Partita IVA, quando non si pagano i contributi?

Solitamente, il titolare di una partita IVA è tenuto al pagamento delle tasse e al versamento dei contributi. Tuttavia, in alcuni casi è possibile aprire la partita IVA senza pagare i contributi Inps. A questo punto, non ci resta che capire di quali ipotesi stiamo parlando, anche perché, uno dei maggiori timori che tormenta chi si vuole mettere in proprio aprendo una partita IVA, è rappresentato proprio dal versamento dei contributi INPS che vorrebbe evitare, in quanto costituisce una delle maggiori voci di spesa dei possessori della partita IVA.

E’ giusto premettere, che non esiste una riposta univoca a questo quesito, molto dipende dal tipo di attività che s’intraprende e della sua forma, se in veste di società, di ditta individuale o di libero professionista. Ma entriamo nello specifico.

Partita IVA: i casi in cui non si pagano i contributi previdenziali

Senza troppi preamboli o giri di parole tedianti quanto infiniti, ecco le ipotesi in cui chi decide di aprire una partita IVA non è tenuto al pagamento dei contributi previdenziali:

  • Quando si apre partita IVA per arrotondare i guadagni da lavoratore dipendente;
  • Se si pratica un’attività professionale senza albo di riferimento;
  • L’esistenza di accordi sulla previdenza e assistenza sociali con Stati esteri.

E adesso, analizziamo nel dettaglio i suddetti tre casi.

Aprire partita IVA senza pagare contributi INPS: il caso del lavoratore dipendente

Il lavoratore dipendente con contratto di lavoro a tempo pieno che decide di aprire una partita IVA per esercitare attività d’impresa che gli consenta di arrotondare la sua retribuzione, beneficia di una norma che lo esonera dal versamento dei contributi INPS (per l’esercizio di attività commerciali o artigianali). Ciò accade perché i contributi previdenziali sono già pagati dal datore di lavoro. Si presuppone che l’attività principale resti quella inerente il lavoro dipendente.

Tuttavia, per godere di questo esonero contributivo devono venire rispettate due condizioni:

  • L’attività svolta in modo autonomo deve rientrare tra quelle per cui è prevista la contribuzione INPS per gli artigiani ed in commercianti (gestione IVS INPS artigiani e commercianti);
  • Il contratto di lavoro dipendente deve essere full-time e non part-time, anche se, ci sono alcuni casi in cui l’esenzione è stata assicurata anche a lavoratori dipendenti con lavoro part time di 38 ore settimanali. La decisione è rimessa ai diversi uffici territoriali dell’INPS. Sostanzialmente è il singolo ufficio che decide se concedere l’esonero contributivo o meno.

Aprire partita IVA senza pagare contributi INPS: il caso del libero professionista

Il libero professionista viene esonerato dal pagamento dei contributi INPS solo nel caso eserciti un’attività professionale priva di albo di riferimento. Prendiamo ad esempio, i fotografi professionisti, i copywriter, i personal trainer, così come i promoter e le hostess. Si tratta di professioni prive di casse previdenziali e che sono tenute ad iscriversi e a versare i contributi alla Gestione Separata INPS.

Aprire partita IVA senza pagare contributi INPS: accordi previdenziali con stati esteri

Se non si guadagna, non si devono pagare i contributi: è questo il principio che vige per le attività professionali di cui sopra. Mettendo da parte questo caso, è possibile evitare di pagare i contributi previdenziali in Italia, quando si esercita senza profitto un’attività professionale sulla base di accordi presi tra l’Italia ed altri Paesi esteri. E’ il caso del professionista che esercitando all’estero è obbligato al versamento dei relativi contributi calcolati sul profitto alla previdenza del Paese di residenza.

Quest’ultima ipotesi è piuttosto rara, in quanto trovare due Paesi che trovino un accordo previdenziale di tal tipo non è affatto comune.

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Contributi Inps arretrati, come e quando possono essere pagati?

È possibile pagare contributi Inps arretrati? La risposta è affermativa e lo stesso Istituto previdenziale li classifica come “contributi da riscatto”. Sono versamenti che vengono accreditati a seguito della facoltà, concessa al lavoratore o al pensionato, di coprire periodi che, essendo privi di versamenti, rimarrebbero esclusi dalla contribuzione.

Contributi Inps da riscatto, cosa sono e quando vi è la possibilità di pagarli

Le casistiche per le quali si configurano periodi non coperti da versamenti previdenziali Inps e per le quali si apre la possibilità del riscatto comprendono:

  • l’eventuale omissione nel versamento all’Inps dei contributi obbligatori. Il pagamento di questi contributi permette il recupero di periodi che, altrimenti, rimarrebbero privi di versamenti;
  • l’inesistenza dell’obbligo del versamento dei contributi;
  • particolari disposizioni legislative.

Contributi Inps omessi, a cosa serve pagarli?

I contributi Inps non pagati e riscattati successivamente si collocano nel periodo al quale si riferiscono, anche se il pagamento avviene successivamente. Sono tre le utilità del pagamento dei contributi arretrati:

  • innanzitutto per maturare il diritto a tutte le prestazioni previdenziali;
  • in secondo luogo, il pagamento dei contributi arretrati permette l’accertamento ai fini del diritto alla prosecuzione volontaria;
  • infine, pagare i contributi omessi e prescritti ha utilità ai fini del diritto e della misura di tutte le prestazioni pensionistiche, inclusa la pensione di anzianità.

I contributi non versati all’Inps

I contributi riscattabili sono quelli riguardanti periodi di lavoro per i quali non c’è la copertura da contribuzione (contributi omessi) e per i quali non sussiste l’obbligo assicurativo perché prescritti. Contributi omessi e prescritti derivano dal mancato versamento:

  • del datore di lavoro per attività lavorativa subordinata;
  • del titolare di un’impresa artigiana o commerciale per i coadiuvanti;
  • dagli aderenti alla gestione separata Inps che non siano titolari di obbligo contributivo;
  • del titolare del nucleo coltivatore diretto, colono o mezzadro per i familiari coadiuvanti.

Quali periodi lavorativi senza contributi si possono riscattare?

Si possono riscattare i periodi senza contribuzione relativi:

  • al corso legale della laurea, della laurea breve e dei titoli di studio a esse equiparati;
  • all’attività lavorativa esercitata in Paesi esteri non convenzionati;
  • all’estensione facoltativa per la maternità che si colloca al di fuori del rapporto di lavoro;
  • agli anni di praticantato come promotore finanziario;
  • all’attività svolta con contratto co.co.co., ovvero di collaborazione coordinata e continuativa, per i periodi che precedono il 1° aprile 1996;

Quali altri periodi di lavoro si possono riscattare?

Ulteriori periodi da riscattare per la mancata copertura dei contributi previdenziali riguardano:

  • i periodi non lavorati successivi al 31 dicembre 1996 che sono privi di contributi secondo quanto disposto da specifiche norme di legge;
  • il lavoro svolto con contratti part time;
  • i periodi inerenti lo svolgimento di lavori socialmente utili. La copertura avviene per le settimane utili al calcolo della misura della pensione;
  • ulteriori periodi da riscattare previsti da specifiche norme di legge.

Chi può presentare la domanda di riscatto dei contributi Inps arretrati?

I soggetti ammessi a presentare domanda per il riscatto di contributi inerenti periodi lavorativi non coperti comprendono:

  • i lavoratori che sono iscritti all’assicurazione generale obbligatoria;
  • chi è iscritto a una delle gestioni speciali dei lavori autonomi;
  • i lavoratori iscritti alla gestione separata dei parasubordinati;
  • gli iscritti ai fondi speciali appartenenti all’Inps.

La domanda si presenta alla sede dell’Inps competente per territorio in base alla residenza. Alla domanda si allega anche la documentazione richiesta.

Quanto costa il riscatto dei contributi Inps omessi in periodi ricadenti nel retributivo?

Il riscatto dei contributi per periodi privi di versamenti è sempre oneroso, a differenza dei contributi figurativi che vengono accreditati gratuitamente. Se i contributi omessi riguardano periodi ricadenti nel sistema previdenziale retributivo, il calcolo di quanto si paga avviene con la riserva matematica. Il costo, dunque, è pari al differenziale annuo tra la pensione con il riscatto dei contributi e la pensione senza il riscatto. Al risultato occorre moltiplicare il coefficiente variabile per sesso, per età e per anzianità contributiva.

Costo contributi arretrati sistema contributivo e iscritti alla Gestione separata Inps

Ai contributi inerenti periodi lavorativi da riscattare e ricadenti nel sistema contributivo si applica l’aliquota contributiva in vigore nel momento in cui il lavoratore presenta domanda. L’aliquota va moltiplicata per gli stipendi percepiti nei 12 mesi che precedono la domanda stessa. Per chi è iscritto alla Gestione separata Inps il costo del riscatto prende in considerazione il valore medio mensile dei compensi soggetti alla contribuzione obbligatoria degli ultimi 12 mesi prima della domanda.

Contributi arretrati, l’importo da pagare per il riscatto è determinato dall’Inps

Il calcolo di quanto si paga per il riscatto dei contributi è, in ogni modo, effettuato dall’Inps. Infatti, nel provvedimento di accoglimento della domanda di riscatto, l’Istituto previdenziale specifica qual è l’importo da pagare. Il provvedimento di accoglimento viene notificato al contribuente tramite raccomandata.

Come si possono pagare i contributi arretrati Inps?

Il pagamento all’Inps dei contributi arretrati ai fini del riscatto si effettua usando i bollettini Mav inviati dall’Istituto previdenziale stesso con il provvedimento di accoglimento. I bollettini Mav si possono scaricare anche dal sito dell’Inps, nella sezione “Portale dei pagamenti”, accedendo ai “Riscatti, ricongiungimenti e rendite”. Nella stessa sezione si possono saldare i contributi omessi utilizzando la carta di credito. Si può pagare il riscatto dei contributi anche:

  • ai soggetti aderenti a “Reti Amiche”;
  • alle tabaccherie che aderiscono a “Reti Amiche”;
  • agli sportelli bancari di Unicredit;
  • attraverso il portale internet di Unicredit per chi è cliente della banca;
  • chiamando il contact center al numero 803 164 da rete fissa o 06 164 164 da rete mobile.

Quando si pagano i contributi arretrati?

Nel momento in cui il contribuente riceve il provvedimento di accoglimento della domanda ha 60 giorni di tempo per pagare in un’unica soluzione. In alternativa, il contribuente può richiedere il pagamento rateale dell’importo comunicato dall’Inps. Il pagamento a rate è concesso ai soggetti che non debbano utilizzare nell’immediato i contributi ai fini del trattamento di pensione. Se il contribuente non paga l’importo in un’unica soluzione o la prima rata del pagamento frazionato, l’Inps archivia la pratica come rinuncia.

Pagamento rateale dei contributi arretrati Inps

Il numero massimo di rate per il pagamento dei contributi omessi e prescritti è pari a 60. L’importo minimo mensile è pari a 27 euro. Per il riscatto di laurea, invece, l’Inps ammette il pagamento fino a 120 rate. Se durante le rate il contribuente va in pensione, l’importo residuo deve essere pagato in un’unica soluzione.

Contributi INPS: quando cadono in prescrizione?

“Prescrizione” sembra essere la parola magica quando si parla di mancati pagamenti, proprio quella situazione che spera si concretizzi a chi attende timorosamente un sollecito di pagamento poco gradito che infrangerebbe il suo auspicio. Come tutti i debiti, anche quelli relativi i contributi INPS possono cadere in prescrizione, che siano stati omessi o non dichiarati. Ma da quando decorre il termine di prescrizione e quanto dura?

Poiché la prescrizione ha una durata di cinque anni, così come lo è quella di tutti i contributi a prescindere dalle gestioni previdenziali, l’oggetto del contendere tra l’INPS e il contribuente resta l’inizio della decorrenza dei termini.

INPS e contribuente: posizioni diverse

Il motivo della contesa tra l’ente previdenziale e il contribuente risiede nel fatto che il primo, solitamente, invia gli avvisi di pagamento ai contribuenti per l’omissione dei versamenti dovuti, a ridosso della loro prescrizione, cosa che illude i mancati pagatori. Difficile capire perché l’INPS adotti questa consuetudine, ma un invio degli avvisi vicino al termine della prescrizione, induce il contribuente a verificare se il debito si sia già estinto o meno.

Come appena anticipato, i contributi INPS da dichiarazione si prescrivono in cinque anni: per azzerare il periodo di prescrizione l’ente previdenziale deve inoltrare una richiesta di pagamento, entro tale termine, al contribuente che ha omesso il pagamento dei contributi.

Il problema sorge nel momento in cui la richiesta di pagamento viene comunicata a ridosso della scadenza dei cinque anni. A questo punto, è d’obbligo stabilire quando parte realmente la decorrenza della prescrizione. In parole semplici: da quale giorno si deve considerare avviata la decorrenza della prescrizione?

Per questo motivo, è importante capire quando scatta la prescrizione per contributi non versati ma dichiarati, e quando, invece, per gli stessi contributi INPS non versati e nemmeno dichiarati.

La prescrizione dei contributi non versati ma dichiarati

L’INPS sostiene la posizione secondo cui, ai fini del conteggio della prescrizione per l’omesso versamento dei contributi previdenziali da dichiarazione, si debba prendere in considerazione che il momento iniziale la data d’invio della dichiarazione dei redditi, sia da considerare come il giorno a partire da cui è possibile, per gli enti demandati al controllo delle dichiarazioni, verificare l’avvenuto versamento di quanto dovuto.

Diversa la posizione dei contribuenti, per cui l’inizio del periodo di computo debba coincidere con la data di scadenza del versamento dovuto. La differenza tra le due posizioni è notevole, visto che nel sistema italiano i versamenti dei saldi da dichiarazione annuale scadono alcuni mesi prima dell’invio telematico del modello dichiarativo.

Sul contenzioso tra INPS e contribuente è intervenuta a più ripresa la Corte di Cassazione. A tal proposito, i giudici supremi con la sentenza n. 4899 del 23 febbraio 2021 chiariscono con testuali parolec cheil fatto costitutivo dell’obbligazione contributiva è costituito dall’avvenuta produzione, da parte del lavoratore autonomo, di un determinato reddito costituente la base imponibile per il calcolo del contributo” e che “la decorrenza del termine di prescrizione dipende dall’ulteriore momento in cui la corrispondente contribuzione è dovuta e quindi dal momento in cui scadono i termini di pagamento di essa”.

Quindi, è possibile dichiarare che la prescrizione dei contributi INPS da dichiarazione avviene in cinque anni a partire dal giorno in cui questi versamenti dovevano essere versati.

Meno definita la questione del contendere tra INPS e contribuente, quando i contributi previdenziali, non solo non sono stati versati dal contribuente, ma nemmeno dichiarati.

La prescrizione dei contributi non versati e non dichiarati

In tal caso sulla prescrizione pesa il punto 8 dell’art. 2941 del Codice civile, in base al quale la prescrizione resta sospesa tra il debitore che ha omesso volontariamente l’esistenza del debito e il creditore, fino a quando il dolo non sia stato scoperto. L’INPS ha così rafforzato la sua posizione, per la quale la prescrizione è sospesa sino a quando non emerga l’omissione, a seguito dell’ordinaria attività di controllo delle dichiarazioni dei redditi.

Ciononostante, la Corte di Cassazione con l’ordinanza 14410/2019 ha stabilito che “l’operatività della causa di sospensione della prescrizione, di cui all’articolo 2941, numero 8, Codice civile, ricorre quando sia posta in essere dal debitore una condotta tale da comportare per il creditore una vera e propria impossibilità di agire, e non una mera difficoltà di accertamento del credito”, che tale criterio “richiede di considerare l’effetto dell’occultamento in termini di impedimento non sormontabile con gli ordinari controlli”, e che “va pertanto affermato che la mancata denuncia del reddito non equivalga né ad un doloso e preordinato occultamento del debito contributivo da corrispondere all’INPS, né che essa configuri impedimento assoluto, non scongiurabile con i normali controlli che l’istituto può invece sempre attivare e sollecitare anche rivolgendosi all’Agenzia delle Entrate”.

Quanto stabilito dai giudici supremi con la sentenza sopra citata, è di fondamentale importanza interpretativa per l’oggetto del contendere: escludendo la legittimità dell’applicazione dell’articolo 2941 n. 8 del Codice civile, la Corte di Cassazione, di fatto, riporta la fattispecie (la prescrizione dei contributi INPS non versati e non dichiarati) all’interno dell’ordinario perimetro di prescrizione, che, anche in questo caso, sarà di cinque anni dalla data del versamento omesso.

In conclusione, nel contenzioso tra ente previdenziale e contribuente per quanto concerne il computo della prescrizione dei contributi non versati e non dichiarati, la giurisprudenza va nella direzione di salvaguardare, per quanto possibile, il contribuente piuttosto che l’INPS.

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Pensione con contratto di espansione, per uscita 5 anni prima nel 2021 comunicazione all’Inps entro il 2 settembre

C’è tempo fino al 2 settembre prossimo per l’invio della comunicazione all’Inps per la stipula dell’accordo azienda-lavoratori-sindacati rientrante nelle pensioni del contratto di espansione. La comunicazione è relativa ai prepensionamenti che avverranno entro la fine del 2021, con decorrenza della pensione prevista a partire dal 1° dicembre prossimo. La scadenza, dunque, riguarda le aziende che vogliano utilizzare il meccanismo del prepensionamento, che consente ai lavoratori di uscire anticipatamente di cinque anni.

Contratto di espansione, come uscire 5 anni prima rispetto alla pensione di vecchiaia o anticipata?

Le pensioni previste dal contratto di espansione consentono ai lavoratori di uscire anticipatamente di 5 anni sia rispetto ai 67 anni richiesti per la pensione di vecchiaia che ai 37 anni e 10 mesi di contributi necessari per la pensione anticipata. La misura, già in vigore dal 2019, nel tempo ha subito modifiche soprattutto per quanto riguarda il requisito dimensionale dell’azienda datrice di lavoro. Infatti, inizialmente il meccanismo riguardava solo le aziende con almeno 1.000 unità lavorative. Le successive modifiche normative hanno abbassato il minimo a 250 unità lavorative (legge di Bilancio 2021) fino ad arrivare a 100 addetti con il decreto Sostegni bis di Mario Draghi.

Contratto di espansione, cosa serve per andare in pensione 5 anni prima?

Il contratto di espansione, già in vigore dal 2019, ha visto nel tempo modificare i requisiti di uscita, soprattutto quelli riguardanti l’azienda datrice di lavoro. Inizialmente potevano accedere alla misura le aziende con almeno 1.000 unità lavorative. La legge di Bilancio 2021, ha fissato il requisito dimensionale minimo a 250 unità lavorativa, con ulteriore riduzione a 100 unità del decreto Sostegni bis di Mario Draghi. Serve l’adesione volontaria del lavoratore, l’accordo sindacale e la presentazione della lista dei lavoratori in uscita con la misura all’Inps.

In cosa consiste la comunicazione Inps per le pensioni del contratto di espansione?

Per l’uscita anticipata con il contratto di espansione la legge prevede l’accordo sindacale. Tale accordo è da siglare nella sede territoriale del ministero del Lavoro alla presenza dei rappresentanti dell’azienda e dei sindacati stessi, nazionali o aziendali. La scadenza del 2 settembre delle pensioni rientranti nel contratto di espansione riguarda proprio la firma degli accordi sindacali dei lavoratori da mandare in pensione con relativa comunicazione all’Inps. L’adesione dei lavoratori è volontaria. La scadenza si desume dalla circolare Inps numero 48 del 24 marzo del 2021 e dal messaggio Inps numero 2419 del 2021.

Contratto di espansione e cessazione del lavoro

Infatti, per l’adesione alle pensioni con uscita 5 anni prima, la circolare 48 dell’Inps ha stabilito che la cessazione del rapporto di lavoro, sulla base del consenso dei lavoratori, debba avvenire sempre nell’ultimo giorno del mese. La decorrenza della prestazione pensionistica inizia a partire dal giorno successivo (primo giorno del mese), senza soluzione di continuità.

Contratto di espansione, da quando decorre la pensione nel 2021?

Di conseguenza, relativamente alle uscite del 2021 l’ultima data di recesso del rapporto di lavoro è stata fissata al 30 novembre. L’assegno di pensione, invece, decorre dal 1° dicembre. Tuttavia, la domanda di accesso all’esodo, secondo il messaggio Inps 2491 del giugno scorso, ha come scadenza non oltre i tre mesi precedenti al 1° dicembre. Dunque, calcolando i 90 giorni precedenti, risulta la scadenza per la comunicazione all’Inps dell’accordo entro il 2 settembre prossimo.

Pensione 2022: senza una riforma quali modi restano per accedere?

Quali saranno le alternative per andare in pensione nel 2022 in assenza di una riforma e nell’anno della fine della sperimentazione della quota 100? Ecco dunque la descrizione di quelli che sono, ad oggi, le possibilità di uscita del prossimo anno. Oltre alla pensione di vecchiaia, i lavoratori prossimi alla pensione potranno scegliere tra le alternative della pensione anticipata, Ape sociale, quota 41 dei lavoratori precoci, isopensione, opzione donna e contratto di espansione.

Pensione di vecchiaia, i requisiti di uscita del 2022

La classica formula di pensione, quella di vecchiaia, anche nel 2022 manterrà inalterati i requisiti di uscita. Per andare in pensione anche l’anno prossimo servirà l’età anagrafica di 67 anni unitamente ad almeno 20 anni di contributi, sommati anche presso più gestioni previdenziali, Inps e Casse professionali. Quest’ultimo passaggio è possibile grazie a una delle misure adottate negli ultimi anni, ovvero il cumulo contributivo. La pensione di vecchiaia assicura una prestazione della quale beneficiano tutti i lavoratori dipendenti e autonomi iscritti all’Assicurazione generale obbligatoria (Ago), agli aderenti alla Gestione separata Inps e ai lavoratori aderenti ai fondi pensione esclusivi e sostitutivi dell’Assicurazione generale obbligatoria.

Pensione anticipata, anche nel prossimo anno requisiti contributivi invariati

Per chi ha un alto numero di anni di contributi avendo iniziato a lavorare in giovane età, è possibile sperare nella pensione anticipata. Anche per il 2022 i requisiti contributivi rimarranno invariati (e lo saranno fino al 2026). Per l’uscita anticipata occorrono 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Non vi è differenza tra lavoratori dipendenti del settore privato o pubblico e nemmeno per gli autonomi.

Quota 100 nel 2022 solo per chi matura il diritto di pensione entro il 31 dicembre 2021

La quota 100 terminerà la sperimentazione triennale al 31 dicembre 2021. Tuttavia,  i contribuenti che abbiano maturato o matureranno i requisiti entro la fine di quest’anno potranno scegliere di uscire nel 2022 o anche negli anni successivi. Occorre, dunque, maturare l’età minima di 62 anni entro il 31 dicembre prossimo unitamente ad almeno 38 anni di contributi. La possibilità di differire l’uscita anche nel 2022 dipende dal fatto che il diritto al pensionamento anticipato con quota 100 rimane “cristallizzato”.

Quota 100, diritto cristallizzato, ma valgono le finestre mobili di 3 o 6 mesi

Conta dunque il momento in cui si maturano i requisiti della misura. Invariato rimane, invece, il meccanismo delle finestre mobili. L’introduzione della misura nel 2019 ha previsto una finestra di 3 mesi per i lavoratori del settore privato e di 6 mesi per quelli del pubblico. Ciò significa che dal momento in cui si può inoltrare la domanda di pensione a quello in cui effettivamente si inizia a ricevere l’assegno mensile passano 3 o 6 mesi.

Ape sociale, uscita per la pensione dai 63 anni ma attenzione ai requisiti richiesti

Verrà confermato ancora l’anticipo pensionistico Ape sociale, la misura di pensione anticipata che consente ai lavoratori di uscire a partire dai 63 anni. Tuttavia, è necessario prestare attenzione ai requisiti richiesti. La misura, fin dall’inizio, è stata ideata per andare incontro a determinate categorie di lavoratori in condizioni disagiate dal punto di vista economico e sociale. E, pertanto, è necessario rientrare tra i disoccupati, tra gli inabili con almeno il 74% per invalidità o tra i caregivers, ovvero tra coloro che si occupano dell’assistenza di un familiare in condizione di disabilità. Gli anni di contributi minimi sono 30 o 36 a seconda delle condizioni individuali.

Pensioni, l’Ape sociale potrebbe essere potenziata

Proprio la pensione Ape sociale è una delle misure deputate a essere potenziate per il 2022. In particolare, l’uscita a 63 anni per le persone in condizioni lavorative di disagio potrebbe riguardare più categorie rispetto a quelle attuali dei lavoratori impiegati in attività usuranti. Attualmente, le categorie previste sono in numero di 15 e vi rientrano, a titolo di esempio, gli infermieri per la sanità e le maestre e gli educatori per la scuola. Tuttavia, una delle due Commissioni istituite dall’allora ministro del lavoro Nunzia Catalfo, potrebbe procedere a includere nuove categorie lavorative tra gli usuranti, mansioni precedentemente escluse.

Precoci con quota 41, la pensione è una corsa a ostacoli tra i requisiti

Non è una ‘quota 41 per tutti‘ la misura di pensione anticipata prevista dalla normativa attuale per i precoci. Si tratta, piuttosto, di una misura che implica il possesso di specifici requisiti per lasciare prima il lavoro. Innanzitutto occorrono 41 anni di contributi previdenziali, dei quali almeno uno versato prima dei 19 anni. Nel raggiungimento dei requisiti sono validi anche i periodi di lavoro all’estero riscattati e i periodi riscattati per omissioni contributive.

Pensioni precoci, come si calcolano i contributi per la quota 41?

Inoltre, i 41 anni di contributi possono essere stati versati anche in maniera non continuativa, ma è necessario (e anche matematico) che i lavoratori precoci debbano avere l’anzianità contributiva anche prima del 1996. Infine, per andare in pensione è necessario rientrare in una delle categorie tutelate dall’Ape sociale (disoccupazione, caregivers, disabilità). La maturazione di tutti i requisiti permette al contribuente di uscire indipendentemente dall’età anagrafica.

Con l’isopensione si può andare in pensione fino a 7 anni prima

Tra le possibilità di andare in pensione prima dei 67 anni richiesti per la pensione di vecchiaia c’è l’isopensione. Si tratta di una formula di prepensionamento che può essere attivata dai datori di lavoro, con costi unicamente a carico dell’azienda. Il risparmio in anni di uscita da lavoro arriva fino a 7 per gli esodi collocati entro la fine di novembre del 2023 (dal 2024 l’isopensione si potrà fare per un massimo di 4 anni di anticipo). Dunque con l’isopensione si può uscire anche a 60 anni, ma è necessario l’accordo sindacale per favorire l’uscita dei lavoratori aziendali.

Come viene calcolato l’assegno di pensione con l’isopensione?

Con l’isopensione, l’azienda riconosce al lavoratore in uscita un assegno dello stesso importo della pensione maturata fino al momento dell’uscita. Inoltre, il datore di lavoro assicura anche una contribuzione previdenziale piena calcolata sulla media delle retribuzioni degli ultimi due anni di lavoro. Nel periodo di isopensione, quindi fino al raggiungimento della pensione di vecchiaia, è possibile svolgere qualsiasi lavoro da dipendente o da autonomo. Cosa che non è possibile nel periodo di anticipo con la quota 100: è possibile cumulare la pensione con redditi da lavoro purché siano occasionali, non alle dipendenze e dal valore lordo massimo di 5.000 euro annuali.

Pensioni con opzione donna, uscita dai 58 anni anche nel 2022

La misura di pensione anticipata per le lavoratrici nota come “Opzione donna” è stata confermata per tutto il 2021 dalla scorsa legge di Bilancio. Per il 2022 la misura potrebbe registrare una ulteriore proroga. Anzi, è possibile che l’Opzione donna diventi proprio strutturale, almeno da quanto trapela sulle intenzioni del governo Draghi. In ogni modo, i requisiti richiesti sono l’età di 58 anni per le lavoratrici alle dipendenze e 59 per le autonome. Inoltre, sono necessari 35 anni di contributi. Tuttavia, in tema di futuro assegno mensile, è necessario che le lavoratrici accettino il ricalcolo al 100% della pensione con il meccanismo contributivo. Ciò comporta un taglio che, mediamente, si attesta tra il 20 e il 30% e dura per tutta la vita da pensionate.

Pensione anticipata, le possibilità del contratto di espansione

Infine, tra le misure che consentiranno ai lavoratori di andare in pensione anticipata nel 2022 ci sarà anche il contratto di espansione. La formula prevede il prepensionamento con 5 anni di anticipo, sia che si punti a uscire prima rispetto alla pensione di vecchiaia (62 anni anziché 67 anni), sia che l’obiettivo diventi quello di anticipare cinque anni di contributi rispetto alla pensione anticipata. Il meccanismo, dunque, permettere ai lavoratori di andare in pensione con 37 anni e 10 mesi di contributi. Rimane in vigore l’anno di sconto per le donne (36 anni e 10 mesi di contributi).

Contratto di espansione, cosa serve per andare in pensione 5 anni prima?

Il contratto di espansione, già in vigore dal 2019, ha visto nel tempo modificare i requisiti di uscita, soprattutto quelli riguardanti l’azienda datrice di lavoro. Inizialmente potevano accedere alla misura le aziende con almeno 1.000 unità lavorative. Con la legge di Bilancio 2021, il requisito dimensionale minimo è stato abbassato a 250 unità lavorativa, ulteriormente ridotto a 100 unità con il decreto Sostegni bis di Mario Draghi. Serve l’adesione volontaria del lavoratore, l’accordo sindacale e la presentazione della lista dei lavoratori in uscita con la misura all’Inps.

Partita IVA per lavoratore dipendente: come cambia la contribuzione?

Anche un lavoratore dipendente può essere titolare di una partita IVA, avviando una seconda attività, ma ci sono dei limiti da rispettare.

Esistono molti lavoratori dipendenti impiegati a tempo indeterminato o determinato, che vogliono migliorare il proprio stile di vita o più semplicemente seguire, lavorando in proprio, una propria passione. Farlo non è sempre facile, tanto meno possibile. Cerchiamo di capirne il perché.

Lavoratore dipendente e partita IVA nel settore pubblico

Avviare un’attività extra, dipende se si lavora nel settore pubblico o in quello privato, o dall’orario dal tipo di impiego, a tempo parziale o pieno.

Se si svolge un pubblico impiego il lavoratore è tenuto a lavorare esclusivamente con l’ente datore di lavoro. Tuttavia, chi appartiene ai regimi speciali (docenti e dipendente part-time) dove il lavoro corrisponde alla metà di un’occupazione svolta full-time, fa eccezione.

A questo punto, diventa fondamentale il contratto di lavoro che deve prevedere o meno la disciplina che concilia il lavoro da dipendente pubblico con l’apertura di una partita IVA. Nel primo caso si configura l’impiego presso un ente pubblico, nel secondo caso si può trattare di un’impresa privata.

Spetta all’Amministrazione Pubblica concedere o negare la possibilità al proprio dipendente di svolgere una seconda attività (autonoma) a prescindere che si operi o meno con partita IVA. Tuttavia, esistono delle condizioni da rispettare:

  • l’incarico deve essere temporaneo e occasionale;
  • l’incarico non deve interferire con l’orario di lavoro svolto da dipendente;
  • non ci deve essere conflitto d’interesse;
  • l’attività deve essere svolta al di fuori del lavoro prestato alla Pubblica Amministrazione.

Nel caso il dipendente sia stato assunto con un contratto a tempo parziale pari al 50%, può svolgere un’attività extra ma sempre con il benestare del datore di lavoro.

Se, invece, l’impiegato pubblico lavora full time ma vuole avviare un’attività autonoma, può farlo ma sempre previo autorizzazione del datore di lavoro, chiedendo una diminuzione dell’orario di lavoro almeno del 50%.

Lavoratore dipendente e partita IVA nel settore privato

Anche il dipendente privato può svolgere una seconda attività di tipo autonomo, purché non sia in concorrenza con quella svolta principalmente. Può trattarsi di una ditta individuale o di un libero professionista. La clausola inerente la concorrenza è necessaria venga indicata nel contratto di lavoro, altrimenti, l’azienda non ha nulla da obiettare.

Nella pratica è comunque consigliato di mettere al corrente il proprio datore di lavoro privato della nuova situazione del suo dipendente, onde evitare di poter deteriorare il rapporto di fiducia tra le due parti, o addirittura di poter subire un licenziamento per giusta causa (per aver divulgato notizie private sull’azienda o danneggiandone l’immagine per un tornaconto personale).

Partita IVA per lavoratore dipendente: come cambia la contribuzione?

Con un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (almeno 26 ore settimanali), chi decide di avviare un’attività commerciale può non iscriversi alla Gestione Commercianti e Artigiani dell’INPS, purché la prima occupazione sia quella prevalente, ossia quella da cui deriva la maggior parte del reddito e del tempo impiegato nello svolgerla.

L’INPS invierà un avviso di iscrizione alla Gestione Commercianti e basterà rispondere con una comunicazione indicante l’attività prevalente, alla quale deve essere allegata l’ultima busta paga come verificare della propria posizione e al fine di evitare eventuali quanto probabili equivoci.

Chi scegliere di intraprendere un’attività da libero professionista è tenuto a iscriversi alla Gestione Separata INPS,. Tuttavia, il calcolo dei contributi sul reddito derivante dall’attività professionale avverrà con aliquota ridotta. Al posto dell’iscrizione alla GS Inps, è previsto l’obbligo di iscrizione all’Albo professionale, se presente, in quanto i contributi vanno versati alla relativa Cassa Previdenziale.

Nel caso di contratti di lavoro dipendente, ma a tempo determinato, sarà necessaria una valutazione del singolo contratto, così da determinare quale attività sia prevalente ai fini della contribuzione.

Rendita vitalizia dei contributi prescritti: quando è possibile il riscatto?

Per un lavoratore, i periodi non coperti o con insufficienti contributi previdenziali rappresentano un danno per la sua futura pensione. La legge permette di rimediare, anche nel momento in cui il termine di prescrizione sia scaduto. Si tratta della rendita vitalizia, lo strumento mediante il quale si possono riscattare in modo oneroso i periodi non coperti o carenti di contributi previdenziali. Il riscatto può avvenire da parte del datore di lavoro o, in mancanza, per iniziativa del lavoratore stesso.

Circolare Inps numero 78 del 29 maggio 2019

Sulla questione è intervenuta recentemente l’Inps con la circolare numero 78 del 29 maggio 2019. Nel documento l’Istituto di previdenza elenca i dettagli procedurali per la presentazione della domanda e l’indicazione dei mezzi di prova che supportano la richiesta. La prova documentale dell’esistenza del rapporto di lavoro, la data certa, l’esistenza certa, le dichiarazioni ora per allora e quelle dalla Pubblica amministrazione, le attestazioni del sindaco sono altresì precisate nella medesima circolare. Tuttavia, l’istituto del riscatto dei contributi omessi risale già all’articolo 13 della legge numero 1338 del 1962.

La legge 1338 del 1962 sulla costituzione della rendita vitalizia

Secondo la legge, infatti, “il datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l’assicurazione obbligatoria di invalidità, vecchiaia e superstiti e che non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione ai sensi dell’articolo 55 del regio decreto legge 4 ottobre 1935, numero 1827, può chiedere all’Istituto nazionale della previdenza sociale di costituire una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell’assicurazione obbligatoria, che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi”.

Rendita dei contributi prescritti, effetto immediato sulla pensione

La stessa legge specifica che la rendita dei contributi prescritti integra con effetto immediato la pensione già in essere. In caso contrario, i contributi sono valutati ai fini dell’assicurazione obbligatoria prevista per la pensione di invalidità, per la vecchiaia e a favore dei superstiti.

Contributi prescritti, quando il pagamento spetta al datore di lavoro

Il datore di lavoro può esercitare la facoltà del versamento dei contributi prescritti esibendo all’Inps i documenti di data certa, dai quali si evince l’effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro. Deve risultare, inoltre, anche la misura della retribuzione corrisposta al lavoratore stesso.

Quando i contributi prescritti devono essere versati dal lavoratore?

I contributi prescritti possono essere versati dal lavoratore nel momento in cui non possa ottenere dal datore di lavoro la costituzione della rendita. In questo caso, il lavoratore si sostituisce al datore di lavoro, salvo il diritto del risarcimento del danno. Ricade sul lavoratore stesso l’onere di fornire all’Inps le prove del rapporto di lavoro e della retribuzione. Tra i soggetti interessati alla costituzione della rendita vitalizia rientrano anche i superstiti del lavoratore.

Quando può essere presentata la domanda all’Inps dei contributi prescritti?

La domanda dei contributi prescritti può essere presentata all’Inps senza limiti temporali, anche dopo il verificarsi del pagamento di un trattamento di pensione. È inoltre ammessa la domanda per omissioni parziali, nel caso in cui sia stata versata una contribuzione parziale rispetto alle retribuzioni che sono state percepite effettivamente. Infine, si può presentare domanda dei contributi prescritti anche per coprire parzialmente il periodo durante il quale si sia verificata omissione contributiva. Ad esempio, il riscatto può avvenire solo per le settimane necessarie per perfezionare i requisiti della pensione.

Chi sono i destinatari del riscatto o della costituzione della rendita vitalizia?

La circolare Inps 78 del 29 maggio 2019 riporta compiutamente i destinatari dello strumento del riscatto dei contributi omessi, ovvero gli interessati alla costituzione della rendita vitalizia. Infatti, figurano:

  • i lavoratori di un rapporto di lavoro subordinato;
  • i familiari coadiuvanti e coadiutori di chi è titolare di impresa artigiana o commerciale;
  • i collaboratori del nucleo diretto coltivatore diversi dal titolare e collaboratori dei nuclei colonici e mezzadrili;
  • i lavoratori che, essendo soggetti al regime assicurativo della gestione separata, non siano obbligati al versamento diretto della contribuzione, essendo la propria quota trattenuta dal committente o associante e versata direttamente da quest’ultimo;
  • gli iscritti alla Cassa per le pensioni degli insegnanti di asilo e di scuole elementari parificate.

Prescrizione dei contributi, quale attesa?

Il presupposto per attivare l’istituto del riscatto dei contributi omessi è che i contributi stessi siano caduti in prescrizione. Ciò avviene al trascorrere di cinque anni se la domanda viene presentata dal datore di lavoro e di dieci anni se è invece il lavoratore stesso a farne denuncia all’Inps.

Quanto si paga per riscattare i contributi omessi nel sistema retributivo?

Se i periodi per i quali si richiede il riscatto dei contributi omessi rientrano nel meccanismo retributivo, il costo viene calcolato in termini di “riserva matematica”. Ciò significa che si effettua il differenziale annuo tra la pensione con il riscatto dei contributi e quella senza il riscatto. Il risultato va moltiplicato per il coefficiente inerente al sesso, all’età e all’anzianità contributiva.

Costo del riscatto dei contributi omessi nel sistema contributivo

Diverso è il calcolo del riscatto di periodi di contributi omessi rientranti nel sistema contributivo. In questo meccanismo rientrano i lavoratori:

  • che abbiano iniziato a versare contributi a partire dal 1° gennaio 1996 e con meno di 18 anni di contribuzione prima del 1996;
  • i periodi dal 2012 in poi per contribuenti che abbiano almeno 18 anni di contributi versati prima del 1996.

Per queste categorie di contribuenti il costo è quantificato applicando l’aliquota contributiva in vigore nel momento in cui si presenta domanda alla retribuzione percepita nei 12 mesi precedenti la domanda stessa. Si tratta di un sistema simile, dunque, al riscatto della laurea per chi non può beneficiare del sistema agevolato dell’articolo 4 del 2019.

Costo riscatto contributi iscritti alla Gestione separata Inps, artigiani e commercianti

Per i contribuenti iscritti alla Gestione separata Inps il costo del riscatto di periodi di omessa contribuzione fa riferimento al valore medio mensile dei compensi assoggettati alla contribuzione obbligatoria degli ultimi dodici mesi precedenti la domanda stessa. Non è stato ancora chiarito, invece, quale sia il reddito sul quale debbano far riferimento gli artigiani e i commercianti per il riscatto dei periodi non coperti.

Neutralizzare contributi dannosi per la pensione: come funziona?

La riduzione dello stipendo, il ricorso alla cassa integrazione e i periodi di disoccupazione possono ridurre i contributi previdenziali. Come conseguenza, ne potrebbe risentire l’importo della futura pensione, ma è possibile neutralizzare i contributi svantaggiosi. Focus, dunque, sui contributi, l’elemento principale nel calcolo della pensione. Alcuni periodi contributivi infatti sarebbe meglio escluderli dal calcolo della pensione, come ad esemio i contributi figurativi.

Chi rischia l’assegno di pensione ridotto per i ‘contributi dannosi’?

La neutralizzazione dei contributi dannosi per la pensione futura riguarda, in primo luogo, i lavoratori che rientrano nel sistema previdenziale retributivo. La medesima situazione, invece, non si verifica se il lavoratore ricade nel mecacnismo previdenziale contributivo, con inizio di contribuzione a partire dal 1° gennaio 1996. La motivazione risiede proprio nel calcolo della pensione. Per il contribuente del regime retributivo, infatti, incidono principalmente gli stipendi percepiti negli ultimi cinque o dieci anni di lavoro.

Futura pensione in diminuzione per chi perde il lavoro prima dell’uscita

Ciò equivale a dire che, negli anni precedenti l’uscita da lavoro per la pensione, i contribuenti del sistema retributivo, in corrispondenza di stipendi più bassi, si vedrebbero calcolata la futura pensione sulla base di salari in diminuzione, anziché in aumento. Questa relazione è tanto vera quanto più penalizzante risulta per i lavoratori che perdono il proprio lavoro e percepiscono l’assegno di disoccupazione. A fronte di retribuzioni ridotte corrisponderà una pensione futura in diminuzione.

Contributi dannosi per il calcolo della pensione futura: i riferimenti normativi

I passaggi normativi rigurdanti la disciplina della neutralizzazione dei contributi “dannosi” ha radici molto indietro nel tempo. Inizialmente la questione è stata affrontata dall’articolo 37 del decreto del Presidente della Repubblica numero 818 del 26 aprile 1957. Infatti, nell’articolo si fa riferimento ai periodi da escludere in modo che non concorrano al calcolo della pensione nel quinquennio di riferimento, ovvero i periodi di:

  1. assenza facoltativa dal lavoro;
  2. lavoro subordinato all’estero;
  3. servizio militare;
  4. malatttia.

La sterilizzazione dei contributi penalizzanti

I successivi provvedimenti legislativi con la legge numero 297 del 1982 e il decreto legislatio numero 503 del 1992, nonché gli interventi della Corte costituzionale, sono andati nella direzione del riconoscere ai lavoratori, anche autonomi, la facoltà di sterilizzare gli eventuali contributi penalizzanti. In tal senso, è possibile non farli rientrere nel calcolo della futura pensione purché vengano accreditati una volta maturato il requisito contributivo richiesto per la pensione anticipata o per quella di vecchiaia.

Quali contributi si possono neutralizzare e in quali limiti?

Fatta la premessa del momento in cui si può attivare la sterilizzazione dei contributi penalizzanti, la legge riconoscere il meccanismo per un massimo di 260 settimane di contributi. Il limite fa riferimento ai periodi:

  • di rioccupazione con uno stipendio inferiore a qello che si percepita prima;
  • alla disoccupazione indennizzata.

Non vi sono limiti, invece, per la neutralizzazione dei seguenti contributi:

  • quelli riguardanti periodi figurativi di integrazione dello stipendio;
  • i periodi di contribuzione volontaria.

Domanda di neutralizzazione dei contributi penalizzanti

Spetta al lavoratore l’iniziativa di fare richiesta di neutralizzazione dei contributi penalizzanti. In particolare, la richiesta deve essere presentata all’Inps nel caso in cui il lavoratore ravvisi una decurtazione della pensione. In particolare, una volta raggiunti i requisiti della pensione di vecchiaia o della pensione anticipata, l’eventuale ed ulteriore montante di contributi accreditato può essere neutralizzato se dal calcolo dell’accredito risulti un nocumento sull’assegno di pensione.

Contributi da neutralizzare: il caso della retribuzione inferiore

Sul caso dei contributi da neutralizzare a causa di una retribuzione inferiore che possa produrre un assegno di pensione decurtato, è intervenuta l’Inps con la circolare numero 133 del 1997 e con il messaggio 12002 del 2006. La circolare, che si rifà alla sentenza della Corte Costituzionale numero 264 del 1994, recita: “In base ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza numero 264, l’esclusione dal calcolo della pensione dei periodi di retribuzione ridotta non necessari ai fini del perfezionamento dell’anzianità contributiva minima è finalizzata a evitare un depauperamento del trattamento pensionistico causato dallo svolgimento di un’attività lavorativa meno retribuita nell’ultimo quinquennio di lavoro”.

Il calcolo delle 260 settimane ai fini della confronto dei contributi

Ciò premesso, la circolare Inps specifica che: “La diminuzione della retribuzione deve essersi verificata nell’ultimo quinquennio di contribuzione, e cioe in coincidenza con il periodo di riferimento (le ultime 260 settimane di contribuzione) o nel corso di esso”. Al verificarsi di queste condizioni, l’applicabilità della sentenza numero 264 nel caso di cambiamento dell’attività lavorativa nell’ultimo quinquennio di contribuzione, necessita di “prendere a riferimento la retribuzione settimanale media percepita nell’anno di cessazione della precedente attività, calcolata sulla base delle retribuzioni percepite per tale attività, e metterla a confronto con la retribuzione media settimanale percepita nello stesso anno, calcolata sulla base delle retribuzioni percepite in relazione alla nuova attività lavorativa”.

Periodi da escludere dal calcolo della pensione

La circolare Inps detta, dunque, disposizioni in merito ai periodi da escludere dal computo della pensione. Infatti, come poi specificato dalla stessa Inps con il messaggio 12002 del 2006, “deve essere escluso dal computo della retribuzione pensionabile e dell’anzianità contributiva tutto il periodo di lavoro svolto a partire dal cambiamento di attività ovvero, in caso di riduzione retributiva avvenuta nell’ambito dello stesso rapporto di lavoro, tutto il periodo di lavoro svolto a partire dall’anno solare in cui è iniziata tale riduzione. In ogni caso non possono essere escluse dal computo più di 260 settimane di contribuzione”.

Contributi dannosi in caso di disoccupazione indennizzata

Sui contributi dannosi in caso di disoccupazione indennizzata è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza numero 82 del 2017. Nel caso di pensione retributiva non si conta il periodo di disoccupazione, se dannoso. Ovvero deve essere possibile, per il lavoratore, eslcudere i periodi in cui si sono percepiti contributi per disoccupazione.

La sentenza della Corte costituzionale sui periodi di disoccupazione

I periodi di disoccupazione andrebbero ad abbassare l’assegno pensionistico. La sentenza della Corte costituzionale ha stabilito, dunque, l’illegittimità del comma 8 dell’articolo 3, della legge 297 del 1982. Il provvedimento, infatti, non permetteva al lavoratore, che già avesse matrato il diritto alla pensione, di scorporare il periodo non lavorato coperto da disoccupazione.

Integrazione salariale ai fini della pensione nel retributivo

Non è soggetto al vincolo delle 260 settimane il caso dell’integrazione salariale. La circolare Inps numero 158 del 1996 prende in esame il lavoratore che percepisce, nell’ultimo periodo antecedente la decorrenza della pensione, il trattamento di integrazione salariale. In particolare, l’Inps stabilisce che: “La liquidazione dell’assegno pensionistico risulta determinata in misura sensibilmente più ridotta rispetto a quella che sarebbe derivata tenendo conto dei soli contributi obbligatori già versati e sufficienti, all’atto dell’ammissione all’integrazione salariale, a far conseguire il trattamento pensionistico di anzianità al raggiungimento dell’età pensionabile”.

Esclusione dei periodi di integrazione salariale

La circolare Inps disponde che “nei casi in cui nel periodo utile per il calcolo della retribuzione pensionabile, e cioè nelle ultime 260 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione, siano compresi periodi di contribuzione per integrazione salariale, la contribuzione per integrazione salariale non deve essere considerata a nessun effetto”.  Ne consegue che le pensioni con decorrenza posteriore al 31 dicembre 1992 devono essere calcolate senza tener conto dell’integrazione salariale.

Periodi di contribuzione volontaria

Rientrano nella casistica dei contributi dannosi anche quelli versati volontariamente dei quali parla l’Inps nella circolare 127 del 2000. In particolare, il ricalcolo della pensione e, dunque, la neutralizzazione dei contributi dannosi riguarda:

  • le pensioni a carico dell’assicurazione obbligatoria dei lavoratori dipendenti;
  • i lavoratori autonomi per il cumulo di contribuzione.

Il versamento dei contributi volontari, effettuato nell’ultimo quinquiennio di contribuzione, deve aver comportato una riduzione della pensione maturata sulla base dei contributi versati nella vita lavorativa.

Ricostituzione pensione, come funziona e a cosa serve?

La ricostituzione della pensione 2021 consente il ricalcolo dell’importo dell’assegno previdenziale, entro i termini stabiliti dalla legge, per effetto del riconoscimento di contributi da accreditare (figurativi, obbligatori, da riscatto) versare o maturare antecedentemente alla data di decorrenza della pensione medesima.

Durante la fase della ricostituzione, sia d’ufficio che a domanda, la pensione sarà ricalcolata in base alle norme vigenti al momento della decorrenza originaria e subirà una variazione in aumento o in diminuzione.

La domanda di ricostituzione può essere inoltrata dai pensionati pubblici e privati.

Come funziona la ricostituzione della pensione 2021

La ricostituzione della pensione permette il ricalcolo della stessa che avviene nel caso intervengano dei cambiamenti sulla contribuzione versata con nuovi effetti sul rateo pensionistico. In alcuni casi la variazione viene effettuata d’ufficio dall’ente previdenziale se è automatica. Ma nella gran parte dei casi, le variazioni non sono automatiche e, quindi, vengono effettuate su richiesta: uno dei casi è il riscatto della laurea o dei contributi.

Questa tutela è concessa in riferimento a una norma risalente del 1968, che si pone come obiettivo la salvaguardia del lavoratore per i ritardi dei datori di lavoro in merito ai propri obblighi assicurativi. In questo modo, il lavoratore può provvedere a procurarsi la documentazione necessaria per l’accredito dei contributi figurativi e di conteggiare i contributi versati in ritardo come se lo fossero stati prima della decorrenza del trattamento pensionistico.

La ricostituzione si differenzia dal supplemento di pensione

La ricostituzione della pensione si distingue dal supplemento perché, nel secondo caso si conteggiano i contributi versati successivamente alla data di decorrenza della pensione. Diversamente, nel primo caso si ottiene la valorizzazione dei contributi versati prima ma che non sono ancora stati conteggiati o non riconosciuti.

Al momento della ricostituzione, l’assegno previdenziale viene riliquidato a partire dalla data originaria di decorrenza, sulla base delle norme alle quali è stato ricalcolato l’assegno. Per via di questa procedura, può succedere che una pensione passi dal sistema misto a un calcolo con il sistema retributivo. Ciò accade, ad esempio, se vengono riscattati i periodi prima del 1996.

Ricostituzione della pensione: quando è dovuta, requisiti e regole

Il ricalcolo e la ricostituzione della pensione sono spesso ottenuti tramite il riscatto di accrediti figurativi, contributi volontari o di contributi silenti non computati in fase iniziale, periodi non ricongiunti, variazioni reddituali, subentro di pensione ai superstiti, variazioni nelle percentuali di invalidità. Nel dettaglio, la ricostituzione della pensione è dovuta ai dipendenti pubblici e privati nei seguenti casi:

  • accreditamento di contribuzione non valutata in prima liquidazione;
  • esclusione di contribuzione già valutata in prima liquidazione;
  • modifica del valore retributivo e/o contributivo già considerato in prima liquidazione.

E’ il caso di contributi non presi in considerazione per il calcolo originario o da variazione di reddito oppure ancora da differenze sulla percentuale di invalidità riconosciuta.

Domanda di ricostituzione della pensione 2021

La procedura online dedicata alla ricostituzione della pensione può avvenire su domanda del beneficiario tramite il portale dell’INPS, oppure d’ufficio. In alternativa, ci si può affidare a un Patronato o al Contact Center: digitando gratuitamente da rete fissa il numero 803164 o da rete mobile il numero 06164164 al costo dell’operatore.

Prescrizione

Non sono previsti termini di decadenza per fatti sopravvenuti. Infatti, che la contribuzione sia accreditabile su domanda o d’ufficio, la pensione è sempre riliquidata a partire dalla decorrenza originaria. Quando avviene un calcolo errato durante la prima fase di liquidazione della pensione, invece, la domanda di ricostituzione della pensione, si può fare al massimo entro tre anni per non perdere il riconoscimento del diritto, altrimenti si avrà diritto solo ai ratei del triennio antecedente al ricorso. Restano i limiti di prescrizione ma solo per il riconoscimento degli arretrati, mentre il calcolo dei ratei si effettua sempre dall’inizio della pensione.

Per i contributi prescritti, invece, si può chiedere la costituzione di una rendita vitalizia. Si tratta però di una procedura che richiedere il versamento di un onere.

Calcolo pensione: come influisce l’indennità di mobilità?

Quando avviene la liquidazione della retribuzione pensionabile, non sempre viene considerata integralmente l’indennità di mobilità al pari dell’indennità di trasferta avente effettivo valore retributivo. Per farlo, si devono dimostrare gli elementi retributivi utilizzabili per la determinazione della base del calcolo.

A tal proposito, la sentenza n. 2714 del 2020 della Corte di Cassazione chiarisce la fattispecie esaminando un caso a cui è stata sottoposta. Un lavoratore aveva contestato all’Istituto di Previdenza Sociale un errore commesso nel calcolo della pensione, sostenendo che, in violazione dell’articolo 7 della legge 233/1991, fosse stata considerata solo in modo parziale l’indennità di mobilità percepita durante gli anni di servizio.

L’ex articolo 4, comma 1 della Legge 223 del 1991 precisa che per indennità di mobilità s’intendono le somme dovute a seguito della cessazione del rapporto di lavoro conseguente alla Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria. La legge del 28 giugno 2012 n. 92 con le successive modificazioni ha abrogato l’intervento dal 1° gennaio 2017 equiparandolo ad altre prestazioni di sostegno al reddito.

Indennità di mobilità e retribuzione pensionabile

E’ importante sottolineare che ai fini del calcolo dell’indennità di mobilità e di retribuzione personale fine a se stessa, i due concetti non necessariamente coincidono. L’aumento della retribuzione posta a base dell’indennità di mobilità non fa scattare automaticamente l’aumento della retribuzione personale: in quanto è necessario dimostrare con prove gli elementi retributivi considerati utilizzabili per la determinazione della retribuzione pensionabile.

Per rendere più comprensibile il principio, si prenda ad esempio il caso delle indennità di trasferta che rientrano per intero nell’indennità di mobilità, esse vanno incluse al 50% nella retribuzione pensionabile. Infatti, le indennità di trasferta possono rappresentare risarcimento in quanto rimborso in casi occasionali, oppure retributivo come elemento occasionale e predeterminato della retribuzione in casi continuativi. La stessa motivazione è stata ribadita dalla Corte di Cassazione che ha rigettato in via definitiva il ricorso del lavoratore della predetta sentenza, rifiutando la riliquidazione della pensione.

Accredito contributi figurativi

In linea generale, l’accredito dei contributi figurativi ai fini della retribuzione pensione avviene automaticamente nel caso si tratti di:

  • cassa integrazione;
  • assistenza antitubercolare;
  • contratti di solidarietà;
  • invalidità e inabilità indennizzate con successivo recupero della capacità lavorativa;
  • LSU;
  • disoccupazione;
  • mobilità.

L’accredito della contribuzione figurativa non avviene d’ufficio e, quindi, per averlo si deve fare domanda per i contributi figurativi derivanti da:

  • malattia e infortuni;
  • maternità e congedi parentali;
  • donazione del sangue e di midollo osseo;
  • servizio militare e assimilati;
  • educazione e assistenza dei figli;
  • congedo per donne vittime di violenza;
  • licenziamento per rappresaglia;
  • assistenza a disabili (Legge 104/92);
  • aspettativa per funzioni pubbliche elettive e cariche sindacali;
  • persecuzione politica o razziale.