Come chiudere una ditta individuale e quanto costa

Oggi ci addentreremo in questo periglioso e articolato mondo della Partita IVA e del lavoro individuale, specialmente nel 2021, tra montagne russe di crisi economiche e sociali. Scopriremo assieme come chiudere una ditta individuale e quanto costa poterlo fare.

Come chiudere Partita IVA?

Partiamo subito col dire che fare impresa in Italia diventa sempre più difficile, potremmo dire che è diventato un’ impresa. Soprattutto nel 2021 dopo la Legge di Bilancio e il Decreto Fiscale.

Non a caso, molti professionisti decidono di cessare la loro attività e chiudere la Partita IVA.

Per una questione di comodità di tasse, contributi e conguagli, una ditta individuale preferisce chiudere la propria Partita IVA al termine dell’anno. Più specificamente, indipendentemente dal periodo, deve essere chiusa entro 30 giorni dalla cessazione della propria attività. La stessa procedura avviene anche nel caso si effettui una variazione di proprietà o ragione sociale, altra praticamente molto richiesta di recente.

Procedure per chiudere una ditta individuale e Partita IVA

La procedura per chiudere una ditta individuale cambia a seconda delle categorie professionali in questione e quindi dei moduli utilizzati. Ovvero il Modulo AA9/12 per persone fisiche, ditte individuali, artigiani, autonomi, professionisti, artisti ed il Modulo AA7/10 per società, s.r.l., s.p.a., s.a.s., associazioni.

Dunque, per poter avviare la chiusura di Partita IVA, che sia destinata essa a persone fisiche, società o associazioni, entrambi i moduli vanno consegnati entro 30 giorni dalla cessazione dell’attività in 3 modalità, ovvero le seguenti:

  • Telematicamente sulla piattaforma Entratel dell’agenzia
  • Personalmente o con delega in un ufficio dell’agenzia
  • Con raccomandata A/R indirizzata a un ufficio dell’agenzia, allegando copia del documento di riconoscimento

C’è un’ulteriore sottolineatura da fare nella compilazione del modulo, ovvero il codice ATECO della propria attività. Tali dichiarazioni verranno ritenute consegnate direttamente nel giorno in cui risulteranno spedite. In seguito, si comunicherà la chiusura della Partita IVA alla Camera di Commercio, attraverso differenti modalità a seguito della ragione sociale:

  • Ditte individuali e liberi professionisti avranno da compilare il modello I2 specificando la cessazione dell’attività, ponendo in allegato eventuali certificazioni e autorizzazioni comunali o da altri enti
  • Artigiani e commercianti avranno la stessa procedura  delle ditte individuali, rivolgendosi inoltre al comune in cui si è dichiarato l’inizio dell’attività
  • Società e associazioni avranno l’obbligo di liquidare beni aziendali e risolvere rapporti pendenti, mentre i soci dovranno compilare e presentare il modulo AA7/11

Quanto costa chiudere una ditta individuale?

In ultimo, ma non affatto ultimo, andiamo a vedere quali possono essere i costi di una chiusura della propria ditta individuale.

Sostanzialmente possiamo dire che la chiusura di una Partita IVA non comporta costi aggiuntivi rispetto a quelli regolarmente sostenuti per la propria attività professionale. Mentre per le attività iscritte al Registro delle Imprese, sarà necessario sostenere le spese per la cancellazione:

  • costo di segreteria, 90,00 euro
  • costo Modelli UL e S5 telematici, 30,00 euro
  • costo Modelli su supporto digitale informatico, 50,00 euro
  • costo dichiarazione società semplice, 18,00 euro (solo società semplici)
  • costo marca da bollo, per ditte individuali 17,50 euro 
  • Modello R cartaceo, 23,00 euro 

Dunque, i professionisti che saranno tenuti ad affrontare queste spese per la chiusura della “propria baracca”, saranno i consorzi, le società, gli imprenditori commerciali, gli enti pubblici alla fine dell’attività commerciale e società estere con sede legale in Italia.

Ci saranno in tutto questo marasma, invece, soggetti esentati dalle spese di cui sopra. Ovvero si tratta di coloro, possessori di partita IVA, non obbligati all’iscrizione, come liberi professionisti, venditori porta a porta, collaboratori coordinati, imprese agricole con basso fatturato e enti non commerciali, od anche le società di mutuo soccorso.

Va, inoltre precisato che da Decreto legge fiscale del 2017, sono avviate le procedure per la chiusura d’ufficio delle partite IVA inattive da un tempo di 3 anni.

Dunque, questo è quanto vi era da sapere in merito alla chiusura di una partita IVA per la propria ditta individuale, nel novero di questo 2021.

Società in liquidazione: cosa succede ai dipendenti

La chiusura di un’azienda, soprattutto in tempi di crisi economica non è purtroppo un evento raro. Una società può cessare la propria attività economica a causa di motivi involontari, come una procedura fallimentare aperta a suo carico da creditori. Oppure per motivi volontari, come la decisione di chiudere per mancanza di prospettive future o per debiti contratti troppo alti che si realizza con la sua messa in liquidazione.

I lavoratori dipendenti di una società che viene messa in liquidazione, in linea di massima si preoccupano nel caso l’amministratore non provveda al pagamento degli arretrati prima della cessazione di un’attività volontaria o involontaria.

Società in liquidazione: di cosa si tratta

C’è da fare un distinguo tra la liquidazione di una società e il suo fallimento. La liquidazione concerne la chiusura volontaria della società e si rende necessaria al fine della sua cancellazione dal Registro delle Imprese. Il soggetto liquidatore nominato assume il compito di soddisfare i debiti in essere e di procedere con la riscossione dei crediti. Successivamente, vengono venduti i beni del patrimonio aziendale e con i ricavi conseguiti chiudere tutte le passività. L’iter può concludersi in perdita, in pareggio o con un attivo da ripartire tra i soci.

In realtà, la liquidazione di una società avviene anche in caso di procedura fallimentare avviata da un giudice con il supporto di un curatore, a seguito di un’istanza di fallimento richiesta dai creditori. La differenza sostanziale, è che nel caso di fallimento, l’imprenditore è privato di ogni potere.

Conseguenze per i dipendenti di una società in liquidazione

Nel caso di fallimento di una società, il Fondo di Garanzia dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale provvede al pagamento delle ultime tre retribuzioni mensili maturate dai dipendenti nell’ultimo anno dalla dichiarazione fallimentare e al Trattamento di Fine Rapporto.

L’erogazione non avviene in modo automatico. I dipendenti a cui devono essere pagati gli stipendi arretrati, devono presentare un’istanza all’Ente a seguito dell’ammissione allo stato passivo del fallimento che avviene tramite udienza da parte del giudice, il quale accerta il credito e autorizza l’INPS a pagarli. Il credito va comprovato previo domanda effettuata al Curatore con il Cud o le buste paga o il contratto di lavoro.

Nel caso di società in liquidazione, con i dipendenti che avanzano ancora delle retribuzioni, per riceverne il pagamento devono inoltrare domanda alla società tramite Posta Elettronica Certificata o raccomandata con prova di consegna all’indirizzo della sede legale della società.

Se la società non dovesse provvedere al saldo degli arretrati, i lavoratori possono presentare un’istanza fallimentare in tribunale. Nel momento in cui essa viene accolta e si procede con l’apertura del fallimento, interviene l’INPS per pagarli tramite il proprio Fondo di Garanzia. La richiesta deve essere formale, eventualmente redatta da un avvocato.

In attesa dell’eventuale accoglimento della suddetta istanza, il debito resta in capo alla società e i lavoratori, nel caso non dovessero ricevere nemmeno in seconda battuta il TFR o le retribuzioni arretrate dalla stessa, saranno costretti ad attendere la decisione del tribunale.

Durata della liquidazione di una società

Purtroppo per i dipendenti che non hanno ricevuto gli arretrati dalla società in liquidazione per cui hanno lavorato, la durata della stessa può corrispondere anche a diversi anni. Dipende da quanti beni deve vendere la società e dalla platea degli acquirenti. Per questo motivo e nel caso ci si possa fare un’idea della possibile solvenza della società, a volte è consigliabile ricorrere all’istanza di fallimento.

Per approfondire l’argomento:

Quando si mette una SRL in liquidazione e la procedura relativa

La società a responsabilità limitata (SRL) è una società di capitali, quindi con personalità giuridica. Già dal nome, si evince che per le obbligazione sociali ne risponde solo il capitale versato dai soci e non i beni personali di ciascuno.

Per questo motivo e perché è sufficiente un capitale pari a 10.000 euro all’atto costitutivo, la SRL è la forma giuridica più utilizzata tra le società di capitali. Tra l’altro, esistono anche altri due tipi di società a responsabilità limitata: a capitale minimo e semplificata, per cui è possibile versare inizialmente anche un solo euro, con l’obbligo assunto dei soci di versare ogni anno almeno il 20% degli utili conseguiti, fino al raggiungimento di 10.000 euro.

Quando si mette una SRL in liquidazione?

Anche una SRL può giungere alla cessazione dell’attività economica e non sempre per motivi di carattere finanziario. In tal caso, viene avviata la procedura di liquidazione prevista dal codice civile. L’iter prevede che il patrimonio dell’azienda venga trasformato in denaro, con successiva estinzione dei debiti sociali e la divisione dell’eventuale attivo tra i soci.

Esistono tre tipi di liquidazione di una SRL: volontaria, giudiziale e coatta amministrativa.

La liquidazione volontaria si verifica quando i soci decidono liberamente di chiudere l’attività produttiva o commerciale dell’azienda. La liquidazione giudiziale è disposta dal tribunale, mentre la liquidazione coatta amministrativa è disposta per l’appunto dall’autorità amministrativa. Per procedere alla liquidazione è necessario seguire un iter previsto dal codice civile.

Procedura di liquidazione di una SRL: le tre fasi

La prima fase della procedura di liquidazione di una società a responsabilità limitata consiste nell’accertamento della causa che ha portato allo scioglimento della società. La seconda fase consiste nell’esecuzione del procedimento di liquidazione. La terza fase è rappresentata dall’estinzione della società per cui è necessario prima procedere alla cancellazione dal Registro delle Imprese.

L’unico caso in cui non si procede con la liquidazione, è quando la società non presenta né debiti né crediti, come per le aziende inattive. In ogni caso, l’atto di chiusura deve essere predisposto dal notaio su richiesta dei soci, che dopo averlo redatto provvederà a consegnarlo alla Camera di Commercio.

Tuttavia, ci sono delle eccezioni che consentono di non rivolgersi al notaio obbligatoriamente: per mancanza della pluralità dei soci; per avvenuta scadenza dell’atto costitutivo; al raggiungimento dell’oggetto sociale o per impossibilità di raggiungerlo. In questi casi, va presentata una dichiarazione sostitutiva di notorietà nella quale va indicata la causa di scioglimento e l’assenza di debiti o crediti, quindi, la cessazione dell’attività imprenditoriale. Tale procedimento viene attivato con la Camera di Commercio che oltre alla chiusura dell’azienda procederà con la nomina dei liquidatori.

Accertamento della causa di scioglimento della SRL

Come detto poc’anzi, la prima fase della procedura di liquidazione di una SRL consiste nell’accertamento da parte dell’amministrazione della società, di una causa esistente per lo scioglimento della società. Tale causa può essere rappresentata dalla decorrenza dei termini; da una delibera dell’assemblea; da una decisione giudiziaria e del tribunale amministrativo; dall’apertura di una procedura d’insolvenza; dall’avvenuto raggiungimento dell’oggetto sociale o per l’impossibilità di conseguirlo; dal mancato funzionamento continuato dell’assemblea; dalla riduzione del capitale minimo legale. Oppure altre cause previste dallo statuto o dall’atto di costituzione.

Esecuzione della procedura di liquidazione della SRL

La seconda fase del procedimento di liquidazione di una società a responsabilità limitata, consiste nella sua esecuzione. I liquidatori devono depositare le proprie nomine al Registro delle Imprese, una volta da esso iscritte, prendono il posto degli amministratori attraverso il passaggio di consegne di libri sociali e contabili e di altri documenti amministrativi. Dopodiché, i liquidatori possono procedere con la cessazione e liquidazione dell’attività societaria fino al pagamento dei creditori della società.

Estinzione della società

La terza e ultima fase della procedura di liquidazione di una SRL è la cancellazione della società dal Registro delle Imprese che avviene quando è stato presentato il bilancio finale di liquidazione, con l’estinzione dei crediti e l’eventuale ripartizione tra i soci di un attivo.

Procedura semplificata di liquidazione

E’ possibile effettuare la liquidazione di una SRL con procedimento semplificato tramite l’organo amministrativo che accerta la causa di scioglimento, convoca l’assemblea per la nomina dei liquidatori dopo che la constatazione relativa è stata depositata al Registro delle Imprese. Il tutto, senza intervento del notarile.

Questa procedura è applicabile nel caso di scioglimento della società previsto dal n.1 al n.5 dell’art. 2484 del codice civile.

Se sei interessato, puoi leggere: Procedura fallimentare: sintesi dell’iter

Quali sono le caratteristiche del fallimento aziendale?

Oggi andremo a scoprire, nell’intrepido mondo del lavoro, cosa vuol dire rischiare con la propria azienda e, soprattutto cosa accade nel caso di fallimento aziendale. Una breve e rapida guida per comprendere le caratteristiche di un fallimento aziendale. Una possibilità, di questi tempi non poi difficile per gli imprenditori.

Cos’è un fallimento aziendale?

Partiamo subito col dire, in breve, che il fallimento è quel procedimento giudiziario concorsuale liquidatorio che ha inizio in seguito ad una sentenza del Tribunale e che dichiara, quindi, fallito l’imprenditore in stato di insolvenza, ovvero impossibilitato a pagare i debiti.

Dichiarare il fallimento ha lo scopo di soddisfare i creditori dell’azienda fallita, previa la liquidazione, ovvero la vendita dei beni aziendali o personali.

Quindi, sostanzialmente la richiesta di fallimento aziendale è una sorta di “liberazione” per il titolare di impresa, nel momento in cui il proprio fondo monetario è al rosso. Ma, anche una sorta di nuovo calvario che può portare a conseguenze ben poco piacevoli per chi dichiara o ottiene il fallimento.

Ma chi può chiedere o subire il fallimento aziendale?

Tenendo fede all’ articolo 1 della Legge Fallimentare non tutti possono fallire. Il fallimento dell’azienda, di fatto, è possibile solo per le imprese private che esercitano un’attività commerciale, sia che si tratti di aziende di tipo individuale o siano esse di tipo societario. Possiamo dunque asserire che sono escluse da tale procedura le imprese pubbliche, le imprese non commerciali e le imprese agricole. Ma troviamo fuori da questa procedura pure i piccoli imprenditori, come i coltivatori diretti, gli artigiani, chi esercita un’attività professionale organizzata prevalentemente con il proprio lavoro o quello dei propri familiari.

Dunque, la Legge prevede che solo i soggetti legittimati possano chiedere il fallimento aziendale, come nei seguenti casi:

1) il debitore, ovvero l’imprenditore che dimostra di essere inadempiente di pagamenti
2) i creditori, che devono dimostrare di essere in credito non risolto, nei confronti dell’imprenditore previa lo stato di insolvenza di quest’ultimo
3) il Pubblico Ministero, qualora l’insolvenza dell’impresa risulti nel corso di un procedimento penale od anche in seguito ad una segnalazione proveniente da un giudice nel corso di un procedimento civile o fallimentare, od ancora se si presentasse la latitanza del debitore.

Ora, non ci resta che scoprire cosa può accadere come conseguenza di un fallimento aziendale.

Le conseguenze del fallimento aziendale

Andiamo in ultimo, ma non ultimo a vedere quali possono essere le conseguenze di un fallimento aziendale. Una filiera di conseguenze non proprio idilliache che si parano dinnanzi all’imprenditore in disarmo.

A seguito della ottenuta procedura di fallimento, l’imprenditore subisce lo spossessamento. Ciò vorrà dire che l’imprenditore non perde la proprietà dei suoi beni, ma non può né gestirli né amministrarli. I seguenti beni sono sottoposti allo spossessamento:

  • beni mobili e immobili
  • diritti patrimoniali e potestativi
  • beni di proprietà del fallito in via provvisoria
  • beni che appartengono a terzi soggetti che vantano un diritto inopponibile alla procedura
  • beni ottenuti dopo la dichiarazione di fallimento

Non possono, invece essere soggetti a spossessamento i beni personali, come la pensione, gli alimenti, gli stipendi, perquanto sono ritenuti necessari al mantenimento dell’imprenditore (o ex imprenditore) e della propria famiglia. Inoltre, l’imprenditore fallito dovrà depositare i bilanci e le scritture contabili e fiscali obbligatoriel’elenco dei creditori e consegnare tutta la corrispondenza relativa all’impresa al Curatore fallimentare.

Dovrà, inoltre, comunicare anche ogni eventuale cambio di residenza o di domicilio e presentarsi personalmente di fronte agli organi preposti alla procedura di fallimento ogni volta che sia richiesto. Insomma, una condizione non proprio idilliaca, quasi alla stregua di un criminale, quella che si prospetta agli occhi di un imprenditore che dichiara (o riceve) il fallimento aziendale.

Ora che avete avuto una breve sintesi di cosa comporta un fallimento aziendale non vi resta che rimboccarvi le maniche, tenervi tranquilli i creditori, qualora già ve ne siano in vista ed evitare di barcamenarvi in una situazione di bilancio in rosso. Sebbene, di questi tempi di crisi economica e sociale diviene tutto ancor più complicato da gestire. Sempre che voi siate degli imprenditori o abbiate intenzione di diventarlo a breve.

Procedura fallimentare: sintesi dell’iter

Il fallimento di un’azienda riguarda le imprese private che esercitano un’attività commerciale, siano esse individuali o societarie. Quindi, sono escluse dalla procedura fallimentare le imprese agricole e quelle pubbliche, così come i piccoli imprenditori che svolgono un’attività professionale organizzata con il proprio lavoro o quello dei propri familiari. C’è da precisare che non rientrano nei piccoli imprenditori, coloro che hanno investito nella propria azienda un capitale di importo superiore a 300mila euro o anche hanno conseguito un reddito lordo medio annuo sugli ultimi tre anni di attività o dal suo inizio (se sono trascorsi meno di tre anni) superiore a 200mila euro.

Lo stato d’insolvenza e chi può chiedere il fallimento

Affinché si possa definire fallito l’imprenditore delle suddette aziende, è necessaria la sussistenza di uno stato d’insolvenza che non gli consente più di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni tempestivamente e con normali strumenti, in quanto vengono a mancare liquidità e credito fondamentali per l’attività.

Ma chi può chiedere il fallimento di un’azienda? Il debitore, ovvero l’imprenditore che versa in uno stato d’insolvenza dimostrabile. I creditori che devono dimostrare l’esistenza di un credito nei confronti dell’impresa e la situazione di insolvenza del suo titolare. Il Pubblico Ministero, in caso l’insolvenza dell’azienda risulta nel corso di un procedimento penale, dalla mancata reperibilità o fuga dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dalla sostituzione o diminuzione fraudolenta dell’attivo o a seguito di una segnalazione da parte del giudice nel corso di un procedimento civile.

Procedura fallimentare: sintesi dell’iter

L’organo che si occupa di tutta la procedura fallimentare è il tribunale competente del territorio nel quale risiede l’impresa. Tutti i suoi provvedimenti sono pronunciati per decreto.

Il procedimento per la dichiarazione di fallimento ha luogo in tribunale, in composizione collegiale, con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio. Tuttavia, il procedimento può essere affidato anche ad un giudice relatore, nominato dal presidente del tribunale.

La procedura che segue la domanda è denominata istruttoria fallimentare, introduttiva alla dichiarazione di fallimento, che deve accertare l’esistenza dei presupposti necessari ai fini della fallibilità. Ma quali sono gli step?

Le parti vengono convocato in udienza, entro 45 giorni dal deposito del ricorso, fermo restando l’obbligo che siano trascorsi 15 giorni tra l’udienza e la notificazione del ricorso ed emissione del decreto dell’udienza. Entro massimo 7 giorni dall’udienza, le parti possono presentare memorie, documenti e relazioni tecniche. L’imprenditore deve depositare i bilanci degli ultimi tre anni d’esercizio e la situazione economica, finanziaria e patrimoniale. Il tribunale ha facoltà di emissione di provvedimenti cautelari o conservativi ad istanza di parte, a tutela del patrimonio dell’impresa per la durata dell’istruttoria fallimentare.

L’esito della procedura fallimentare

L’iter fallimentare può terminare con una sentenza che dichiara il fallimento, nel caso in cui il tribunale ritenga fondati i motivi del ricorso. Con un decreto che rigetta il ricorso, qualora il tribunale ritenga che non ci siano i presupposti per accogliere l’istanza di fallimento. L’archiviazione del procedimento. Una dichiarazione d’incompetenza alla quale seguirà l’investitura del tribunale competente e la trasmissione degli atti a quest’ultimo.

Il tribunale dichiara il fallimento dell’imprenditore con sentenza che, entro il giorno successivo al deposito in cancelleria, è notificata, su richiesta del cancelliere, al Pubblico Ministero, al debitore ed è comunicata per estratto, al curatore e al richiedente il fallimento.

L’estratto deve contenere i nomi del debitore e del curatore, il dispositivo e la data del deposito della sentenza.

La sentenza dichiarativa al fallimento produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione, mentre nei confronti di terzi gli effetti si producono dalla data d’iscrizione della sentenza nel registro delle imprese. Si può presentare reclamo contro la sentenza entro 30 giorni.

Conseguenze patrimoniali

Lo spossessamento avviene quando il fallito perde la disponibilità e l’amministrazione dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione del fallimento. Gli atti compiuti dell’imprenditore successivamente la dichiarazione fallimentare sono inefficaci nei confronti dei creditori. Il fallito perde la legittimazione processuale nelle controversie concernenti i rapporti patrimoniali, per le quali sta in giudizio il curatore fallimentare.

Codice della crisi e dell’insolvenza

Da sottolineare, che in data 5 novembre 2020 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto correttivo che contiene le disposizioni correttive e integrative al Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. L’entrata in vigore è fissata per il 1° settembre 2021, ma qualche norma è entrata in vigore già dopo 15 giorni dalla pubblicazione. Si fa riferimento all’albo dei professionisti incaricati di gestire e controllare le procedure; alla disposizione che l’istituzione dei relativi assetti organizzativi, contabili e amministrativi con riferimento alla crisi d’impresa e all’assenza di continuità aziendale, spetta solo agli amministratori.

Dal 1° settembre 2021, le modifiche che entreranno in vigore riguardano la definizione di stato di crisi, la procedura di allerta, le modalità di designazione dei componenti dell’Organismo di composizione della crisi d’impresa, il ruolo del Pubblico Ministero, le misure di protezione, gli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento e di ristrutturazione ad efficacia stessa, l’esecuzione del piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore, il concordato preventivo, la revocatoria fallimentare, l’accertamento del passivo, l’esdebitazione.

Come chiudere una srls senza notaio

Nel mese di giugno del 2012, nell’ordinamento giuridico italiano, è stata introdotta la srls, ovverosia la società a responsabilità limitata semplificata. Rispetto alla classica srl, in particolare, per fare impresa la società a responsabilità limitata semplificata permette di evitare di sostenere spese iniziali eccessive, e permette anche di non dover essere in possesso di un capitale elevato per la sua costituzione.

Ma nonostante tutto ciò spesso le srls non hanno successo e, quindi, dall’apertura si passa anche in breve tempo alla chiusura che potrebbe rivelarsi a sua volta un’operazione costosa nel caso in cui, per esempio, ci fossero da sostenere delle spese notarili. Ed allora, come chiudere una srls senza notaio?

Ecco come si può chiudere una srls senza il notaio

Nel dettaglio, la società a responsabilità limitata semplificata si può chiudere senza il bisogno di un notaio ma a patto di seguire l’iter corretto che poi porterà al perfezionamento della procedura di scioglimento. In particolare, per chiudere una srl semplificata gli amministratori della società, anche se questi non sono soci, devono accertare che, ai sensi di legge, per la chiusura sussista una o più cause di scioglimento.

Verificata la sussistenza di una o più cause di scioglimento per la srls, lo step successivo è rappresentato dalla convocazione dell’assemblea dei soci che, nello specifico, dovrà prima prendere atto della causa di scioglimento della società, e poi dovrà procedere alla nomina di un liquidatore.

Con quest’ultimo che sarà chiamato alla chiusura dei debiti e dei crediti ai fini della gestione completa e regolare di tutte le partite contabili che sono ancora rimaste in sospeso. Solo a questo punto per la società a responsabilità limitata semplificata si potrà procedere allo scioglimento senza il notaio prima con l’approvazione del bilancio finale, e poi presentando l’istanza di cancellazione della srls dal registro delle imprese.

Quali sono le cause di scioglimento di una società a responsabilità limitata semplificata

La causa di scioglimento più comune, per una società a responsabilità limitata semplificata, è quella relativa al mancato conseguimento del cosiddetto oggetto sociale. Ovverosia, la srls è stata costituita per uno scopo, ma poi con il tempo ci si accorge che questo non è più concretamente raggiungibile. Ma allo stesso modo c’è il caso che è diametralmente opposto. Ovverosia la società a responsabilità limitata semplificata ha pienamente conseguito l’oggetto sociale e, quindi, non ha più motivo di esistere.

Tra le cause di scioglimento di una srls, inoltre, c’è pure quella della riduzione del capitale al di sotto del minimo obbligatorio per legge. Pur tuttavia, quella della srls in perdita, generalmente, non è una condizione valida per lo scioglimento della società. In tal caso, infatti, la legge prevede e permette ai soci di poter far ricorso al capitale al fine di appianare le perdite.

Le alternative alla chiusura di una srls, dalla cessione delle quote alla trasformazione

Prima di chiudere una srls, anche senza notaio, in genere i soci valutano pure dell soluzioni alternative. Una di queste è quella classica, ovverosia quella che è rappresentata dalla cessione delle quote a terzi che hanno la volontà e, soprattutto, i mezzi per conseguire l’oggetto sociale. Così come è possibile trasformare una srls in una società a responsabilità limitata ordinaria.

Assunzione per sostituzione maternità: caratteristiche del contratto

L’assunzione per sostituzione maternità è un contratto stipulato per sostituire  una lavoratrice che gode dell’astensione obbligatoria dal lavoro per maternità. Ecco come funziona.

Quando si stipula il contratto di assunzione per sostituzione maternità

Come risaputo, la legge (Testo Unico della maternità D. Lgs 151/2001 e s.m.i. ) prevede delle tutela per la donna lavoratrice in gravidanza, in particolare è previsto un periodo di astensione obbligatoria, cioè la donna non può continuare a lavorare, tale periodo inizia due mesi prima la data prevista per il parto e termina 3 mesi dopo il parto. La lavoratrice può posticipare l’inizio del periodo di astensione obbligatoria e quindi usufruire del mese antecedente la data prevista per il parto e 4 mesi successivi al parto. Per poter posticipare l’inizio del periodo di astensione obbligatoria è necessario un certificato medico che attesti  che tale scelta non compromette le condizioni di salute della donna e del nascituro.  Le stesse norme si applicano anche in caso di adozione: il periodo di congedo di maternità inizia con l’ingresso del bambino in casa.

Per l’azienda il congedo di maternità può creare sicuramente problemi perché nell’organico vi è un posto vacante, per riempire tale vuoto può utilizzare il contratto di assunzione per sostituzione maternità. Si tratta di un contratto che ha caratteristiche ben determinate, infatti occorre ricordare che la donna lavoratrice al termine del periodo di congedo deve ritornare al lavoro e ha diritto ad essere collocata nella stessa posizione e nelle stesse mansioni che svolgeva in precedenza. Il contratto per sostituzione maternità è disciplinato dall’articolo 4 del D.lgs 151 del 2001 che al comma 1 sottolinea che il datore di lavoro può assumere personale con contratto di lavoro a tempo determinato o temporaneo per la sostituzione delle lavoratrici.

Come funziona il contratto per sostituzione maternità

Il contratto per sostituzione maternità è anche conosciuto con il nome di “contratto per sostituzione con diritto alla conservazione del posto”, questa locuzione sottolinea bene le caratteristiche del contratto, infatti chi sostituisce la donna che usufruisce del congedo di maternità in nessun caso potrà aspirare a vedere la trasformazione di questo contratto. Può però essere stipulato successivamente un nuovo contratto, ma non sarà “per sostituzione maternità” sarà un nuovo posto di lavoro.  Come è stato già chiarito, a questo contratto si applica la disciplina prevista per il contratto a tempo determinato.

La prima cosa da dire è che il lavoratore/lavoratrice che sostituisce la donna in maternità avrà per quel determinato periodo gli stessi diritti della lavoratrice sostituita. Viste le caratteristiche del contratto in esso devono essere indicate anche le generalità della persona che si sostituisce ( in teoria potrebbe essere sostituito anche un lavoratore uomo in congedo di paternità). Nel contratto devono essere stabilite tutte le caratteristiche del lavoro: inquadramento contrattuale, mansioni da svolgere, ferie, retribuzione e contratto collettivo applicato.

La durata del contratto

Nel contratto deve essere stabilita anche la durata a tal proposito è però necessario fare delle precisazioni. Si è detto che l’astensione obbligatoria ha la durata di 5 mesi, la normativa però prevede che il lavoratore che deve sostituire la donna che usufruisce del periodo di astensione obbligatoria debba svolgere un periodo di affiancamento nelle mansioni di un mese, articolo 4, comma 2, d.lgs 151 del 2001 ( la contrattazione collettiva può prevedere anche periodi di affiancamento maggiori), quindi l’ingresso effettivo non si ha quando inizia la maternità, ma un mese prima. Tendenzialmente la durata minima del rapporto di lavoro è quindi di sei mesi.

Potrebbe però capitare che la donna/madre lavoratrice decida di usufruire anche di sei mesi di astensione  facoltativa o congedo parentale, questo vuol dire che il contratto potrebbe avere validità di 12 mesi. Affinché questo avvenga è necessario che all’interno del contratto originario indicata la possibilità di proroga. Una formula ampia spesso utilizzata è “fino al rientro della signora X dalla maternità”.

Per questo tipo di contratto la normativa, articolo 4 comma 3 d.lgs 151 del 2001, ha previsto uno sgravio contributivo in favore del datore di lavoro del 50% per le aziende che hanno meno di 20 dipendenti.

Curiosità sull’assunzione per sostituzione maternità

Possono verificarsi delle situazioni particolari, ad esempio può verificarsi che l’azienda assuma il lavoratore Sergio Bianchi con contratti di lavoro a tempo determinato. A un certo punto la dipendente Maria Bianchi inizia il periodo di astensione obbligatoria e l’azienda decide di stipulare il contratto di lavoro per sostituzione maternità proprio con Sergio Bianchi, questo perché ha già conoscenza dell’azienda, ha già svolto le mansioni e quindi si preferisce stipulare il contratto con lui. In questo caso il periodo di assunzione per sostituzione deve essere sommato ai fini del computo del limite massimo dei 36 mesi stabilito dall’art. 19 D.Lgs.81/2015? In base all’interpretazione corrente sì. Questo vuol dire che il lavoratore avrà diritto ad avere il contratto di lavoro a tempo indeterminato, questo contratto però non potrà ledere i diritti di Maria Bianchi.

Come si definisce il Concept, il progetto di un viaggio Incentive

I criteri ed i bilanci di valutazione sono il primo passo per un’attenta analisi della fattibilità e del successo di un “Travel Incentive”

Come nasce un viaggio d’incentivazione 

Un viaggio incentive è un meeting fuori dal comune, un incontro fuori dagli standard e dagli schemi. È un’iniziativa elaborata, tecnicamente e dettagliatamente organizzata, dove i partecipanti prendono posto ad un evento, creato appositamente per loro, che può avere una durata variabile.

Può svolgersi all’interno di un week end, o protrarsi anche per 5 giorni. Ad ogni modo, difficilmente potrebbe durare più di una settimana.  

Per tutti questi motivi è fondamentale avvalersi della professionalità di chi, in questo settore, è maestro.

Questo è il motivo per il quale conviene chiedere l’aiuto di veri professionisti del mestiere. Esiste una rete di collaboratori esterni all’azienda che è pronta a scendere in campo per progettare un’esperienza mirata, in base alle specifiche richieste dell’azienda che ne richiede i servigi.

Primo step di valutazione nella progettazione di un “Incentive Travel”

La prima cosa importante da capire e valutare è se, effettivamente, la progettazione di un viaggio così articolato, possa essere considerato un valido investimento, ovvero se sarà  in grado di portare benefici all’impresa che lo ha richiesto. Dunque, se sarà possibile parlare di un ritorno in termini di rendimento, che dovranno essere certamente superiori ai costi sostenuti per poterlo realizzare.

Dopo questa prima fase si può procedere con il secondo step e cioè, per l’azienda è il momento di stabilire i criteri di assegnazione e renderli comprensibili per tutti i partecipanti. 

Il dipendente che si aggiudicherà il tanto agognato viaggio, sarà colui, saranno coloro i quali avranno centrato l’obiettivo stabilito, nei tempi prefissati.

A chi rivolgersi e perché

Parliamo delle “Incentive House”, le agenzie di incentivazione, capaci di realizzare e personalizzare, per ciascun cliente, il viaggio incentive che più si addice al tipo di missione richiesta, al tipo di percorso motivazionale che si vuole sperimentare. Basandosi, principalmente, sul profilo dell’impresa richiedente e sulla finalità che la stessa vorrebbe poter ricavare da una condivisione, da un’esperienza mirata e personalizzata.

Il programma, generalmente, è un equilibrio tra momenti di lavoro e momenti di puro svago, poiché la natura di questi viaggi è quella di incentivare, motivare, ma anche emozionare e creare tempi ludici finalizzati all’aggregazione.

Il viaggio, infatti, ha lo scopo di creare un team, uno spirito di squadra, dinamico e coinvolto. L’esperienza del viaggio deve essere in grado di creare coesione, affiatamento e complicità. L’obiettivo finale è quello, infatti, di rafforzare i rapporti tra i partecipanti per accrescerne l’autostima, incoraggiandoli e stimolandoli in una sincera competizione. 

Alla fine di un viaggio incentive, di un percorso formativo quanto emozionale, ciò che resta è il bagaglio di esperienza che si porta con se, un’esperienza unica ma condivisa, ricca di momenti speciali che saranno ricordati nel tempo.

E saranno proprio questi ricordi, questa scorta motivazionale ad essere scintilla di una creazione di un nuovo gruppo lavorativo. Avremo dei dipendenti più forti e sicuri delle proprie potenzialità, capaci di aumentare il rendimento di un’impresa, perché più motivati.

Questa tipologia di viaggio, data la natura centrate del suo essere, è una potenziale strategia di investimento di cui le aziende, tutte, possono disporre per far accrescer il proprio fatturato interno.

Ricordiamo, infatti, che non può esserci crescita senza sviluppo, e senza alcuna crescita non è possibile guardare al futuro.

Bollo auto, tutto quello che c’è da sapere sulla tassa automobilistica

Il bollo auto e una tassa automobilistica obbligatoria per tutte le persone che posseggono un auto, iscritta al Pubblico Registro Automobilistico (PRA), a prescindere o meno se la si usa. E nata come una tassa di circolazione il 5 febbraio 1953 grazie ad un decreto del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi e del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi.

Fino al 31 dicembre del 1997 l’automobilista doveva esporre obbligatoriamente il contrassegno di avvenuto pagamento del bollo (aveva le fattezze del contrassegno assicurativo). Ora questo obbligo non susssite più

Quando si paga il bollo auto?

Il bollo si versa con cadenza annuale, e si può pagare fino all’ ultimo giorno del mese successivo a quello di scadenza. Per gli autoveicoli superiori a 35kw ci sono tre date ben distinte per il pagamento del bollo: Aprile, Agosto, e Dicembre.

Per le auto nuove il primo bollo va pagato entro l’ultimo giorno del mese dell’immatricolazione, eccezione fatta se l’auto e stata immatricolata gli ultimi dieci giorni del mese allora si avrà tempo tutto il mese successivo per poter pagare.

Per approfondire consigliamo la lettura dell’articolo: Bollo auto: chi lo paga in caso di vendita auto, vecchio o nuovo proprietario?

Come calcolare il bollo auto

Per calcolare il Bollo auto basta sapere di quanti kilowatt dispone la propria vettura. Di solito i Kw sono riportati sul libretto di circolazione, ma qualora questo dato non sia presente si può ricavarlo dividendo i cavalli per 1,35962 (mettiamo caso che la nostra auto ha 75 cavalli  faremo 75/1,35962 = 55 kilowatt).

Una volta che abbiamo acquisito i kilowatt del veicolo dobbiamo sapere anche in quale classe ambientale e collocato la nostra auto. Le classi ambientali servono a distinguere le varie fasce di inquinamento che l’automobile produce (i famosi NOx) si suddividono in: Euro 0, 1,2,3,4,5 e 6.

Adesso abbiamo tutto quello che ci serve per calcolare il costo del bollo, di seguito vi riporto le fasce di prezzo in base alla classe d’inquinamento:

  • Euro 0  si pagherà 3€ per ogni kilowatt fino ad un massimo di 100 kw  invece per auto superiori a 100 kw il costo è di 4,50€ per ogni Kw
  • Euro 1: da un minimo di  2,90 € per ogni kw  ad un massimo di 4,35€ per veicoli superiori a 100kw
  • Euro 2: da 2,80€  ad un massimo di 4,20 per auto superiori a 100 kw
  • Euro 3: da 2,70€ a 4,05€ per auto superiori a 100 kw
  • Euro 4, 5 e 6: da 2,58€  a 3,87€ per auto superiori a 100 kw.

Tuttavia esiste un metodo ancora più semplice per calcolare il costo del bollo auto, e si può fare direttamente dal sito dell’agenzia dell’entrate oppure sul sito dell’ ACI, inserendo  semplicemente la targa della vostra auto.

Per chi acquista un auto usata il pagamento del bollo spetta al nuovo proprietario solo se il passaggio di proprietà viene fatto prima del termine di scadenza del bollo (esempio: il Signor Rossi acquista un auto usata, il bollo scade il 31 maggio se il passaggio viene fatto 26 maggio il nuovo bollo dovrà pagarlo il Sig. Rossi). Tutti i bolli pregressi che risultassero non pagati, sono a carico del vecchio proprietario.

Dove si può pagare il bollo auto?

Prima la tassa di Possesso/bollo auto si poteva pagare soltanto presso una delegazione ACI, oggi con l’avvento dei pagamenti elettronici è possibile pagare il bollo in: Posta, agenzie di pratiche auto, tabaccherie, ricevitorie Lottomatica presso gli sportelli bancomat abilitati, ACI e online tramite il sito dell’ACI , l’on-banking e il servizio per smartphone IO.it

Per poterlo pagare bisogna portare il libretto della auto oppure un bollo vecchio.

Cosa succede se non si paga il bollo auto?

Dopo i termini massimi di scadenza del bollo auto abbiamo ancora un mese di tempo per non incorrere in sanzioni. Se si paga il bollo con ritardo massimo di un anno dalla data di scadenza si ha un aumento che va dallo 0,1 al 3,75% in base al tempo che è passato (Ravvedimento Operoso), passato un anno invece si ha una vera e propria sanzione quantificata in 30% più un interesse del 0,5% per ogni sei mesi di ritardo inoltre il veicolo può essere sottoposto a Fermo Amministrativo.

Se non si paga il bollo per tre anni consecutivi vi è la cancellazione del veicolo dagli archivi del PRA (Pubblico Registro Automobilistico) e gli organi di Polizia ritireranno targhe e carta di circolazione.

Bollo auto ridotto come funziona?

Fino a tutto il 2014 le auto ventennali avevano un’agevolazione per quanto riguardava il costo del bollo, poi con la legge di Stabilità del 2015 legge 190/2014 il legislatore ha difatti eliminato questo beneficio,  poi reintrodotto con la legge di bilancio del 2009.

L’autovettura, al compimento del ventesimo anno di età, può usufruire di uno sconto del 50%  purché  sia in possesso di un certificato di rilevanza storica rilasciato dall’ASI.

Per le automobili che compiono 30 anni il bollo viene automaticamente abolito solamente se non la si usa, si dovrà invece versare un importo che si aggira intorno ai 30 euro ( può cambiare da regione a regione) se si vuole usare l’auto su strade pubbliche.

Sono previste delle agevolazioni nel pagamento del bollo auto per le auto ibride, quelle elettriche e quelle a GPL e metano.

Cosa si intende per formazione aziendale e quando conviene al datore di lavoro?

Per un’impresa la gestione delle risorse umane è una delle attività centrali al fine di poter restare competitiva sul mercato. E questo avviene non solo assumendo i migliori profili, ma anche programmando per i lavoratori dei percorsi interni che siano finalizzati all’acquisizione nel tempo di nuove competenze o comunque di competenze specifiche.

Perché la formazione aziendale deve stare in cima agli investimenti nel capitale umano

Tutto questo avviene tramite la formazione aziendale che, per un’impresa lungimirante, rappresenta sempre un investimento e mai un costo. Perché per un’azienda ricca anche a livello professionale è più facile raggiungere gli obiettivi economici e finanziari proprio attraverso gli investimenti nel capitale umano. Ma detto questo, la formazione aziendale quando conviene davvero al datore di lavoro?

Al riguardo c’è da dire che, se ben pianificata, la formazione aziendale al datore di lavoro conviene sempre in quanto i ritorni nel medio e nel lungo periodo sono praticamente garantiti. Pur tuttavia, al pari di tutte le altre attività, pure per la formazione aziendale serve sia la pianificazione, sia lo stanziamento di risorse che, molto spesso, sono purtroppo limitate.

Come pianificare la formazione aziendale in quattro fasi ed i costi da sostenere

Per la pianificazione della formazione aziendale ci sono davvero tante strade percorribili. Con le scelte in merito che spesso sono influenzate sia dalle dimensioni dell’impresa, sia dal settore di business in cui opera.

In generale si può dire che la pianificazione della formazione aziendale può essere suddivisa in quattro fasi. Si parte, nello specifico, dall’analisi del fabbisogno a livello formativo per poi passare alla progettazione ed alla successiva erogazione dell‘intervento formativo. Ed infine si passa ad una valutazione dell’intervento formativo stesso.

In termini di costi per la formazione aziendale, questi variano proprio in ragione delle modalità di erogazione. E questo perché la formazione aziendale può essere gestita internamente in aula oppure online in modalità delocalizzata. Ma spesso si rende necessario andare a pianificare la formazione aziendale attraverso consulenti o società esterne. Ed in tal caso i costi da sostenere sono più alti.

La scelta della formazione aziendale continua con i fondi interprofessionali

Quando l’impresa è di medie e di grandi dimensioni, le attività di formazione che sono destinate ai lavoratori dipendenti sono continue. Ed in tal caso è opportuno valutare l’eventuale adesione ai fondi interprofessionali che, a livello finanziario, sono alimentati dallo 0,30% dei versamenti INPS.

I fondi interprofessionali, con l’adesione libera, nascono infatti con l’obiettivo di finanziare l’aggiornamento continuo dei lavoratori proprio attraverso le attività di formazione e di addestramento. Per esempio, in Italia c’è il fondo interprofessionale For.Te., il Fondo Artigianato Formazione ed il Fondo paritetico interprofessionale nazionale per la formazione continua in Agricoltura (FOR.AGRI) solo per citarne alcuni.

Oltre che libera e gratuita, l’adesione di un’impresa ad un fondo interprofessionale, inoltre, non è mai vincolante. E questo perché l’impresa potrà in qualsiasi momento decidere di revocare l’adesione ed anche decidere di cambiare il fondo interprofessionale al fine di poter soddisfare sempre al meglio le proprie esigenze formative destinate ai lavoratori dipendenti.