inpgi

I contributi calcolati sul reddito netto dei professionisti del 2020 sono in aumento per gli odontoiatri, i medici, i giornalisti e i veterinari. I contributi integrativi, invece, quest’anno sono aumentati per i soli giornalisti. Nel dettaglio, i giornalisti iscritti all’Inpgi, l’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani, pagano:

  • un contributo soggettivo del 12% sul reddito professionale netto fino al limite di 24 mila euro;
  • per redditi oltre i 24 mila euro la percentuale sale al 14%;
  • il contributo integrativo del 4% del reddito lordo;
  • a scelta del professionista il contributo aggiuntivo di almeno il 5% sul reddito netto.

Il modello di reddito GS/2021 deve essere inviato in via telematica entro il 30 settembre 2021.

Contributi previdenziali di avvocati e consulenti del lavoro

Gli avvocati iscritti alla Cassa Forense pagano il contributo soggettivo sul reddito della propria professione aumentato dal 14,5% al 15%. L’aumento tuttavia è in vigore dal 1° gennaio 2021, pertanto per la dichiarazione dei redditi da presentare entro il 30 settembre 2021 la percentuale è ancora del 14,5%. In più gli avvocati pagano un contributo soggettivo del 3% sul reddito netto e un integrativo del 4% sul volume di affari. Per i consulenti del lavoro, il contributo soggettivo è del 12% sul reddito netto e l’integrativo del 4%.

Dichiarazione redditi di commercialisti e notai

Per i commercialisti il contributo soggettivo varia dal 12% al 100% del reddito netto, l’integrativo è del 4%. La Cassa dei Ragionieri e Periti commerciali (esperti contabili) applica un soggettivo dal 15 al 25%, un soggettivo supplementare dello 0,75% e un integrativo sul volume di affari del 4%. I notai iscritti alla Cassa nazionale del Notariato, versano il 22% del valore del repertorio notarile del mese precedente per atti del valore negoziale fino a 37 mila euro. Tutti gli altri atti hanno una percentuale del 42%.

Medici e odontoiatri, quanto pagano di contributi previdenziali alle Casse?

Per i medici e gli odontoiatri iscritti all’Enpam, il contributo sulla quota A è fisso in base all’età. Il contributo sulla quota B è del 19,5% sul reddito professionale netto (lo scorso anno era del 18,5%). Oltre il limite dei 103.0555 euro di reddito annuo, la quota B sull’incremento è pari all’1%. Per gli attuari, i chimici e i fisici, i dottori agronomi e forestali, e i geologi iscritti all’Epap, il contributo soggettivo è del 10% sul reddito netto fino a 103.055 euro all’anno, sull’eccedenza si paga il contributo di solidarietà dello 0,2%. È prevista la percentuale integrativa del 2% sul volume di affari mentre il contributo maternità è fisso.

Agrotecnici, periti agrari e biologi: quanto pagano di contributi previdenziali?

Gli agrotecnici e i periti agrari iscritti alla Fondazione Enpaia (Ente nazionale di previdenza per gli addetti e per gli impiegati in agricoltura), versano il contributo soggettivo pari al 10% sul reddito professionale netto. Cambia il contributo integrativo che è del 2% per gli agrotecnici e dal 2% al 5% per i periti agrari. Per entrambe le categorie il contributo di maternità è fisso. I biologi, iscritti all’Ente nazionale di previdenza e assistenza a favore dei Biologi, il contributo soggettivo è del 15% sul reddito netto della professione, mentre l’integrativo è del 4% sul volume di affari. Dal 1° luglio 2019 il 4% si paga anche sulle prestazioni a favore della Pubblica amministrazione.

Farmacisti, infermieri, psicologi e veterinari: quanto pagano alla dichiarazione dei redditi?

Per i farmacisti iscritti all’Enpaf sono previsti i contributi previdenziali e assistenziali fissi per il 2021. Diversamente gli infermieri dell’Enpapi, versano un contributo soggettivo del 16% sul reddito netto e un integrativo del 4% (anche sulle prestazioni verso la Pubblica amministrazione dal 16 maggio 2019). Per gli psicologi iscritti all’Enpap il contributo soggettivo è del 10% sul reddito netto, l’integrativo del 2% sul volume di affari. Resta fisso il contributo di maternità. Per i veterinari dell’Enpav, il contributo soggettivo è del 15,5% sul reddito netto fino a 95.150 euro (sullo scaglione più alto è del 3%). È previsto un integrativo sul volume di affari del 2% e un contributo di maternità fisso.

Geometri, ingegneri, architetti e periti industriali: contributo soggettivo e integrativo

I geometri iscritti alla Cassa italiana di previdenza e assistenza Geometri liberi professionisti (Cipag) versano un contributo soggettivo del 18% sul reddito netto fino a 156.800 euro. Per redditi oltre la soglia è previsto un contributo soggettivo del 3,5%. Il contributo integrativo è del 5% sul volume di affari, del 4% nel caso in cui si tratta di lavori fatti per la Pubblica amministrazione. per gli ingegneri e gli architetti il contributo soggettivo è del 14,5% sul reddito netto, con un contributo integrativo del 4% calcolato sul volume di affari. Per i periti industriali iscritti all’Eppi, Ente di previdenza dei periti industriali e periti industriali laureati, il contributo soggettivo è del 18%, da calcolare sul reddito netto. Il contributo integrativo è del 5% sul volume di affari. La percentuale è salita dal 25 febbraio 2019 dal 2% al 5% anche per lavori fatti per la Pubblica amministrazione.

 

Partita Iva, come si calcola il reddito netto nel regime forfettario?

1Il regime forfettario delle partite Iva è un regime fiscale agevolato, applicato alle persone fisiche esercenti delle attività di impresa, arti o professioni. Introdotto dalla legge di Stabilità 2015, il regime forfettario è stato modificato negli anni successivi per rivedere le semplificazioni ai fini Iva e contabili. Tuttavia, la novità più importante è la determinazione forfettaria del reddito sul quale calcolare un’unica imposta in sostituzione di quelle previste nel regime ordinario. Con la legge di Bilancio 2020, infatti, si è arrivati a una disciplina che ha introdotto nuovi requisiti di accesso e cause di esclusione, oltre a un sistema premiale per chi utilizza la fatturazione elettronica.

Regime forfettario, i requisiti di accesso secondo le regole 2020

Possono accedere al regime forfettario le partite Iva che nel precedente anno abbiano conseguito:

  • sia un volume di ricavi o percepito compensi che non superino i 65.000 euro (nel caso in cui si esercitino più attività ricadenti in differenti codici Ateco è necessario considerare la somma dei ricavi e dei compensi delle diverse attività);
  • che un volume di spese non eccedenti l’importo di 20.000 euro lordi. Nelle spese vanno ricomprese quelle del lavoro accessorio, dipendente o collaborativo anche a progetto, gli utili da partecipazione agli associati che apportino il solo lavoro e le somme erogate per prestazioni rese dall’imprenditore o dai suoi famigliari.

Partita Iva, reddito e tassazione dei forfettari

Le partite Iva che rientrino nel regime forfettario determinano il reddito imponibile applicando, al totale dei compensi percepiti o dei ricavi conseguiti, il coefficiente di redditività previsto per la propria attività. Nel dettaglio, i coefficienti di redditività previsti sono i seguenti:

  • industrie alimentari e delle bevande, 40%;
  • commercio all’ingrosso e al dettaglio, commercio ambulante di prodotti alimentari e bevande, 40%;
  • commercio ambulante di altri prodotti, 54%;
  • costruzioni e attività immobiliari, 86%;
  • intermediari del commercio, 62%;
  • attività di servizi di alloggio e di ristorazione, 40%;
  • attività professionali, scientifiche, tecniche, sanitarie, di istruzione, servizi finanziari e assicurativi, 78%;
  • altre attività economiche, 67%.

Regime forfettario, come si determina il reddito imponibile

Dal reddito che si è determinato forfettariamente applicando il coefficiente di redditività al totale dei ricavi, si deducono i contributi previdenziali obbligatori, inclusi quelli corrisposti per conto dei collaboratori dell’impresa famigliare. Al reddito imponibile ottenuto si applica l’imposta fissa del 15% che va a sostituire quelle ordinariamente previste, ovvero le imposte sui redditi, le addizionali regionali e comunali e l’Irap.

Calcolo del reddito imponibile nel regime forfettario partite Iva: un esempio

Per sapere quante tasse dovrà pagare una partita Iva del regime forfettario, il primo passo da fare è quello di determinare il reddito imponibile, sul quale si applicherà il 15% dell’imposta unica. A tal fine è necessario conoscere il codice Ateco della propria partita Iva, al quale corrisponde un coefficiente di redditività, ovvero una percentuale che si dovrà andare a moltiplicare al totale dei compensi ottenuti nell’anno di riferimento.

Partita Iva, calcolo imposta da pagare con regime forfettario

Pertanto, se il codice Ateco della partita Iva è del 78% e il guadagno lordo annuo derivante dall’attività è pari a 30.000 euro, il reddito imponibile è pari al prodotto tra 30.000 e 78%. Il risultato, 23.400 euro, costituisce il reddito imponibile. A quest’ultimo dovranno essere sottratti i contributi versati: ipotizzando che siano pari a 8.000 euro, occorrerà sottrarre 23.400 – 8.000 = 15.400 euro. Le tasse che si dovranno pagare per un guadagno annuo di 30.000 euro di una partita Iva a regime forfettario saranno pari a 2.310 euro, valore dato dal rapporto tra 15.400 euro e il 15%.

I ricavi nel reddito imponibile dei forfettari

Il totale dei ricavi e dei compensi devono  far riferimento al principio di cassa e non a quello di competenza. Ciò vuol dire che devono essere considerati solo i ricavi effettivamente incassati nell’arco dell’anno oggetto di imposta. Pertanto, chi richiede un pagamento alla fine dell’anno ma lo incassi sul conto corrente solo all’inizio dell’anno dopo, dovrà conteggiarlo tra i ricavi dell’anno successivo.

Impossibilità di scaricare le spese deducibili nel regime forfettario

L’applicazione del coefficiente di redditività, derivante da percentuali introdotte nel 2015 in occasione del nuovo regime forfettario, non consente di considerare deducibili le spese che normalmente “si scaricano”. Pertanto, la scelta del regime forfettario ha molta convenienza nel caso in cui non si spendano cifre molto alte per la gestione dell’attività stessa. In caso contrario potrebbe essere più conveniente optare per il regime di partita Iva semplificato o per quello ordinario.

Imposta ridotta al 5% per chi avvia una nuova attività

L’imposta ridotta al 5% nei primi cinque anni di attività è riservata a coloro che avviano una nuova attività in presenza dei seguenti requisiti:

  • è necessario che il contribuente non abbia esercitato, nei 3 anni precedenti, attività professionale o d’impresa o artistica, anche in forma famigliare o associata;
  • l’attività avviata non deve costituire, in alcun modo, una mera prosecuzione di un’attività precedentemente. Quest’ultima si intende svolta da lavoratore dipendente o autonomo, ad esclusione della pratica obbligatoria necessaria per intraprendere arti o professioni;
  • nel caso in cui venga proseguita un’attività svolta precedentemente da un altro soggetto è necessario il ricalcolo dell’ammontare dei compensi. Infatti, i ricavi realizzati nel periodo di imposta precedente a quello in cui viene riconosciuto il beneficio dell’imposta ridotta non dovranno essere superiori al limite che consente l’accesso al regime forfettario.

Irpef su partite Iva forfettarie e dipendenti: un confronto

Il regime forfettario delle partite Iva rinnova il confronto degli autonomi con i lavoratori dipendenti. Dall’analisi del prelievo dell’Irpef, infatti, a parità di reddito tra gli autonomi e i dipendenti, gran parte delle partite Iva paga un’Irpef minore. In particolare per gli autonomi ricadenti nel regime forfettario con imposta sostitutiva del 15%, la cosiddetta “flat tax”, estesa dalla legge di Bilancio 2019 agli autonomi che abbiano ricavi entro i 65.000 euro annui.

Partita Iva, la scelta della flat tax per il regime forfettario

Il regime agevolato del quale beneficia chi apre una partita Iva forfettaria, con la non applicazione dell’Irap, dell’Iva e delle addizionali Irpef, sta portando a una maggiore preferenza nella scelta degli autonomi verso la flat tax. Ad oggi le partite Iva con regime forfettario costituiscono il 30% del totale degli autonomi, ma l’incidenza verso questo regime si sta accrescendo ulteriormente negli anni. Nel 2020, infatti, il forfait è stata la scelta per il 46,4% delle nuove partite Iva, e circa il 50% per quelle del primo trimestre di quest’anno.

A chi conviene di più il regime forfettario delle partite Iva e la tassa fissa

Chi massimizza i benefici della partita Iva a regime forfettario sono soprattutto i lavoratori autonomi che hanno una soglia di fatturato quanto più vicina al limite dei 65.000 euro. E dunque, con la flat tax fissata al 15%, sono soprattutto i professionisti a sfruttare al massimo il regime agevolato, avendo una bassa incidenza dei costi e un elevato coefficiente di redditività. La convenienza al regime forfettario è testimoniato dal fatto che le piccole imprese cercano di rimanere il più possibile nel sistema agevolato. Ciò diventa disincentivante per lo sviluppo dell’economia e delle imprese. Ma anche la progressività delle imposte, rispetto alla flat tax, pone dei dubbi sulla reale equità e redistribuzione delle tasse. Si pensi, ad esempio, al salto di 11 punti Irpef tra il secondo e il terzo scaglione, dal 27 al 38%.

Aliquote Irpef del lavoro dipendente a confronto con i coefficienti di redditività della flax tax

Nel confronto tra partita Iva del regime forfettario e aliquote Irpef applicate al lavoro dipendente, non possono essere esclusi altri fattori e proposte di revisione del sistema fiscale. In primis, il regime forfettario ha portato qualche anno fa al debutto dei coefficienti di redditività, poi rivisti dopo l’innalzamento della soglia dei ricavi a 65.000 euro (dai 25.000 minimi). Tuttavia, gli stessi coefficienti non risultano coerenti con le strutture dei costi delle aziende, soprattutto per quelle di maggiori dimensioni. In ambito di riforma fiscale, non mancano le iniziali proposte di aumentare l’aliquota della flat tax al primo scaglione Irpef applicato anche ai lavoratori dipendenti, pari al 23%.

Lavoratori dipendenti e Irpef: progressività a scaglioni e detrazioni

Un reale confronto sul sistema Irpef tra la partita Iva forfettaria e la progressività a scaglioni del lavoro non autonomo non può escludere le specifiche detrazioni, rispetto al reddito e ai carichi familiari, applicati ai lavoratori alle dipendenze. Le stesse aliquote Irpef, pertanto, vanno valutate sulla base della struttura delle detrazioni applicate per il lavoro e la famiglia, determinando le effettive aliquote marginali.

Esempio di pagamento Irpef lavoratore autonomo e dipendente: meno Irpef o più detrazioni?

Scendendo nel confronto tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi forfettari, si può fare l’esempio di un lavoratore dipendente e di un autonomo con un reddito annuo di 24.500 euro: il secondo si troverà nella situazione ideale di pagare il 15% di imposte ma senza oneri deducibili e detraibili, o carichi familiari. Mentre i lavoratori dipendenti, quasi nella globalità, hanno altri oneri detraibili. Dunque, dall’ultimo calcolo fiscale dei lavoratori dipendenti, quasi tutti i 22 milioni e 200 mila (pari al 54% dei contribuenti) beneficiano di detrazioni d’imposta e circa il 39% ottiene agevolazioni per carichi di famiglia.

Vendite su Internet e su eBay: si devono pagare le tasse?

Siamo in un’ epoca in cui la compravendita su internet è particolarmente dominante, anche perché in un periodo storico come quello pandemico, molte persone preferiscono acquistare beni di qualunque tipo senza spostarsi dalla propria casa, con pochi click. Anche il cibo è diventato un bene da asporto e molteplici piattaforme e app stanno agevolando la non chiusura di molti ristoranti e attività di ristorazione varie. Se acquistare è, però all’ordine del giorno da un bel po’, anche vendere è diventato più frequente. Ma, molti ancora si chiedono come funziona la tassazione, per le vendite private su internet e su eBay. E, quindi se per vendere sul web e su eBay si devono pagare le tasse? Scopriamolo assieme.

Esiste una tassazione per le vendite online?

Ebbene, se state pensando di vendere vecchi oggetti o se pensate di disfarvi della vostra collezione di statuine action figure, di Funko Pop o semplicemente di figurine, affidandovi a store online come eBay, sappiate che bisognerà distinguere da attività di cessione commerciale e attività commerciale occasionale.

In pratica se vendete oggetti, privatamente, in una singola, sporadica occasione (come ad esempio una vecchia collezione o addirittura un mobile) non entrerete nel novero della vendita di attività commerciale. Quindi, non andrete incontro a nessuna tassazione per la vendita. In altri casi, invece dovrete prestare attenzione.

Quando si devono pagare le tasse per le vendite su internet e su eBay?

Ormai, tutto bisogna rendicontarlo allo Stato, quindi sembrerebbe che ogni spostamento (soprattutto di denaro) stia diventando indispensabilmente, frequentemente, tracciabile. Anche la volontà di ridurre (in futuro eliminare definitivamente?) il contante, a favore delle spese digitali ne è un esempio.

E, pertanto in molti si chiedono se fare acquisti e vendite sul web porta ad una contabilità fiscale da inserire nella dichiarazione dei redditi. Come detto, la singola vendita di un prodotto, tra privati, su un portale come eBay non è tassabile. Ma, quando invece una vendita online ci porta a pagare le tasse? In moltissime occasioni. Sia se abbiate un negozio fisico sia se abbiate un “negozio online” in cui effettuate anche solo sporadicamente, le suddette vendite.

Abbiamo in pratica diversi regimi fiscali per la vendita online. Sostanzialmente possiamo parlare di tre differenti regimi fiscali, tutti basati sulla tipologia del venditore e sulla frequenza delle operazioni da esso realizzate: chi opera abitualmente su eBay (o su altri siti di e-commerce, come Amazon o Facebook Marketplace) è equiparato ad un vero e proprio negoziante e perciò è tenuto ad assolvere tutti gli obblighi fiscali previsti per gli esercenti commerciali.

Successivamente, troviamo chi vende una volta tanto, periodicamente, non avrà obbligo di partita Iva, ma dovrà ugualmente fare dichiarazione dei redditi sulle proprie vendite, protratte nel tempo. E, in ultimo, il venditore del tutto occasionale, colui che vende (come sopra) la vecchia collezione di fumetti, di figurine o il mobile usato, in una semplice occasione. E in quel caso è esente da obblighi fiscali.

Ora che finalmente vi siete liberati di un dubbio (o, almeno, si spera), sentitevi pure liberi di andare felicemente a rovistare nel vostro ripostiglio o nel vostro armadio, nella soffitta o nella vecchia cantina, per scovare quello scrigno di roba usata, quello scatolone ammuffito e dimenticato, pieni di roba da rivendere o quel paio di vestiti, carini ma che non usate più, per vendere su internet o su eBay, liberi dalla paura di essere tassati e racimolarvi, così, qualche euro sul vostro usato da “buttare”. Ma, attenti a non prenderci gusto, perché dalla vendita occasionale alla vendita commerciale, il confine può essere labile e insidioso. E l’ agenzia delle entrate è lì, sorniona e minacciosa, che vi guarda.

Tasse per le imprese: in Italia sono in calo da tre anni

Anche se forse gli italiani non se ne sono resi conto, negli ultimi tre anni le tasse sono costantemente in calo.
A confermarlo è il Paying Taxes 2018, il rapporto di Banca Mondiale e Pwc che, puntualmente come ogni anno, analizza il valore della pressione fiscale per le imprese nei vari Paesi del mondo, e che colloca l’Italia in una posizione intermedia.

Occorre, prima di considerare i singoli valori percentuali registrati, capire quali sono i criteri che determinano il Total tax & contribution rate (Ttcr), l’indice utilizzato nel rapporto per mettere a confronto la tassazione nei vari Paesi.

Si prendono in considerazione imposte, tasse e contributi obbligatori cui è soggetta un’impresa di medie dimensioni nell’arco di un anno e che includono le imposte sui redditi, i contributi previdenziali e le tasse sul lavoro versate dal datore di lavoro, le imposte patrimoniali e sulle transazioni relative agli immobili, le tasse sui dividendi, sul capital gain, sulle transazioni finanziarie, sulla raccolta dei rifiuti, sulla circolazione dei veicoli e altri contributi minori.

Considerando i dati ottenuti, il carico fiscale per le aziende del nostro Paese è al 48% dei profitti commerciali, in calo di ben 14 punti percentuali rispetto al 2015. Questa diminuzione va principalmente ricollegata agli sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato.

Nonostante, comunque, si trovi in una posizione intermedia, il Ttcr italiano è ancora al di sopra della media mondiale, 40,5%, ed europea, 39,6%, anche se l’Italia da un punto di vista fiscale guadagna competitività rispetto alle economie di molti partner comunitari.
Per fare esempi concreti, la Francia ha il Ttcr più alto d’Europa, del 62,2%, ma anche Belgio, Svezia e Germania sono superiori al nostro, poiché hanno Ttcr rispettivamente al 57,1%, 49,1% e 48,9%.

Meglio di noi sono, invece, il Regno Unito, con un ttcf pari al 30,7%, che rappresenta uno dei valori più bassi. Ma anche la Spagna raggiunge risultati migliori (46,9%), come anche l’Olanda (40,7%), la Polonia (40,5%) e il Portogallo (39,8%). Un caso del tutto particolare è poi quello della Svizzera, che con un Ttcr pari al 28,8% presenta una delle tassazioni più basse a livello mondiale.

Considerando non solo l’Europa, ma tutto il mondo, le situazioni peggiori si registrano in Sud America, dove addirittura l’Argentina fa segnare un Ttcr pari al 106. Ci sono poi la Bolivia con Ttcr pari all’83,7%, e Brasile, Colombia e Venezuela, con valori tutti superiori al 60%.

In Africa, altro caso difficile è quello dell’Eritrea, che fa segnare un indice dell’83,7%. E significativo è anche rilevare che il Ttcr della Cina è pari al 67,3%, dunque anch’esso ben al di sopra della media mondiale.

Situazioni positive, invece, in Zambia e Arabia Saudita, con valori del Ttcr di poco superiori al 15%, ma anche del Canada che si ferma al 20,9% e della Cambogia (21,7%).
Considerando le altre grandi potenze, gli Stati Uniti hanno un Ttcr pari al 43,8%, il Giappone al 47,4% e la Russia al 47,5%.

Vera MORETTI

Tasse: nessun beneficio per le piccole imprese

Il carico fiscale continuerà, almeno ancora per un anno, a gravare sulle spalle delle piccolissime imprese, mentre quelle di grandi e medie dimensioni potranno beneficiare di importanti sgravi e snellimenti.

Questo è quanto è stato rilevato dall’Ufficio Studi della Cgia, che ha fatto i conti partendo dal taglio dell’Ires, che è scesa di 3,5 punti attestandosi al 24%, e che dunque farà risparmiare 3,9miliardi di euro alle società, mentre le piccole e micro imprese sono state svantaggiate dall’introduzione dell’Iri, che infatti non potranno risparmiare 1,2 miliardi all’anno. Motivo di questo rinvio è semplicemente la mancanza di copertura finanziaria.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi della Cgia, ha dichiarato: “Pur riconoscendo che, rispetto a qualche decennio fa, tra le società di capitali troviamo anche le piccole imprese è indubbio che il taglio dell’Ires ha avvantaggiato soprattutto le grandi, in particolar modo quelle appartenenti al settore energetico e a quello minerario. E sebbene la riduzione dell’Ires sia stata in parte bilanciata dall’attenuazione degli effetti positivi dell’Ace, ancora una volta si è prestata attenzione solo alle istanze sollevate dalle imprese di maggiore dimensione, mentre alla stragrande maggioranza delle attività che non pagano l’Ires non è stato riservato alcun vantaggio fiscale”.

Inoltre, alle società di capitali è stata ridimensionata l’Ace, misura che è nata qualche anno fa per premiare le imprese che capitalizzavano. Questa mossa avrà un impatto economico negativo di 1,7 miliardi di euro, quindi agli effetti positivi del taglio dell’Ires va sottratto il ridimensionamento dell’Ace che, comunque, consente alle società di capitali di “guadagnare” 2,2 miliardi di euro all’anno.

Renato Mason, Segretario della Cgia, ha inoltre aggiunto: “Oltre a ridurre il peso delle tasse è necessario, in particolar modo per le micro imprese, diminuire anche il numero di adempimenti fiscali che, invece, continua ad aumentare e costituisce un grosso problema per moltissime attività. Non dobbiamo dimenticare che i più penalizzati da questa situazione, così come avviene per le tasse, sono le piccole e piccolissime imprese che, a differenza delle realtà più grandi, non dispongono di una struttura amministrativa in grado di farsi carico autonomamente di tutte queste incombenze”.

Ma chi beneficerà maggiormente della riduzione dell’Ires? In primis le aziende riconducibili alla fornitura di energia elettrica e gas, che risparmieranno poco più di 39.300 euro, ma anche le attività di estrazione, che risparmieranno 34.000 euro.

L’unica novità fiscale positiva per le piccolissime imprese sarà l’addio agli studi di settore che verranno sostituiti dagli indicatori di affidabilità economica.

Ha concluso in proposito Zabeo: “Per molti lavoratori sarà la fine di un incubo anche se sarà necessario monitorare il periodo di transizione di questi nuovi strumenti. I nuovi indicatori di affidabilità fiscale che sostituiranno gli studi di settore, infatti, dovranno garantire una riduzione delle tasse e una maggiore semplificazione nei rapporti con il fisco. Altrimenti, questa novità servirà a poco. Per questo è determinante che nella fase di gestazione di questi indicatori sia determinate il ruolo delle associazioni di categoria dei lavoratori autonomi, che meglio di chiunque altro conoscono le specificità e le caratteristiche fiscali delle attività interessate da questa novità”.

Vera MORETTI

La Lombardia è la regione che paga più tasse

La regione italiana più ligia al dovere, che quindi non si tira indietro quando si tratta di versare i contributi al sistema tributario, è risultata la Lombardia, come testimoniato da un’indagine condotta dall’ufficio studi della Cgia.

Per arrivare a questo risultato, sono stati considerati fattori come il gettito di imposte, tasse e tributi versati allo Stato, alle Regioni e agli Enti locali dai lavoratori dipendenti, dagli autonomi, dai pensionati e dalle imprese residenti nel nostro Paese.

Ebbene, nel 2015 in Lombardia ogni residente, senza togliere nessuno, né bambini né ultracentenari, ha in media corrisposto al fisco 11.898 euro.

Dopo i lombardi, ecco gli abitanti del Trentino Alto Adige, che sono al secondo posto con un gettito medio di 11.029 euro e seguiti dagli emiliano-romagnoli, con 10.810 euro.
Al quarto posto, fuori dal podio ma comunque chiamati a pagare al fisco cifre piuttosto alte, c’è il Lazio, con un versamento medio di 10.452 euro, e i liguri, con 10.121 euro.

Al contrario, le Regioni meno tartassate dal fisco sono quelle che si trovano nel Mezzogiorno, a cominciare dalla Campania, dove nel 2015 il gettito pro-capite medio è stato pari a 5.703 euro, poi dalla Sicilia a 5.610 euro e dalla Calabria a 5.436 euro.

Vera MORETTI