Pensione integrativa, a chi conviene aderire alla previdenza complementare e quando

A chi conviene aderire alla previdenza integrativa dei fondi pensione e in quale momento? Sono questi due tra i maggiori quesiti che si pongono i lavoratori nel momento in cui devono decidere se affidarsi a una futura pensione “di scorta” e a partire da quale età.

Perché si ricorre alla pensione integrativa?

Il ricorso alla pensione integrativa è dettato innanzitutto dalla motivazione di mantenere nel tempo una mensilità adeguata alle proprie esigenze e al tenore di vita condotto. Infatti, quando un contribuente va in pensione da lavoro, l’assegno mensile potrebbe non soddisfare le proprie necessità. Da qui l’esigenza di integrare la propria pensione futura con un assegno maturato sulla base dell’adesione volontaria ai fondi pensione.

Con l’aumento della speranza di vita le pensioni sono spalmate su più anni

La tendenza del ricorso alla previdenza complementare è tanto più ampia quanto maggiori sono i dubbi sulle pensioni da lavoro. Le pensioni pubbliche, infatti, continuano a subire nel tempo aumenti dei requisiti di uscita e diminuzione della rata mensile. A partire dagli anni ’90 il progressivo aumento della speranza di vita, e dunque l’incremento della vita media a partire dai 65 anni di età, ha avuto come conseguenza  l’allungamento del periodo in cui si beneficia della pensione, oltre a un maggior numero di anni di contributi da versare durante la vita lavorativa.

Previdenza integrativa: adesione perché le pensioni sono sempre più basse

Inoltre, proprio l’allungamento della vita da pensionato unito al forte rallentamento della crescita economica (con conseguente riduzione del peso dei contributi versati durante la vita lavorativa), ha imposto dei cambiamenti ai meccanismi previdenziali italiani. Il risultato ottenuto è quello che, progressivamente, si esce a un’età sempre più alta con un mensile di pensione sempre più basso a causa di coefficienti di trasformazione tendenzialmente al ribasso.

Contribuenti e futuro tenore di vita: l’integrazione dei fondi pensione

Con il superamento del sistema previdenziale retributivo, inoltre, le rivalutazioni delle future pensioni non saranno più legate, in alcun modo, all’aumento delle retribuzioni. In questo scenario di progressivo aumento della speranza di vita e di riduzione dell’assegno di pensione, il contribuente preoccupato del proprio tenore di vita futuro rappresenta il profilo più sensibile alle possibilità offerte dalla previdenza complementare.

Come sapere di quanto sarà l’importo mensile della pensione?

Il primo passaggio da compiere è conoscere quale sarà l’importo della propria pensione nel momento di uscita dal mondo del lavoro. L’Inps, ma anche altri siti specializzati in pensioni, ha creato una piattaforma (la Busta arancione) all’interno del proprio portale istituzionale per avere una stima di quello che sarà il futuro assegno previdenziale. Oltre all’importo prospettato per la pensione, dalla simulazione si può ricavare anche il tasso di sostituzione della previdenza obbligatoria.

Il tasso di sostituzione per capire se è necessario ricorrere alle pensioni integrative

Il tasso di sostituzione esprime il rapporto tra la prima rata di pensione e l’ultimo stipendio (o il reddito per i lavoratori autonomi). Pertanto, è l’indicatore che maggiormente descrive quale sarà la futura pensione rispetto allo stipendio in termini percentuali. Ad esempio, a fronte di uno stipendio attuale di 1200 euro e con un tasso di sostituzione pari al 70%, la futura pensione sarà di 840 euro.

Quanti dei contributi versati torneranno indietro sotto forma di pensione?

La simulazione Inps che consente di avere una stima della futura pensione (da ripete periodicamente per i cambiamenti che intervengono nella vita lavorativa) potrebbe rappresentare un primo indizio per il ricorso alla previdenza complementare. Quanto ritorna indietro dei contributi che si sono versati durante la vita lavorativa? Chi dalla simulazione ottiene un  risultato non soddisfacente, può giocarsi la carta della previdenza complementare. L’obiettivo è quello di avere un’alternativa previdenziale per poter beneficiare, in futuro, di una rendita che vada a integrare la pensione pubblica.

Fondo pensione: in che modo aderire?

Non è necessario che la rata mensile dei contributi versati a un fondo pensione sia elevata. Invece, è consigliabile spalmare la contribuzione complementare su un numero più ampio possibile di anni. Anche un importo non elevato può rappresentare, per un numero elevato di anni, una formula di previdenza e di risparmio soddisfacente. Inoltre, se si sceglie di aderire a un fondo pensione in giovane età è possibile aderire a fondi più rischiosi, ma con un rendimento più elevato. Diversamente, più si è vicini all’uscita per la pensione e maggiormente si vira verso fondi più sicuri e con rendimenti meno elevati.

Quali sono i vantaggi dell’adesione al fondo pensione in età giovanile?

Un aspetto del “quando aderire” è rappresentato dai vantaggi riservati ai più giovani. Infatti, meno elevata è l’età di partecipazione al fondo pensione e maggiori sono i benefici della previdenza complementare. Sono almeno quattro i vantaggi che possono riscontrarsi in un’adesione di lunga data:

  • la rivalutazione assicurata dai fondi con i connessi vantaggi della deducibilità fiscale;
  • La deducibilità fiscale per i versamenti previsti periodicamente per la partecipazione al fondo;
  • la possibilità di accedere a quanto già versato nel caso in cui si dovessero presentare situazioni di difficoltà;
  • il reintegro del capitale nei periodi più favorevoli.

Quanto si può avere in più di pensione con la previdenza complementare?

Con la stima della propria futura pensione è più facile scegliere, tra i fondi pensione, quello che potrà garantire l’integrazione utile a mantenere un tenore di vita adeguato. Per conoscere di quanto si può integrare la pensione con la previdenza complementare esistono sul web numerosi comparatori. Questi strumenti servono a mettere a confronto tra loro le diverse formule di pensione integrativa. L’attenzione va posta sulla soluzione che massimizza il rapporto dei costi di accesso ai rendimenti.

RITA: hai perso il lavoro? Scopri se puoi avere la pensione anticipata

Chi ha compiuto 57 anni, ha perso il lavoro ed è iscritto a una delle forme pensionistiche complementari, può andare in pensione in anticipo sfruttando la RITA, cioè la Rendita Integrativa Temporanea Anticipata, ma di cosa si tratta e come funziona?

Cos’è la RITA: Rendita Integrativa Temporanea Anticipata

La Rita è stata introdotta nel nostro ordinamento con la legge di bilancio del 2017, inizialmente aveva carattere sperimentale, dal 2018 è invece diventata una misura strutturale che consente a chi ha già un’età avanzata e difficoltà a ricollocarsi nel mondo del lavoro di andare in pensione con 10 anni di anticipo accedendo però al montante accumulato presso fondi pensione. Per poter accedere a questa misura sono previsti dei requisiti.

Possono accedere coloro che :

  • hanno cessato l’attività lavorativa;
  • sono inoccupati;
  • iscritti a forme pensionistiche complementari in regime di contribuzione fissa;
  • hanno maturato almeno 20 anni di contributi;
  • matureranno entro 5 anni dei requisiti anagrafici per accedere alla pensione di vecchiaia.

Quelli ora visti sono i requisiti previsti con l’introduzione della RITA nel 2017, con la legge di bilancio 2018, oltre a rendere strutturale questa misura, sono stati modificati in parte anche i requisiti.  Ora è previsto che possano accedere alla RITA anche coloro che hanno compiuto 57 anni, ma solo nel caso in cui abbiano già maturato 24 mesi di disoccupazione, si tratta quindi di lavoratori che hanno difficoltà a ricollocarsi nel mondo del lavoro. In questo caso è necessario che abbiano cessato l’attività lavorativa, che, tenendo in considerazione il regime pensionistico di appartenenza, avrebbero maturato i requisiti per il collocamento in pensione entro 10 anni e avere maturato almeno 5 anni di partecipazione a forme di pensionamento integrative (questi sono ridotti a 3 se il lavoratore si sposta tra gli Stati Membri dell’Unione Europea).

Come funziona la Rendita Integrativa Temporanea Anticipata

Al verificarsi delle condizioni viste, è possibile accedere alla Rendita Integrativa Temporanea Anticipata, ma come funziona? Possono accedere alla RITA i lavoratori del settore privato e del settore pubblico, che hanno aderito a fondi pensionistici aperti o chiusi. Restano esclusi da tale beneficio coloro che hanno aderito a fondi pensionistici attivi prima del 1993 in quanto non compatibili con tale normativa.

Diciamo fin da subito che non si tratta di un regalo, infatti abbiamo appena visto che per poter accedere al beneficio è necessario che il lavoratore sia iscritto a una forma di previdenza complementare. Normalmente con il pensionamento si accede anche a questa “pensione integrativa”, per coloro che decidono di chiedere la RITA il pagamento di quegli importi viene semplicemente anticipato e nel frattempo si continuano a maturare i requisiti anagrafici per raggiungere il pensionamento ordinario. Il lavoratore può scegliere di accedere a questi fondi attraverso il versamento della RITA mensile, bimestrale, trimestrale. La cadenza non può essere più ampia del trimestre.

Come riscattare la RITA

Il lavoratore inoltre può decidere di riscattare tutto il capitale tramite la RITA o solo una quota, una volta scelta la formula, il capitale viene poi ripartito in base all’effettivo montante accumulato. Nel caso in cui dovesse decidere di riscattare solo una quota, in seguito potrà comunque ricevere una piccola pensione integrativa, mentre nel caso in cui dovesse riscattare per intero le somme che gli spetterebbero, al momento del pensionamento ordinario, riceverà semplicemente l’assegno pensionistico maturato, sebbene i coefficienti in questo caso saranno diversi e l’importo mensile potrebbe essere leggermente più alto rispetto a quello che si avrebbe con il riscatto della pensione integrativa insieme all’ordinaria.

Prima di presentare la domanda RITA è bene documentarsi e valutare ogni opzione, infatti le varie riforme che hanno colpito il sistema pensionistico italiano hanno portato l’assegno mensile a essere sempre più basso, un’ulteriore riduzione è dovuta al fatto che negli ultimi anni è diventato difficile per i lavoratori avere una certa continuità contributiva. Di fatto sono tali elementi ad aver portato molte persone a scegliere dei piani previdenziali complementari il cui obiettivo è far in modo di avere una vecchiaia economicamente più serena. Intaccare quel piccolo capitale, in molti casi può voler dire avere condizioni economiche precarie durante la vecchiaia.

Come accedere alla RITA

Come si può notare, la RITA è prevista dalla legge, ma di fatto è gestita attraverso il proprio fondo pensionistico, questo vuol dire che per poter ottenere la Rendita Integrativa Temporanea Anticipata è necessario proporre la domanda al fondo che gestisce la propria pensione anticipata. Per presentare la domanda è necessario avere a disposizione l’Estratto Conto Integrato che si può ottenere tramite l’INPS. In alcuni casi i fondi pensione possono anche accettare l’autodichiarazione inerente gli anni di contributi effettivamente versati, ma riservarsi il diritto di chiedere anche in un secondo momento tale documento. Il consiglio è di produrlo fin dall’inizio in modo da evitare anche disguidi legati magari a periodi contributivi non versati dal datore di lavoro (purtroppo può capitare).

Vantaggi fiscali della RITA

Deve essere sottolineato che accedere alla RITA può portare dei vantaggi di tipo fiscale, infatti la rendita è tassata al 15%, solitamente la prima aliquota IRPEF è al 23%, inoltre nel caso in cui l’adesione alla previdenza complementare abbia avuto una durata superiore ai 15 anni, per ogni anno successivo al primo vi è una riduzione dell’aliquota dello 0,3%. La tassazione in ogni caso non può essere inferiore al 9%. I contribuenti possono però scegliere di non avvalersi di tale aliquota e scegliere quella ordinaria, tale scelta deve essere resa nota attraverso la dichiarazione dei redditi. L’aliquota ordinaria potrebbe essere un vantaggio per chi usufruisce di detrazioni fisclai importanti.

Deve, infine, essere sottolineato che la RITA dura fino al raggiungimento dei requisiti anagrafici per la pensione ordinaria e per un periodo massimo di 10 anni. Inoltre è cumulabile con altre prestazioni, ad esempio opzione donna, pensione anticipata, ape sociale e quota 100. L’erogazione della RITA può anche essere revocata, ad esempio nel caso in cui si riesca a trovare un lavoro e quindi si preferisca ricollocarsi nel mondo del lavoro.

Occorre ricordare che in caso di morte, il montante accumulato e non riscosso sarà comunque devoluto agli eredi/beneficiari.

Previdenza complementare, quanto bisogna versare per avere una ‘pensione di scorta’?

Quanto è necessario versare per avere in futuro una pensione di scorta? Il riferimento è alla pensione integrativa che permette di integrare l’assegno previdenziale una volta maturati i requisiti di uscita da lavoro. Tuttavia, l’importo stimabile su quanto versare per avere una soddisfacente pensione integrativa non è univoco, ma dipende da vari parametri.

In base a cosa si sceglie l’importo da versare per la pensione integrativa?

Incidono nella scelta di quanto versare per la pensione integrativa più fattori. Innanzitutto l’importo della pensione integrativa nel momento in cui spetta la prestazione previdenziale. In seconda battuta, di quanto si incrementa la pensione lavorativa decidendo di ricorrere anche alla pensione integrativa. Inoltre nella scelta va considerato anche il numero di anni che spettano di contribuzione per l’accumulo ai fini della prestazione integrativa. Infine, il rendimento netto derivante dalla propria scelta.

Come si procede per la scelta di quanto versare per la pensione integrativa

Il primo passaggio da compiere è quello di stimare la propria pensione lavorativa una volta che matureranno i requisiti per l’uscita da lavoro. È importante, in questo senso, tenere sotto controllo le simulazioni della “Busta arancione” dell’Inps, lo strumento che permette di stimare quale sarà l’importo mensile della futura pensione. Ottenuta l’informazione, è necessario immaginare di quanto dovrebbe essere l’incremento della pensione lavorativa versando alla previdenza complementare. Si tratta di un calcolo del tutto personale, basato sul proprio tenore di vita e sulle spese previste in futuro.  Dunque la pensione integrativa, insieme alla pensione pubblica, dovrebbe consentire di non perdere la situazione economica che il contribuente ha durante la vita lavorativa.

Pensione integrativa: è necessario considerare per quanto tempo bisogna versare contributi

Naturalmente, tra i fattori di scelta rientra anche la durata della contribuzione alla previdenza complementare. Nella scelta bisogna tener presente che tanto più alto è il numero di anni di versamenti al fondo pensione, tanto maggiore è la somma che si accumulerà per la vita futura da pensionati. Non è necessario versare mensilmente somme elevate: con contributi relativamente contenuti negli anni si può accumulare una buona somma.

Pensione integrativa: i vantaggi della fiscalità

Se al beneficio futuro di avere una pensione integrativa si aggiungono i vantaggi fiscali derivanti dai versamenti il gioco è fatto. In particolare, il contribuente ha la possibilità di beneficiare della deducibilità fiscale fino a 5.164 euro all’anno sui versamenti sostenuti. L’importo netto del contributo sarà pertanto inferiore a quanto realmente accantonato presso il fondo pensione.

Previdenza complementare: non solo pensione futura, ma anche rendimento dell’investimento

La scelta di aderire a un fondo pensione non deve essere valutata solo ai fini della futura pensione di scorta, ma anche dal punto di vista del rendimento dell’investimento fatto. In linea di massima, una delle regole principiali per chi aderisce ai fondi pensione è quella di valutare la partecipazione a proposte più rischiose ma con più alti rendimenti quanto più si è lontani dalla pensione lavorativa.

Contribuente vicino alla pensione, quanto si può rischiare con i fondi più redditizi?

Viceversa, per chi è più vicino all’uscita da lavoro è consigliabile puntare su soluzioni meno redditizie, ma sicuramente meno rischiose. L’obiettivo è quello di avere un rendimento che nel tempo possa essere il più bilanciato possibile. Il punto ottimale, dunque, è quello in cui il contribuente riesce a mantenere in linea la scelta dell’adesione al fondo pensione con il livello di rischio che è disposto ad accettare.

I rendimenti dei fondi pensione cambiano nel tempo

Naturalmente, la scelta di adesione a un fondo pensione non è per sempre. Ovvero si può rimodulare strada facendo il proprio percorso di contribuzione. Questo dipende anche dal fatto che i rendimenti attesi nel tempo possono variare. A far decidere al contribuente di provare a fare qualche cambiamento sul piano contributivo della pensione integrativa può concorrere il proprio patrimonio e gli anni che spettano prima della pensione. Per questo motivo nessuna scelta è vincolante.

Formule di adesione alla pensione integrativa tramite il datore di lavoro: l’accordo collettivo aziendale

In tema di quanto pagare per avere una buona pensione integrativa futura non vanno dimenticate le adesioni ai fondi pensione rientranti in accordi collettivi o regolamenti aziendali. L’accordo collettivo al fondo pensione consente all’aderente di beneficiare anche del contributo versato dal proprio datore di lavoro. L’entità del versamento di quest’ultimo è stabilito proprio dall’accordo aziendale. La condizione da rispettare è quella che il lavoratore deve versare, a sua volta, quanto stabilito dall’accordo stesso o, in alternativa,  un importo maggiore.

Adesione contrattuale al fondo pensione: il lavoratore sceglie se versare

Diversamente dall’accordo, con l’adesione contrattuale (e in presenza di versamenti fatti già dal datore di lavoro al fondo pensione a favore del dipendente) il lavoratore può decidere se contribuire e di quanto deve essere la sua rata mensile. Dunque l’obbligo di accantonamento al fondo pensione vige solo sul datore di lavoro, ma il lavoratore può decidere di incrementare la propria quota di adesione.

Fondo pensione, adesione tramite il Trattamento di fine rapporto (TFR)

L’obbligo o la decisione del lavoratore di integrare i versamenti al fondo pensione nei casi di accordo o di adesione contrattuale può essere ottemperata attraverso il Trattamento di fine rapporto. Infatti, il lavoratore può integrare la propria posizione versando il proprio Tfr futuro, in tutto o in parte. Tuttavia, se il lavoratore dovesse decidere di aderire con il solo Tfr non potrà avvalersi della contribuzione del datore di lavoro. Pertanto, al lavoratore spetta la scelta di contribuire anche di tasca propria: solo in questo caso, il datore di lavoro è obbligato a contribuire per la sua parte. I limiti e le modalità di contribuzione, tuttavia, devono essere previsti dagli accordi aziendali di riferimento.

Pensione superstiti, o di reversibilità: a chi spetta e a quanto ammonta

La pensione superstiti, o reversibilità, è una quota di pensione che viene riconosciuta ai “superstiti” cioè ai parenti del defunto, ci sono però delle condizioni affinché si possa ottenere questo assegno e soprattutto può goderne anche l’ex coniuge. Vediamo la casistica.

Requisiti per la pensioni superstiti

La pensione superstiti, o di reversibilità, viene riconosciuta ai parenti del defunto (coniuge, ex coniuge, parte dell’unione civile, figli, in alcuni casi anche i genitori e i fratelli/sorelle), si tratta di una quota del trattamento pensionistico INPS maturata dal defunto e versata per principio solidaristico ad alcuni parenti. Viene riconosciuto sia nel caso in cui il defunto era già titolare del trattamento pensionistico, sia nel caso in cui ancora non era “pensionato”. L’ammontare dell’assegno di reversibilità dipende da numerose varianti, in primo luogo dai contributi effettivamente versati e quindi dal trattamento pensionistico effettivamente maturato, in secondo luogo dipende dal numero dei superstiti che hanno diritto a percepire l’assegno stesso.

Affinché maturi il diritto a percepire la pensione superstiti o di reversibilità devono verificarsi delle condizioni:

  • il defunto deve aver versato all’INPS almeno 15 anni di contributi o, nel caso di lavoratore autonomo iscritto all’INPS, 780 contributi settimanali;
  • in alternativa, deve aver versato almeno 5 anni di contributi nel periodo immediatamente precedente la morte o 260 contributi settimanali per i lavoratori autonomi.

In presenza di tali requisiti i parenti hanno diritto alla loro quota di reversibilità, ma vediamo chi sono costoro.

A quanto ammonta la quota della pensione superstiti?

La quota di reversibilità è:

  •  del 60% del trattamento a cui avrebbe diritto il de cuius nel caso in cui a beneficiarne sia solo il coniuge;
  • dell’80% nel caso in cui con il coniuge concorra un figlio;
  • 100% nel caso in cui i beneficiari siano il coniuge e almeno 2 figli.
  • 15% per ogni altro familiare diverso dal coniuge o dai figli (ad esempio i genitori, fratelli e sorelle) vedremo in seguito quando tali soggetti possono ottenere la reversibilità o pensione superstiti).

Per quanto riguarda i figli si tratta di: legittimi, naturali, adottati, affiliati, in corso di riconoscimento al momento della morte, figli non riconosciuti ma che percepivano il mantenimento in vita.

Quando i figli maggiorenni possono percepire la pensione superstiti?

I figli maggiorenni possono percepire la quota di pensione superstiti solo in limitati casi:

  • fino a 21 anni per coloro che frequentano la scuola media superiore di 2° grado;
  • fino a 26 anni nel caso in cui frequentino l’università;
  • senza limiti d’età nel caso in cui si tratti di figli inabili.

Quando i genitori e i fratelli/sorelle possono percepire la quota di reversibilità?

La quota di pensione superstiti può essere riscossa da genitori e fratelli e sorelle, in primo luogo solo nel caso in cui non ci sia concorrenza con coniugi, ex coniugi.

I genitori possono percepire tale assegno solo se hanno superato 65 anni di età, non sono titolari di un trattamento pensionistico e alla morte del figlio erano fiscalmente a suo carico.

Fratelli e sorelle possono percepire la pensione superstiti nel caso in cui non vi siano coniugi e figli, siano celibi/nubili e al momento della morte siano a carico del defunto.

Infine, possono ottenere la pensione di reversibilità anche i nipoti, ma devono essere a carico del defunto al momento del trapasso.

Per ottenere la pensione di reversibilità superstiti occorre presentare online la domanda all’INPS, è possibile inoltre avvalersi dell’assistenza di patronati e CAF.

La quota di pensione di reversibilità per l’ex coniuge

Una questione difficile da dirimere è quella inerente l’ex coniuge, infatti la legge è chiara nell’ammettere che anche costui abbia diritto ad avere una quota di pensione di reversibilità, ma solo nel caso in cui fosse titolare di un assegno di mantenimento, mentre se tale diritto non gli è stato riconosciuto, ad esempio perché gli è stata addebitata la separazione, oppure nel caso in cui avesse una situazione economica parallela o migliore rispetto al defunto o, infine, perché aveva preferito un assegno una tantum, non ha diritto all’assegno di reversibilità o pensione superstiti. Il coniuge divorziato per poter accedere alla quota di reversibilità non deve essere passato a nuove nozze. Ciò che invece non è chiaro è a quanto ammonta la quota di reversibilità se ci sono in concorso coniuge superstite ed ex coniuge?

La giurisprudenza in caso di concorrenza tra coniuge superstite ed ex coniuge

La Corte di Cassazione sul punto ha fatto una ricognizione degli elementi da valutare al fine di ripartire la quota di reversibilità con l’ordinanza 8263 del 2020. In questa ha stabilito che, tenendo in considerazione la legge 898 del 1973 che regola il divorzio e in particolare gli articoli 9 e 5, per ripartire le quote della reversibilità tra più coniugi è necessario tenere in considerazione:

  • la durata del rapporto di coniugio;
  • le condizioni dei coniugi;
  • entità dell’assegno di mantenimento di cui era titolare l’ex coniuge;
  • durata delle convivenze pre-matrimoniali ( già tenuta in considerazione dalla Corte di Cassazione nella sentenza 5268 del 26 febbraio 2020). Deve però essere precisato che la sentenza della Suprema Corte 26358/2011 precisa che deve trattarsi di convivenza stabile ed effettiva);
  • la differenza di età tra il coniuge superstite e il coniuge divorziato in quanto questa incide anche sulla capacità lavorativa delle parti;
  • il contributo personale dato da ciascun coniuge alla conduzione familiare ( in particolare deve essere tenuto in considerazione quanto ciascun coniuge abbia contribuito alla crescita del patrimonio familiare).

Corte di Cassazione: è importante evitare paradossi

Secondo la Corte di Cassazione nel determinare la quota di reversibilità per l’ex coniuge si deve evitare di cadere nel paradosso e cioè riconoscere una quota che sia del tutto inadeguata a sopperire alle più elementari esigenze di vita, inoltre si deve evitare che la quota di pensione superstiti sia sproporzionata rispetto all’assegno di mantenimento di cui godeva in precedenza. La Corte inoltre ribadisce che deve essere data rilevanza anche alla convivenza more uxorio verificatasi, nella controversia oggetto di sentenza, dopo la separazione dall’ex coniuge, ma prima che fosse pronunciata la sentenza di divorzio e questo perché in tale frangente temporale si era già manifestata la volontà del defunto di sostenere economicamente la persona che poi sarebbe diventata coniuge. La convivenza prematrimoniale secondo l’orientamento della Corte di Cassazione ha la funzione di correttivo nel determinare in modo adeguato le spettanze del coniuge e dell’ex coniuge.

 

 

Riforma pensioni, a che punto siamo?

La riforma pensioni è quanto mai attesa. Tra conferme, ed addii ecco le ultime novità sull’età pensionabile a 57 anni.

Riforma pensioni: si muovono i primi passi

L’attesa di una riforma pensioni non è ancora finita. Ma spuntano i primi passi incerti di questo Governo. Ma una cosa è certa la famosa Quota 100 sarà abolita. Anche perché la misura era stata introdotta in via sperimentale per il triennio 2017-2021. A questo punto sono varie le ipotesi da vagliare sul tavolo dei Ministri. Il primo è legato alla quota 41 di contributi uguale per tutti. Misura che potrebbe permettere ai lavoratori di lasciare definitivamente il mondo del lavoro e di ritirarsi all’età di 56-57 anni. Rimarrà, forse, quota 41, destinata ai lavoratori precoci. Tuttavia sarà valida per donne ed uomini con una contribuzione maturare di  41 e 10 mesi di contributi per le donne, oppure, 42 e 10 mesi per gli uomini.

Le novità già date per certe

Il Governo ha annunciato la conferma di Opzione donna anche per il 2022. La misura farà parte integralmente della riforma pensioni, senza ulteriori conferme. Risulta anche interessante la proposta di ANFA che propone “dodici mesi di anticipo dell’età della pensione per ogni figlio, senza limiti massimi che penalizzino le famiglie numerose”. Mentre i possessori della Legge 104 potranno ancora sfruttare la possibilità di mettersi in pensione al compimento dei 57 anni di età. Inoltre l’Ape sociale sarà riconfermata, anche se sarà interessata da qualche modifica. Si ricorda che l’Ape sociale è un anticipo pensionistico fino a quando si avrà diritto alla pensione di vecchiaia, riconosciuto per il raggiungimento di 63 anni di età e con un’età contributiva variabile.

Quali gli scenari possibili per la riforma pensioni?

Gli scenari possibili non sono finiti. Gli economisti Boeri e Perotti propongono un pensionamento a partire da 63 anni, ma accettando una riduzione attuariale sull’importo della pensione, come già proposto in passato dall’Inps. Mentre Pasquale Tridico, numero uno dell’Inps parla di quota pensione divisa in due parti: una retributiva e una contributiva così composta. In pratica un anticipo pensionistico solo per la parte contributiva: 62/63 anni e 20 anni di contributi. Il resto (la quota retributiva) lo si ottiene a 67 anni. Alcuni ripropongono la legge Fornero, ma che non è ben vista, pertanto poco credibile in questo momento.

Pensioni, cos’è e come funziona la cessione del quinto dell’assegno mensile?

Analogamente ai lavoratori, i pensionati hanno la possibilità di ottenere prestiti personali da estinguere poi mediante una trattenuta diretta sull’assegno di pensione. Si tratta della cessione del quinto di pensione che permette, peraltro, di ottenere prestiti a tassi agevolati rispetto a quelli praticati sul mercato. Pertanto, il rimborso del prestito avviene attraverso la trattenuta sulla mensilità di pensione a tasso fisso e a rata costante.

Condizioni e requisiti per accedere al prestito col quinto di pensione

Per poter beneficiare dei prestiti da restituire tramite il quinto di pensione, il primo passo del debitore è quello di ottenere la comunicazione di cedibilità della pensione che viene rilasciata dall’Inps. Nel documento si specifica, inoltre, anche l’importo massimo della rata del prestito. A differenza di varie finanziarie, non ci sono limiti di età per la stipula. Tuttavia, normalmente si accede al prestito con il quinto della pensione fino a un’età tra i 75 e gli 80 anni. Il prestito, in ogni modo, deve essere estinto interamente entro l’85esimo anno di vita del pensionato.

I passaggi per ottenere il prestito col quinto di pensione

Il primo passaggio per ottenere il prestito con la cessione del quinto della pensione è, dunque, l’ottenimento della comunicazione di cedibilità della pensione da parte dell’ente previdenziale. La richiesta va fatta presso una delle sedi dell’Inps o recandosi a un altro ente di riferimento. La comunicazione deve essere successivamente consegnata alla banca o alla società finanziaria che concede il prestito. In presenza di una convenzione, la richiesta può essere inoltrata direttamente alla banca o a un altro intermediario. Saranno questi ultimi istituti a interfacciarsi direttamente con l’Inps.

Cosa è necessario nel prestito con cessione del quinto della pensione?

Nel prestito con la cessione del quinto della pensione è importante che il rimborso avvenga nel massimo di dieci anni dal momento in cui viene contratto. Inoltre, la quota di rimborso non può essere superiore al 20% (quindi, un quinto) dell’importo della pensione mensile. Infine, al contratto di prestito deve essere associata una copertura assicurativa per l’eventualità di premorienza del titolare della pensione e del prestito.

Come si calcola la rata del quinto della pensione?

Per calcolare il 20% come quota a rimborso del prestito occorre far riferimento alla pensione percepita mensilmente, al netto delle ritenute fiscali e previdenziali. Non può comunque essere erosa la parte minima della pensione, fissata per il 2021 a 515,18 euro. La quota di pensione cedibile, fino a un massimo di un quinto della pensione, dipende dall’importo della rata o delle rate pensionistiche mensili percepiti. Di conseguenza, più alto è l’importo della pensione, maggiora sarà la quota che potrà essere messa a rimborso. C’è bisogno, in ogni caso, dell’accordo dell’ente previdenziale.

Quali pensioni non possono richiedere il prestito con il quinto dello stipendio?

Alcune formule di pensionamento non possono richiedere prestiti con la cessione del quinto dello stipendio. Come spiegato dall’Inps rientrano tra queste pensioni:

  • gli assegni sociali;
  • le pensioni sociali;
  • l’invalidità civile;
  • gli assegni mensili per l’assistenza ai pensionati per inabilità;
  • le pensioni con contitolarità, in particolare per la quota parte non pertinente del soggetto richiedente il prestito;
  • gli assegni a sostegno del reddito;
  • i trattamenti di esodo ex comma dal 1° al 7° ter, dell’ex articolo 4 della legge numero 92 del 2012;
  • l’anticipo pensionistico Ape sociale;
  • gli assegni al nucleo familiare.

Cessione del quinto sulla pensione, cosa c’è da sapere sul prestito?

In merito alla cessione del quinto sulla pensione, il legislatore ha previsto particolari situazioni di vantaggio sul prestito a favore dei pensionati. La ragione risiede nel maggiore tutela accordata in riferimento all’età avanzata e alla prestazione sulla quale si applica la cessione del quinto, ovvero la pensione. Il Tasso Effettivo Globale (TEG) applicato al prestito non può essere maggiore della soglia di usura che viene rilevata ogni tre mesi ai sensi della legge numero 108 del 1996.

Strumenti a tutela del pensionato nella cessione del quinto

Inoltre, il contratto del prestito deve riportare tutti gli oneri inerenti al prestito stesso. Pertanto, vanno indicate le spese di istruttoria, di estinzione anticipata, di premio assicurativo per la possibilità di premorienza, le commissioni e gli interessi. Infine, lo stesso ente previdenziale ha sottoscritto una convenzione con varie banche e società di credito per garantire tassi più agevolati rispetto a quelli praticati sul mercato. L’elenco di questi istituti finanziari e delle banche è disponibile sul sito dell’Inps.

Pensione anticipata per invalidità: tutte le opzioni possibili

Si può accedere alla pensione anticipata per invalidità INPS, attraverso varie opzioni a cui possono accedere solo i lavoratori invalidi. Spetta alla commissione medica dell’INPS stabilirne la percentuale ed eventuale capacità lavorativa residua.

La pensione anticipata per invalidità può essere ottenuta con assegno ordinario di invalidità, per lavoratori precoci, Ape sociale e invalidità.

La pensione di vecchiaia anticipata per invalidità

E’ possibile andare in pensione in modo agevolato con requisiti ridotti rispetto a quelli previsti per la pensione di vecchiaia. E’ il caso di un lavoratore che possiede un’invalidità riconosciuta almeno pari all’80% e ai non vedenti.

La pensione anticipata riservata ai portatori di handicap all’80%, prevede che il suddetto lavoratore abbia versato almeno 20 anni di contributi, con un’età minima per gli uomini di 61 anni e per le donne di 56 anni.

Per quanto concerne il prepensionamento dei lavoratori non vedenti, si richiedono sempre almeno 20 anni di contributi, ma con un requisito anagrafico di almeno 56 anni per gli uomini e 51 anni per le donne.

L’anzianità contributiva scende da 20 a 15 anni per i beneficiari di una delle tre deroghe della Legge Amato: ossia quando la contribuzione è stata versata prima del 1992. Oppure, essere stati autorizzati al versamento di contributi volontari entro il 24 dicembre 1992. Oppure con almeno 25 anni di contributi maturati (primo contributo risalente ad almeno 25 anni prima), 15 anni di contributi effettivi derivanti da lavoro dipendente e almeno 10 anni lavorati in modo discontinuo, ovvero che non coprono le intere 52 settimane necessarie per compiere l’annualità.

La pensione anticipata per gli invalidi non inferiori all’80% e non vedenti viene riconosciuta ai soli lavoratori iscritti all’Assicurazione generale obbligatoria dell’INPS (ad esclusione degli iscritti alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi) e alle forme di previdenza sostitutive dell’Assicurazione generale obbligatoria stessa. Il beneficio non include i dipendenti pubblici e i lavoratori autonomi.

Pensione anticipata per invalidità: quando si ha diritto alla quota 41

La pensione anticipata di invalidità è concessa ai lavoratori che hanno versato 41 anni di contributi che abbiano maturato 12 mesi di contributi prima del compimento del diciannovesimo anno d’età. Tuttavia, questo trattamento pensionistico anticipato riguarda solo i lavoratori precoci che rientrano in determinate categorie: gli invalidi ma non i disabili.

Il lavoratore precoce per ottenere quota 41 deve trovarsi in stato di disoccupazione, senza aver percepito la relativa indennità per almeno tre mesi. In alternativa può accedere alla pensione anticipata se sta assistendo un parente disabile da almeno sei mesi o se è un invalido con riduzione della capacità lavorativa di almeno il 74%.

Pensione anticipata per invalidità: ape sociale

L’Ape sociale spetta ai lavoratori iscritti all’AGO dei lavoratori dipendenti, alle forme sostitutive ed esclusive della medesima, alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, nonché alla Gestione Separata, i quali hanno una grado di invalidità riconosciuto almeno del 74% e che consente di ricevere un assegno pensionistico fino a 15.000 euro. Può accedere a tale beneficio chi ha almeno 63 anni d’età con una contribuzione pari a 30 anni. Le lavoratrici con figli potranno ricevere la riduzione dei contributi pari a un anno per ogni figlio, fino a un massimo di 2 anni.

Oppure, spetta ai lavoratori che assistono al momento della richiesta di pensione anticipata il coniuge o un parente di I grado convivente e portatore di grave handicap, o ancora un parente o un affine di II grado convivente i quali genitori o il coniuge della persona con grave handicap abbiano compiuto 70 anni d’età oppure siano stesso loro affetti da patologie invalidanti o siano decedute o mancanti, con un’anzianità contributiva pari ad almeno 30 anni.

E ancora, possono accedere al trattamento previdenziale anticipato se sono dipendenti al momento della decorrenza dell’indennità, in possesso di 36 anni di anzianità contributiva e che abbiano svolto da almeno sette anni negli ultimi dieci o almeno 6 anni negli ultimi 7, una o più delle attività gravose.

Pensione anticipata con assegno ordinario di invalidità

Possono accedere alla pensione anticipata con assegno ordinario di invalidità, per l’appunto gli invalidi con almeno un grado relativo riconosciuto di almeno il 74%, purché in possesso di almeno cinque anni di contributi maturati all’INPS, di cui tre versati negli ultimi cinque anni, e di un’anzianità assicurativa di minino 5 anni.

L’assegno ordinario di invalidità non è una pensione vera e propria e ha una durata massima di tre anni, con possibilità di rinnovo da parte del beneficiario.

Pensioni anticipate: ecco quali sono gli strumenti per lasciare il lavoro prima

Quali sono gli strumenti di pensione anticipata per andare via prima dal lavoro? È importante identificare i meccanismi previdenziali conoscendo, innanzitutto, l’età prevista per la pensione di vecchiaia ordinaria, attualmente fissata a 60 anni di età unitamente ad almeno 20 anni di contributi. Gli strumenti di pensione anticipata consentono di abbreviare l’uscita lavorativa rispetto, proprio, a questo limite di età. Nel dettaglio, rientrano tra gli strumenti di anticipo previdenziali la quota 100, l’opzione donna, l’anticipo pensionistico (Ape) sociale, la quota 41 dei lavoratori precoci e alcuni altri.

Pensione anticipata dei soli contributi: quanti ne servono per uscire?

La prima formula di uscita prima è la pensione anticipata dei soli contributi. Si esce a qualsiasi età purché i lavoratori maturino almeno 42 anni e 10 mesi di contributi. Per le donne è previsto lo sconto di un anno sui contributi (36 anni e 10 mesi). I requisiti contributivi resteranno in vigore senza variazione fino al 2026.

Pensione anticipata con quota 100, ma la scadenza dei requisiti è per il 31 dicembre 2021

Una delle ultime in ordine di tempo tra le misure di pensione anticipata e, molto probabilmente destinata a durare fino al 31 dicembre, è la quota 100. Ciò significa che i requisiti richiesti – l’età minima di 62 anni e almeno 38 anni di contributi versati – devono essere maturati entro la fine di quest’anno. Chi rientra nelle possibilità di uscita con la quota 100 può decidere di andare in pensione anche successivamente: con il diritto cristallizzato nel 2021, è possibile posticipare l’uscita effettiva da lavoro anche nel corso del 2022 o successivamente.

Con l’anticipo pensionistico Ape sociale uscita dai 63 anni

Più articolata, e con maggiori requisiti richiesti, è la pensione con Anticipo pensionistico (Ape) sociale. Introdotta nel 2017 insieme all’Ape volontaria, la versione sociale dell’anticipo permette di andare in pensione a partire dai 63 anni di età unitamente a 30 o a 36 anni di contributi, a seconda della situazione socio-economica nella quale rientra il richiedente. La misura riguarda tanto i lavoratori dipendenti (sia statali che del settore privato) che i lavoratori autonomi, a esclusione dei professionisti iscritti alle Casse previdenziali.

Requisiti pensione Ape sociale: uscita dei disoccupati

La pensione Ape sociale è stata introdotta per andare incontro a  determinate situazioni di disagio socio-economico dei lavoratori. La prima categoria tutelata è quella dei disoccupati a seguito della cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento. Sono necessari almeno 30 anni di contributi previdenziali versati. Con lo stesso numero di anni di contributi escono i caregiver, ovvero i contribuenti che assistano, da almeno 6 mesi, il coniuge o un parente convivente entro il primo grave che si trovi in situazione di handicap grave o di non autosufficienza.

Ape sociale, la pensione per gli invalidi e per addetti ad attività gravose

Sono richiesti 30 anni di contributi anche agli invalidi con una percentuale di almeno il 74% per andare in pensione con l’Ape sociale. Il requisito contributivo sale a 36 anni per gli addetti ad attività gravose o a lavori usuranti. In particolare, sono 15 le categorie riconosciute come gravose. Il meccanismo, inoltre, richiede lo svolgimento del lavoro gravoso per almeno 6 degli ultimi 7 anni o per 7 degli ultimi 10.

Pensione anticipata per i lavoratori precoci: la quota 41

Anche per tutto il 2021, in attesa della legge di Bilancio 2022, è stata confermata la pensione anticipata dei lavoratori precoci con la quota 41. Il meccanismo previdenziale è stato introdotto nel 2017 a favore dei lavoratori che abbiano iniziato a lavorare in età adolescenziale. Infatti, nei 41 anni di contributi deve rientrare un anno di contributi versato entro i 19 anni di età. I lavoratori che possono ricorrere alla quota 41 sono i dipendenti del settore privato, gli iscritti alla Gestione separata Inps e gli aderenti alle forme sostitutive ed esclusive dell’Assicurazione generale obbligatoria (Ago).

Pensione precoci: i requisiti comuni con l’Ape sociale

Oltre ai 41 anni di contributi, chi presenta domanda di uscita pensionistica (a qualsiasi età) con la quota 41 deve rientrare nelle stesse situazioni di disagio economico e sociale dell’Ape sociale. Pertanto, è da dimostrare la situazione di disoccupazione, di assistenza a persona non autosufficiente, di riduzione della capacità lavorativa almeno del 74% o di svolgimento di attività usuranti o gravose, con lo stesso numero di anni continuativi di lavoro prima della pensione previsti per l’Ape sociale.

Pensione anticipata per le lavoratrici: opzione donna

Fino al 31 dicembre 2021, in attesa della proroga, sarà in vigore la pensione anticipata con opzione donna. La misura consente alle lavoratrici di 58 anni di età (59 per le autonome) di anticipare la pensione con 35 anni di contributi versati. La condizione essenziale per le donne che presentino richiesta per l’opzione donna è accettare il ricalcolo dell’assegno di pensione interamente con il meccanismo contributivo. Il ricalcolo comporta un taglio del futuro assegno di pensione tra il 20 e il 30%, per sempre.

Pensioni anticipate, con il contratto di espansione uscita dai 62 anni

Introdotto nel 2019, il contratto di espansione consente di anticipare la pensione di vecchiaia a 62 anni rispetto ai 67 anni previsti. Oppure, se l’obiettivo è anticipare rispetto alla pensione anticipata dei soli contributi, lo sconto di 5 anni è sui versamenti. Infatti, gli uomini escono con 37 anni e 10 mesi di contributi, le donne con 36 anni e 10 mesi. Ma per questa formula è necessario che il datore di lavoro trovi l’accordo con i sindacati da siglare per ricorrere all’esodo volontario dei dipendenti.

Chi può accedere al contratto di espansione?

L’anticipo di 5 anni sulla pensione con il contratto di espansione è consentito ai lavoratori che lavorino in realtà aziendali con almeno 100 unità lavorative. Il requisito dimensionale è stato abbassato nel corso del 2021 dal decreto “Sostegni bis”: la legge di Bilancio 2021, infatti, aveva abbassato il tetto a 250 addetti. Per ottenere maggiori benefici, anche per l’indennità Naspi che accompagna i lavoratori alla pensione (fino a 3 anni), le aziende devono procedere al ricambio generazionale e alla ristrutturazione del personale mediante nuove assunzioni. La misura sicuramente verrà confermata anche nel prossimo anno con la legge di Bilancio 2022.

Con l’isopensione si va in pensione in anticipo fino a 7 anni

Si può beneficiare dell’uscita anticipata fino a 7 anni con l’isopensione. Il meccanismo, già in vigore con la riforma delle pensioni di Elsa Fornero, consente ai lavoratori del settore privato impiegati in imprese di almeno 15 dipendenti, di usufruire di uno scivolo già dai 60 anni di età con oneri interamente a carico dell’azienda. Il periodo di prepensionamento, dunque, dura fino a 7 anni, in attesa della pensione di vecchiaia. È proprio durante questi anni che il datore di lavoro si impegna a versare l’indennità al lavoratore. Tale indennità corrisponde alla pensione maturata fino al momento dell’uscita con l’esodo. I sette anni di anticipo saranno in vigore fino al 2024, poi si tornerà a un limite di anticipo di 4 anni.

Pensione quota 41: perché non spetta con assegno ordinario di invalidità?

Può un contribuente con pensione di invalidità ordinaria (AIO) presentare domanda per la quota 41 dei lavoratori precoci? La risposta è negativa, innanzitutto perché la legge non lo consente. In secondo luogo, nel campo delle ipotesi, sarebbe necessario analizzare anche l’opportunità del passaggio dall’AIO alla pensione dei precoci.

Per chi ha l’assegno di invalidità ordinario niente domanda di pensione con quota 41

La domanda potrebbe interessare i contribuenti che abbiano intorno ai quattro decenni di versamenti e un’invalidità, ad esempio, dell’80% che permette già di avere la prestazione di invalidità. Le pensioni anticipate con la quota 41 dei precoci sono incompatibili con gli assegni di invalidità ordinari perché i due trattamenti sono alternativi. E, dunque, il contribuente, finché percepisce l’assegno di invalidità ordinario non potrà presentare domanda della prestazione prevista per i precoci con 41 anni di contributi.

Pensione di invalidità e quota 41 precoci: quali differenze?

La natura delle due prestazioni pensionistiche è, inoltre, diversa. L’assegno ordinario di invalidità rappresenta una prestazione economica pur sempre calcolata sui contributi versati e, dunque, sottostante alle medesime regole ai fini della misura. Tuttavia l’invalidità è regolata da requisiti sottoposti ad accertamenti dopo la presentazione della domanda che solo in parte potrebbero soddisfare quelli della pensione con quota 41.

Requisiti richiesti dall’Inps per la domanda di assegno di invalidità ordinario

Pur non essendo prevista la cessazione dell’attività lavorativa, chi presenta domanda di pensione di invalidità deve aver subito la riduzione della capacità lavorativa a meno di un terzo a causa dell’infermità fisica o mentale. Inoltre, per ottenere l’assegno di invalidità, è necessaria una contribuzione di almeno 260 settimane, pari a 5 anni di contribuzione e di assicurazione, delle quali 156 settimane, pari a 3 anni di contribuzione e di assicurazione, devono rientrare nei cinque anni che precedono la data di presentazione della domanda.

Riduzione della capacità lavorativa nell’invalidità e nella pensione con quota 41

Un punto importante da tener presente sia nell’assegno di invalidità che nella pensione con quota 41 è la riduzione della capacità lavorativa. Infatti, mentre l’Inps per la domanda di invalidità parla di una riduzione a “meno di un terzo della capacità lavorativa”, per la quota 41 dei precoci la riduzione accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile deve essere superiore o per lo meno uguale al 74%.

Quando la ridotta capacità lavorativa va bene per l’invalidità ma non per la quota 41?

C’è una zona grigia nella quale l’invalidità dell’una non è sufficiente per i requisiti richiesti dall’altra misura di pensione. Ciò significa che una ridotta capacità lavorativa al 30% soddisferebbe il requisito per la pensione di invalidità ma non quello della quota 41 dei precoci. È facile intuire che per quest’ultima misura la ridotta capacità al 30% rappresenterebbe una condizione non sufficiente (una delle quattro situazioni nelle quali può trovarsi un lavoratore per chiedere la quota 41 insieme alla condizione di disoccupazione, all’assistenza di persone non autosufficienti o allo svolgimento di mansioni usuranti o gravose) per presentare la domanda.

I requisiti dei contributi richiesti per le pensioni con quota 41

È altrettanto vero che la pensione con la quota 41 richiede ulteriori requisiti per la presentazione della domanda. In merito al versamento dei 41 anni di contributi, infatti, la legge richiede che almeno 12 mesi siano stati versati, anche in maniera non continuativa, prima dei 19 anni di età del contribuente. Pertanto, l’ipotetica richiesta del passaggio dall’assegno di invalidità alla pensione con quota 41 necessiterebbe di una verifica:

  • sia del montante dei contributi versati, con traguardo dei 41 anni di versamenti a qualsiasi età venga raggiunto;
  • che dell’inizio della prima attività lavorativa in età adolescenziale.

Trasformazione dell’assegno di invalidità in pensione di vecchiaia a 67 anni

Tornando nel campo di applicazione delle norme previdenziali, chi percepisce una pensione di invalidità ordinaria deve aspettare la maturazione della pensione di vecchiaia per vedersi trasformato l’assegno di invalidità in, appunto, pensione di vecchiaia. Questo passaggio avviene al compimento dei 67 anni di età. Pertanto, il contribuente già titolare di assegno di invalidità definitivo ha come obiettivo del suo trattamento solo quello della trasformazione in pensione di vecchiaia. Risulta pertanto incompatibile il passaggio a una formula di pensione anticipata come la quota 41 dei precoci.

 

Opzione donna 2022: si potrà andare in pensione a 59 anni

Opzione donna 2022 è prorogata anche il per 2022. Pertanto si potrà  andare in pensione con il compimento di 59 anni di età.

Opzione donna 2022: andare in pensione con meno penalizzazioni

La riforma delle pensioni è in continua evoluzione. Una cosa certa è che Quota 100 verrà definitivamente abolita. Mentre l’opzione donna è stata rinnovata per il 2022. Rispetto alla sua introduzione che prevedeva il pensionamento a 58 anni, si andrà in pensione a 59 anni. Ma di controprova ci saranno meno penalizzazioni in merito al trattamento pensionistico. Quindi l’Opzione Donna è un vantaggio per tutte le lavoratrici, perché dà la possibilità di ritirarsi dal lavoro all’età di 59 anni se dipendenti e 60 anni se autonome, avendo all’attivo 35 anni di contributi versati. Si pensa così di facilitare l’uscita del mondo del lavoro di queste lavoratrici. Ma non rientrano in questa opzione le lavoratrici iscritte alla  gestione separata INPS.

Opzione donna 2022: cos’è?

La cosiddetta “Opzione donna” è un trattamento pensionistico calcolato secondo le regole di calcolo del sistema contributivo ed erogato, a domanda, in favore delle lavoratrici dipendenti e autonome che hanno maturato i requisiti previsti dalla legge. Pertanto i beneficiari di questa opzione sono le donne lavoratrici iscritte all’assicurazione generale obbligatoria o a fondi sostitutivi o esclusivi. L’assegno previdenziale è calcolato attraverso il principio contributivo. Si ricorda infine che l’opzione è stata introdotta dalla Legge Maroni 243/04, ripresa dalla Riforma Pensioni Fornero 2011 e prorogata dalla Legge di Bilancio.

Come calcolare la somma garantita?

Per calcolare la somma della pensione bisogna tenere conto dei contributi versati a partire dal 1 gennaio 1996. Tuttavia non sono ammessi tutti i contributi. Ad esempio non valgono i contributi percepiti per maternità, malattia, aspettativa e disoccupazione. Sono invece ammessi i contributi:

  • obbligatori;
  • da riscatto;
  • volontari;
  • a ricongiunzione.

Come presentare la domanda?

Non si può ancora presentare la domanda per accedere all’opzione donna, perché l’ultima finestra prevista si è chiusa. Ma non appena sarà nuovamente possibile, la domanda si presenta all’INPS attraverso il servizio dedicato. In alternativa si può fare domanda tramite Contact center al numero 803 164. Ma anche chiedendo ad enti di patronato e intermediari dell’Istituto attraverso i servizi telematici.