Pensione contributiva nel 2022: per i nati anche nel 1958 bastano 20 anni di contributi

Quando lasciare il lavoro può essere vantaggioso nonostante si dice che il sistema contributivo è penalizzante.  Potrebbe essere questo ciò che si deve dire in relazione ad una misura che è ancora oggi vigente in quanto strutturale, che consente a chi è nato anche nel 1958, di accedere ad una pensione anticipata di tre anni rispetto alle soglie della pensione di vecchiaia.

Uscita a partire dai 64 anni quindi, esattamente come la quota 102 di oggi, ma con una dotazione nettamente inferiore rispetto alla pensione per quotisti introdotta dal governo Draghi con la legge di Bilancio. La misura è la pensione anticipata contributiva, spesso poco considerata ma assai utilizzabile, soprattutto per chi per poco non centra i 38 anni di contributi per la quota 102° per la stessa ragione non ha completato i 38 anni di contributi per la quota 100.

Pensioni nati nel 1958, come uscire nel 2022

Notevoli le possibilità di accedere alla pensione nel 2022 per chi è nato nel 1958 e quindi si accinge, se non lo ha già fatto, a compiere i 64 anni di età. Per loro esistono due misure possibilmente utilizzabili per anticipare l’uscita e non attendere il 2025 per andare in pensione (a 67 anni con la quiescenza ordinaria di vecchiaia ndr).

Certo, non parliamo di chi completa i 42 anni e 10 mesi se uomo, o i 41 anni e 10 mesi se donna, che danno diritto alla pensione anticipata ordinaria, senza limiti anagrafici. E non parliamo nemmeno di chi ha completato i 41 anni di contributi e si trova ad essere una delle categorie a cui si applica la quota 41 per i precoci. Va ricordato al riguardo che precoce è chi ha un anno di contributi prima dei 19 anni di età. Per la quota 41 tra l’altro è necessario rientrare in determinate categorie che sono le stesse a cui si applica l’Ape sociale con 63 anni di età.

Quota 102 e pensione anticipata contributiva più larghe di quota 41 e Ape sociale

Caregivers, invalidi, disoccupati e lavori gravosi (per la quota 41 sono solo 15 le attività gravose previste). Sono queste le categorie che limitano molto sia l’Ape sociale che la quota 41 come platea. Quota 102 e pensione anticipata contributiva invece, non hanno limiti di platee, basandosi solo sui requisiti specifici da centrare.

Parliamo di chi ha iniziato la carriera dopo il 1996, e viene considerato un contributivo puro, o di chi riesce ad entrate nella quota 102. Due vie dicevamo, consentono di accedere alla quiescenza già nel 2022, per chi è nato nel 1958 e si trova così ad aver compiuto 64 anni di età. Due strade nettamente diverse. Una è la quota 102, l’altra la pensione anticipata contributiva.

La pensione con quota 102, come funziona nel 2022?

La quota 102 è la nuova misura inserita nel pacchetto pensioni dell’ultima manovra di Bilancio. Una misura nata in sostituzione della quota 100 da cui si differenzia sostanzialmente, solo per l’età minima di uscita. Con quota 100 si usciva dal lavoro una volta raggiunti i 62 anni di età e di 38 anni di contributi versati. Con la quota 102 invece, si esce con 64 anni di età e con 38 anni di contributi.

Uscire con la quota 102 significa sottostare fino a 67 anni al vincolo di incumulabilità tra pensione e attività di lavoro ad esclusione di quella da lavoro autonomo occasionale fino a 5.000 euro annui.

Da quota 100 a quota 102, cambia solo l’età

La quota 100 è terminata lo scorso 31 dicembre 2021 e nel 2022 potranno accedervi solo coloro i quali hanno già maturato il diritto. Si tratta di chi ha ompletato la combinazione 62+38 entro il 31 dicembre 2021. Rendere utili al calcolo della contribuzione precedenti il 2022, e non considerati lo scorso anno, concede comunque la possibilità, dal momento che gli anni pregressi coperti da operazioni effettuate nel 2022, valgono come se fossero state effettuate l’anno a cui la copertura dei contributi si riferisce. In pratica, vale la cristallizzazione del diritto come ultima possibilità di accedere alla quota 100 nonostante sia stata cessata a dicembre scorso.

La quota 102 invece scadrà il 31 dicembre prossimo, e nel 2023 varranno le stesse regole di cristallizzazione del diritto. La quota 102 quindi sarà valida solo per 12 mesi, salvo nuove proroghe oggi assai difficili da ipotizzare.

La pensione anticipata contributiva con 20 anni di contributi, difficile ma non impossibile

Un’altra possibilità per i nati nel 1958 è la pensione anticipata contributiva. Si chiama così perché è appannaggio esclusivamente dei lavoratori privi di carriera al 31 dicembre 1995. Lavoratori che vengono definiti quindi, contributivi puri. In pratica, disco verde per chi è stato privo di occupazione fino ai 37 anni di età per poi iniziare una carriera che lo ha portato a completare almeno 20 anni di contributi.

Per l’accesso a questa misura, occorrono determinate condizioni. Servono almeno 64 anni di età anagrafica, 20 anni di età contributiva. E poi, assenza di contribuzione al 31 dicembre 1995 e una pensione liquidata pari quanto meno a 1.300 euro al mese, cioè 2,8 volte l’assegno sociale.

Servono carriere e lavori importanti per completare l’uscita con 20 anni di contributi

INPS: nessun adeguamento dell’aspettativa di vita

Evidente che la combinazione 64+20, visto l’ammontare della pensione utile a poter percepire la prestazione, potrebbe essere nella maggior parte dei casi, insufficiente. Pensare a un lavoratore che alla luce di “solo” 20 anni di contribuzione, raggiunga una pensione tanto elevata, appare quanto meno azzardato. Servono lavori altamente remunerati che hanno prodotto una notevole contribuzione dal punto di vista degli importi.

Più facile che la possibilità venga sfruttata quindi da chi ha determinate carriere. Cioè chi iniziato a lavorare nel 1996 e si trova ad aver avuto una completa continuità di assunzione fino al 2022. Con 26 anni di contributi versati, in una attività lavorativa remunerata in maniera sufficientemente degna, la via è possibile. Infatti in questi casi arrivare a 1.300 euro di pensione lorda non è certo una cosa impossibile.

Resta il fatto che la pensione anticipata contributiva rispetto alla “gemella” (come età minima di uscita), quota 102, è nettamente migliore come requisiti. Evidente tutto questo dal momento che bastano 20 anni di carriera minima. Carriera minima che per la quota 102 è quasi il doppio superiore, visto che parliamo di ben 38 anni. E va ricordato anche che dei 38 anni necessari, ben 35 devono essere effettivi da lavoro. Infatti 35 anni devono essere neutri da contributi figurativi per disoccupazione, maternità esterna all’attività lavorativa e malattia.

Isee, reddito di cittadinanza e conti gioco: dentro anche le vincite ma come?

Pochi sanno che anche avere un conto gioco, per scommesse sportive o per i giochi on line che prevedono vincite in danaro, possono risultare indigesti dal punto di vista dell’accesso a bonus, prestazioni agevolate e prestazioni assistenziali. Tutto dipende dall’Isee naturalmente, che resta lo strumento utile proprio ad avere accesso a queste prestazioni.

Le vincite al gioco vanno dichiarate nell’Isee e possono andare ad influenzare il diritto a determinate prestazioni proprio perché fanno salire l’indicatore. Ma c’è dell’altro in relazione ai conti gioco. Si tratta di una problematica che abbiamo riscontrato a seguito di alcune segnalazioni di utenti che rischiano di incappare in conseguenze penali perché beneficiari del reddito di cittadinanza. E parliamo di vincite al gioco senza che necessariamente i soldi vinti vengano incassati.

Una storia particolare quella di chi rischia denuncia e perdita del sussidio per un conto gioco.

“Salve, sono stato un beneficiario del reddito di cittadinanza. Parlo al passato perché da diversi mesi non lo percepisco più. L’Inps su segnalazione della Guardia di Finanza mi ha cancellato dall’elenco dei beneficiari. Anzi, l’Istituto vuole i soldi indietro perché non mi spettavano. Il problema è dipeso da un mio conto gioco presso un concessionario per le scommesse sportive e i giochi telematici. Giochi legali perché assoggettati ad AAMS e quindi del monopolio. Ciò che mi ha portato ad essere escluso dal sussidio è il fatto che dal 2019 avrei vinto qualcosa come 20.000 euro. E adesso devo affrontare una causa per presunta frode allo Stato e per fruizione indebita di aiuti di Stato. Ho 64 anni di età, senza lavoro e senza pensione, e adesso sono davvero nei guai”

Isee e reddito di cittadinanza, il pericolo dei conti gioco

La lettera sfogo del nostro lettore mette in luce il pericolo di avere un conto gioco e percepire aiuti di Stato, come può essere il reddito di cittadinanza ma qualsiasi altro.

I conti gioco fanno parte delle varie banche dati a cui l’Inps ha accesso per verificare il diritto ad un sussidio per una persona. Ma per esempio, nel modello Isee precompilato, o meglio nella DSU precompilata, questi dati non compaiono. Deve essere il diretto interessato a comunicare le vincite inserendole nella DSU. I conti gioco infatti si basano sui dati anagrafici del titolare e sul suo codice fiscale. Il problema è che nelle banche dati è la definizione di vincita che non è quella classica e in cui si è imbattuto il nostro lettore.

Le vincite che non sono vincite

Per una persona normale, vincere significa incassare dei soldi. Per la banca dati, che è quella utilizzata dalla Guardia di Finanza per il lettore, vincite sono genericamente, qualsiasi somma che un software ha ricaricato sul conto gioco del diretto interessato.

Hai giocato 5 euro su tre partite del campionato? Hai vinto 30 euro? Bene, per il conto gioco, o le incassi tramite qualsiasi metodo previsto, o le rigiochi, le hai vinte comunque. Vale lo stesso per le video lotterie, le video slot statali e così via. In pratica, se giochi pochi euro rischi di aver vinto centinaia di euro pure se alla fine del tuo “pericoloso pomeriggio di svago”, alla fine hai perso tutto. Ogni singola combinazione vincente viene considerata vincita. E così su un conto gioco dove l’utente ha versato solo poche decine di euro, si materializzano giri di soldi enormi, virtuali ma enormi. E la Guardia di Finanza con l’Inps considerano evidentemente anche i soldi virtuali come effettivi.

Una vera anomalia questa, che non toglie il nostro lettore dal fatto compiuto di aver commesso un errore visto che con i versamenti del reddito di cittadinanza non si deve giocare ma si devono soddisfare i bisogni primari. Resta il fatto che per una situazione del genere, si rischia grosso. Si rischiano almeno 3 situazioni una più spiacevole dell’altra e cioè:

  • Esclusione dal sussidio;
  • Richiesta di restituire le somme precedentemente incassate con il sussidio;
  • Denuncia per presunta frode ai danni dello Stato.

 

Turismo: perché l’Italia rischia di essere ancora penalizzata col Green pass

Sul Green pass il governo si è diviso nuovamente nelle Commissioni Parlamentari. L’argomento certificato verde è sempre attuale, soprattutto da noi dove oggettivamente, vigono le regole più rigide praticamente da inizio pandemia. La Lega di Matteo Salvini si è vistare spingere un emendamento che chiedeva la fine del Green pass dopo il 31 marzo. La data è eloquente perché di fatto aprile segna il via alla stagione primaverile ed estiva che tanto importante è per il settore turistico che a sua volta è importante per il PIL italiano.

E con la Lega hanno votato a favore le opposizioni, quelle di Fratelli d’Italia e di Alternativa c’è. La maggioranza, PD, Italia Viva, Forza Italia e Movimento 5 Stelle hanno bocciato la proposta. Al momento nessuno stop per il Green pass, al contrario di altri Paesi dove in questi giorni si è deciso di porre fine a tutte le limitazioni.

Cosa succede in Italia con il Green pass

Per esempio, in Inghilterra stanno decidendo se porre lo stop perfino all’isolamento dei positivi da Covid, naturalmente asintomatici. I numeri dei contagi nel Regno Unito, nonostante da tempo ormai le limitazioni sono minime, continuano a scendere. Una politica diversa quella utilizzata oltre Manica rispetto a noi italiani. Da noi, notizia di ieri, si parla di aprire alla quarta dose di vaccino per i “fragili” dal primo marzo.

Gli scettici, non solo i tanto discussi no vax, già pensano che sia il preludio ad una nuova dose presto aperta a tutti. L’inizio di ogni dose è stata fatta così nei mesi scorsi, prima i fragili, poi le categorie lavorative particolari (sanitari, forze dell’ordine e così via) ed infine tutta la popolazione.

In Italia resta ancora in atto il Green pass obbligatorio in ogni luogo, lavorativo e non. In alcuni si può entrare con il certificato base, cioè anche con il tampone. In altri luoghi nemmeno con quello, serve il vaccino. Un obbligo mascherato, che vale però per gli over 50, su cui grava il rischio di ricevere a casa una multa da 100 euro se non si vaccinano e se non sono guariti dal Covid in passato.

Limitazioni ferree che minano tutte quelle attività legate anche al turismo oltre che alla ristorazione e alla ricettività. I questi mesi il calo di fatturato per tutte le attività è stato evidente, e adesso si è collegato ad un incremento delle spese tra bollette energetiche con aumenti esponenziale e aumenti dei costi delle materie prime, del carburante e così via.

Ma l’Italia non sembra indirizzata verso un allentamento delle misure, e questo rischia di essere un problema per le attività turistiche e similari.

 

Meglio aperture con limitazioni che le chiusure dei lockdown

Chi ha imposto queste regole e tutti gli opinionisti, giornalisti e così via che ogni sera litigano nei salotti dei talk show televisivi, che sono a favore del Green pass, mettono gli esercenti dinnanzi al fatto compiuto. Lo scorso anno eravate chiusi, vedete che il Green pass vi ha agevolato? Così rispondono al calo di fatturato che gli esercenti lamentano.

Con tutti i senza Green pass che non possono frequentare le attività, con la paura di tutti, anche dei vaccinati, che verte più verso le lungaggini burocratiche che verso il timore dei contagi, le attività non navigano nell’oro. E in Italia il turismo e la ristorazione sono elementi economici fondamentali per la salute dello Stato e per il nostro prodotto interno lordo. Quale turista oggi sceglierebbe l’Italia di fronte alla concorrenza di Paesi esteri dove già oggi c’è un liberi tutti o quasi?

Un dato di fatto oggettivo questo, soprattutto proseguendo in questa direzione delle limitazioni.

Bar, ristorante, negozi: quando il gestore non accetta pagamenti con il Pos, regole e conseguenze

Ormai la lotta all’uso del contante ha assunto i connotati di una guerra senza frontiere. Numerosi i provvedimenti in questa direzione, presi dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Prima il limite all’uso del contante, poi i premi a chi utilizzava il pagamento elettronico, i cashback, la lotteria degli scontrini e gli obblighi per gli esercenti di utilizzare i Pos.

La domanda di molti è proprio relativa al piccolo negozio o al bar sotto casa. Sono obbligati ad accettare pagamenti elettronici o possono rifiutarsi? E se non accettano il pagamento con carta cosa succede?

Ripetiamo, domande assolutamente lecite queste, soprattutto se si tratta di spese di pochi euro che, anche dal punto di vista del cliente, più di qualche dubbio lo lasciano sulla necessità di imporre ad un esercente questo genere di obbligo. E tra l’altro questo obbligo è stato duramente contestato fin da subito proprio dagli addetti ai lavori.

Le norme in materia di pagamento elettronico nei negozi, al bar o al ristorante

L’obbligo di accettare i pagamenti elettronici da parte dei commercianti esiste, ma mette in luce un classico paradosso all’italiana. La legge c’è, l’obbligo di rispettarla anche, ma non ci sono le sanzioni. E così i commercianti possono fare quello che vogliono, magari respingendo le richieste di pagamento con carta da parte dei clienti, con le scuse solite, cioè il terminale rotto, spento o così via dicendo.

L’obbligo riguarda esercenti di tutti i tipi ma anche professionisti. E non ci sono sostanzialmente limiti di importo al di sotto del quale servono i contanti. Come dicevamo in premessa, la lotta all’uso del contante è in pieno svolgimento. È fatto obbligo accettare i pagamenti elettronici anche per piccole cifre, cosa tutt’altro che facile però da trovare in giro. Pagare un paio di euro di caffè al bar con la carta di credito dovrebbe essere un diritto del cliente, ma trovatemi un bar che lo accetta. Saranno sicuramente pochi.

Anche perché pur se per legge questi esercenti sono tenuti, l’apparato sanzionatorio della normativa è stato posticipato ad inizio 2023. In pratica oggi c’è l’obbligo ma mancano le sanzioni e quindi chi si rifiuta al momento non rischia niente. Questo nonostante il terminale per accettare i pagamenti con moneta elettronica, cioè il Pos, è obbligatorio, perché devono averlo tutti i commercianti, gli artigiani, le attività di ristorazione, i pubblici esercizi, le attività ricettive, alberghi, B&B, agriturismo e pure i professionisti come lo sono gli avvocati, i notai, i commercialisti o i medici.

Breve storia dell’obbligo di accettazione dei pagamenti tramite moneta elettronica

Il contrasto all’uso del contante, come strumento anti evasione, è ormai datato nel tempo. Sono circa 10 anni che è stato introdotto l’obbligo del Pos. Fu il decreto Crescita del governo tecnico presieduto da Mario Monti ad introdurre questo obbligo. Era il 2012 e il decreto in questione era nello specifico il DL n° 179/2012, precisamente il suo articolo n° 15 comma 4.

La materia fu ampliata nel 2014, con un provvedimento del Ministero dello Sviluppo Economico che stabilì in 30 euro la soglia al di sopra del quale era obbligatorio accettare i pagamenti con il Pos. Soglia abbassata dal governo Renzi del 2016 a 5 euro, dopo apposito provvedimento del Ministero dell’Economia e delle Finanze allora presieduto da Padoan. Da allora nulla è cambiato, se non la cancellazione della somma minima che non esiste di fatto più.

E nel 2019 ecco che entrarono in scena le sanzioni. Erano i tempi del governo Conte bis, quello giallorosso (PD e Movimento 5 Stelle). Nel collegato alla manovra di Bilancio, cioè nel decreto Fiscale, il governo Conte inseriva una sanzione di 30 euro in misura fissa, con l’aggiunta del surplus del 4% dell’importo rifiutato al cliente. Una norma presto cancellata dal decreto Fiscale, durante il suo canonico iter di conversione in legge.

Cosa accade se il commerciante rifiuta il pagamento

Non rischiando nessuna multa, il commerciante ha il potere di rifiutare il pagamento con il Pos. L’unico rischio che corre è una eventuale segnalazione da parte del cliente all’Agenzia delle Entrate. Il fatto che mancano le sanzioni è un problema che il governo attuale, quello presieduto da Mario Draghi sembra voler risolvere con il decreto sul Recovery, visto che ha pensato di inserire con emendamento di maggioranza, le regole sanzionatorie per i casi di rifiuto da parte del negoziante piuttosto che dell’esercente.

Ma si tratta di una norma che se mai diventasse realtà, lo farebbe solo dal primo gennaio 2023.

Il limite all’uso del contante

Naturalmente parliamo di pagamenti di piccole somme, anche perché le regole vigenti sul limite al contante impongono a chi vende un prodotto o un servizio, di non poter completare la transazione se il corrispettivo dovuto da un cliente supera i 1.999 euro. Anzi, sembrava che dal primo gennaio la soglia dovesse scendere ancora a 999 euro, ma dopo un emendamento al decreto Milleproroghe, tutto è rimasto come per il 2021.

Sulle piccole cifre invece, inevitabile che anche i commercianti manifestano dubbi e perplessità in materia, a tal punto che, come dicevamo in premessa, trovare un bar che accetta il pagamento di un caffè con la carta di credito o con la carta di debito è difficile.

E sembra che a poco siano serviti gli incentivi via via inseriti dalla normativa vigente per spingere all’uso della moneta elettronica. Incentivi per i consumatori, come lo sono stati il cashback per esempio. Ma anche incentivi per esercenti e commercianti per sostenere le spese per dotarsi di Pos e relative connessioni.

Per esempio, sempre con un decreto Fiscale, quello n° 124 del 2019, venne previsto un bonus Pos fino al 100% per i commercianti muniti  di un registratore di cassa elettronico collegato col terminale Pos. E poi, recentemente, un credito di imposta ancora vigente, che permette ai professionisti, esercenti e chiunque si doti, acquistandoli o noleggiandoli, strumenti collegati ai registratori di cassa di ultima generazione, di scaricare le spese sostenute per munirsi delle apparecchiature e delle tecnologie.

Senza considerare poi le convenzioni bancarie che il governo ha studiato e sottoscritto. Molte banche infatti offrono il ristoro completo delle commissioni bancarie dovute dai commercianti o da chi accetta questi pagamenti elettronici, se riguardano compravendite sotto i 5 euro.

Cosa fare se il commerciante rifiuta il pagamento col Pos

Come detto, se un negoziante rifiuta un pagamento con carta e tramite il Pos, non rischia nulla. A meno che il cliente non segnali l’accaduto al Fisco. Niente multe lo stesso, ma non è improbabile che il commerciante in questione finisca con l’essere interessato da un accertamento di Agenzia delle Entrate. Anche il veicolo della segnalazione alla Guardia di Finanza potrebbe sortire lo stesso effetto, con i militari che potrebbero trovare opportuno approfondire il tutto verificando se il commerciante inadempiente usa il rifiuto come prassi o meno.

Va ricordato ancora che per il cittadino è un diritto sacrosanto poter pagare con carta di credito o bancomat a prescindere dall’importo. E il diritto del cliente presuppone l’obbligo di accettazione da parte dell’esercente, a prescindere dalla tipologia di attività, che sia un bar piuttosto che un tabacchi, una pizzeria piuttosto che una cartoleria, e perfino una attività ambulante.

Il Pos è obbligatorio anche per idraulico, elettricista, addetto alla caldaia, imbianchino, falegname. Ed anche per gli addetti ai servizi di Taxi o Noleggio con conducente.

Il costo delle operazioni del Pos non deve mai finire sul corrispettivo chiesto al cliente

Come dicevamo, alcune banche offrono i ristori sulle commissioni per le operazioni di importo basso. Ma è evidente che per tutte le altre operazioni di incasso i costi devono essere sostenuti dal commerciante. Infatti è severamente vietato caricare questi costi sulle spalle dei clienti, aumentando il corrispettivo dovuto. Sempre alla Guardia di Finanza infatti va segnalato l’esercente che pretende una cifra maggiore dal cliente.

Per assurdo, se il gestore non accetta il pagamento elettronico il cliente ha tutto il diritto di andare via senza pagare. Questo, Anche se non si tratta di una cancellazione del debito ma solo di un rinvio del pagamento. Va detto comunque che in una situazione del genere il gestore deve far andare via il cliente lasciandogli la fiducia totale sul suo successivo adempimento del pagamento. Non esiste norma o legge che concede ad un negoziante piuttosto che ad un gestore di un bar il diritto di chiedere al cliente il rilascio di un documento di riconoscimento o semplicemente le generalità dello stesso.

Detrazioni per i lavoratori dipendenti, la guida alla riforma

Ed alla fine la riforma fiscale ha completato il suo iter e sull’Irpef sono ingenti le novità. Cambiano gli scaglioni di imposizione fiscale e cambiano anche alcune detrazioni. In linea di massima una riforma votata ad un miglioramento per i contribuenti e per i lavoratori dipendenti. Ma come incidono le novità in busta paga è un argomento che necessità degli opportuni chiarimenti.

La riforma dell’Irpef, scaglioni e detrazioni

Cambia tutto per l’Irpef con la riforma fiscale appena introdotta del governo Draghi. Il primo cambiamento riguarda scaglioni ed aliquote. Si tratta del meccanismo con cui il fisco grava sui redditi prodotti. Un meccanismo di imposta progressivi, che aumenta la tassazione in maniera proporzionale al reddito e per la parte eccedente un determinato scaglione. Nello specifico su un determinato reddito, l’Irpef dovuta è calcolata applicando l’aliquota dello scaglione di riferimento fino alla cifra massima dello stesso scaglione. Oggi tali scaglioni passano da 5 a 4. Nel dettaglio abbiamo:

  • Fino a 15.000 euro, 23%;
  • Oltre 15.000 euro e fino a 28.000 euro, 25%;
  • Oltre 28.000 euro e fino a 50.000 euro, 35%;
  • Oltre 50.000 euro, 43 per cento.

 

Prendendo a riferimento un reddito annuo da 60.000 euro, l’Irpef verrà calcolata nel seguente modo:

  • Il 23% su 15.000 euro;
  • Il 25% su 13.000 euro;
  • Il 35% su  22.000 euro;
  • Il 43% su 10.000 euro.

Ciò che cambia rispetto allo scorso anno sono le aliquote del secondo e terzo scaglione che passano rispettivamente dal 27% al 25% e dal 38% al 35%. Messina novità per il primo scaglione e per l’ultimo.

Le nuove detrazioni sui redditi da lavoro dipendente

Se le aliquote ed i nuovi scaglioni sono un cambiamento epocale ed importante, non lo è di meno il cambiamento relativo alle detrazioni per lavoro dipendente. Si tratta di una delle più importanti voci che servono ad abbattere l’Irpef dovuta da parte dei contribuenti. Le nuove detrazioni si applicano per fascia di reddito e come detto, sono le fasce ad essere variate. Da questa autentica rivoluzione anche il bonus Irpef da 100 euro esce completamente cambiato. Un mix di novità che per qualche contribuente potrebbe risultare indigesto, con il concreto rischio di rimetterci.

Le nuove detrazioni Irpef applicate

Le nuove detrazioni andranno a compensare le perdite per chi rischia anche di perdere il diritto al bonus Irpef. A fugare ogni dubbio, ecco le detrazioni di oggi, potenziate rispetto al passato, ma comunque decrescenti e commisurate alle fasce reddituali. La detrazione per cui rientra nel primo scaglione, quindi fino a 15.000 euro di reddito, è pari a 1.880 euro.

Su questa prima fascia vanno fatte le opportune precisazioni. Resta pari a 1.880 euro quindi ma per gli sgravi fiscale il limite passa da 8.000 a 15.000 euro. Per i redditi fino a 28.000 euro, la detrazione base è pari a 1.910 euro. Entrando nello specifico dobbiamo sottolineare che le detrazioni sono le seguenti:

  • 1.880 euro di detrazione per contribuenti fino a 15.000 euro di reddito;
  • Detrazione minima per redditi fino a 15.000 euro pari a 690 euro;
  • Detrazione per redditi da lavoro a tempo determinano  non inferiore a 1.380 euro;
  • 1.910 euro di detrazione per contribuenti con redditi da 15.000 a 28.000 euro;
  • Maggiorazione per i redditi fino a 28.000 euro data dal prodotto tra 1.190 euro e l’importo corrispondente al rapporto tra 28.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e 13.000 euro;
  • 1.910 euro per redditi compresi tra 28.000 euro e 50.000 euro, ma in misura pari al rapporto tra 50.000 euro, diminuito del reddito complessivo e 22.000 euro.

Precoci in pensione nel 2022, in scadenza il primo marzo la certificazione

Una misura ormai strutturale del sistema previdenziale italiano è la quota 41, una pensione anticipata alternativa a quella ordinaria. Non parliamo della quota 41 per tutti, misura che rischia seriamente di restare un chimera visto che il governo pare intenzionato a non esaudire le richieste dei sindacati.

La quota 41 strutturale è quella precoci, una versione di pensione anticipata senza limiti di età, ma destinata ad alcune particolari categorie di soggetti, tutti precoci e con problematiche di natura fisica, familiare, reddituale o lavorativa.

La quota 41 precoci infatti è una misura che pur avendo una caratteristica contributiva, visto che somiglia alle pensioni anticipate ordinarie, ma con meno anni di carriera necessari, ha uno spiccato lato assistenziale. Resta il fatto che parliamo di una misura che può essere sfruttata anche nel 2022, ma occorre fare presto. La misura ogni anno viene rimpinguata con dei fondi ad hoc, che non sono certo illimitati.

Per questo sta per arrivare una scadenza importante per chi si trova a completare i requisiti di accesso entro il 2022, una scadenza che non fa perdere il diritto alla misura, ma che rischia, per chi non adempie, di far slittare il via alla pensione, di rischiare di uscire fuori dalle dotazioni disponibili.

La quota 41 nel 2021, tutti i requisiti necessari

In attesa che arrivino buone nuove sulle pensioni, con una riforma che si sta avviando a compimento, anche se con misure che rischiano di lasciare l’amaro in bocca a chi si aspettava miglioramenti, ci sono misure ancora attive che possono consentire uscite anticipate dal mondo del lavoro.  Una di queste è la famosa quota 41, nome che richiama anche ad una proposta dei sindacati e in passato della Lega, che non verrà però attuata.

La quota 41 in vigore è quella per i precoci. Per il 2022 la misura ha i seguenti requisiti:

  • 41 anni di contributi versati;
  • 35 anni di contributi effettivi ed al netto di contributi figurativi da disoccupazione e malattia;
  • 12 mesi di contributi versati antecedentemente  il compimento dei 19 anni di età, anche se discontinui.

La misura è destinata a:

  • Disoccupati;
  • Invalidi;
  • Caregivers;
  • Lavori gravosi.

La quota 41 per i disoccupati

Per i disoccupati e la loro quota 41, non dovrebbe essere passata una modifica intervenuta per un’altra misura loro destinata nel 2022, cioè l’Ape sociale. Infatti per l’Anticipo pensionistico sociale si è deciso di eliminare il requisito Naspi, ovvero la distanza tra il termine di fruizione dell’indennità per disoccupati e la data di presentazione della domanda. Per la quota 41 resta il vincolo dei 3 mesi. In pratica, devono essere decorsi 3 mesi dall’ultima rata di Naspi percepita per poter accedere alla pensione con quota 41.

Invalidi e caregivers, come funziona la loro quota 41

Due categorie a cui si applica la quota 41 precoci, alla pari dell’Ape sociale sono quelle delle invalidi e dei cosiddetti caregivers. Per gli invalidi serve una percentuale di disabilità certificata pari ad almeno il 74%. Per invalidità certificata il riferimento è a quella ratificata dalle competenti commissioni mediche delle Asl, quelle chiamate Commissioni Mediche Invalidi Civili.

Per i caregivers, che sono soggetti con parenti disabili a carico, serve che l’assistenza sia partita da almeno 6 mesi prima dell’uscita con la quota 41. I familiari disabili devono avere una percentuale di disabilità pari a quella degli invalidi, cioè al 74% e possono essere coniuge e figli ma anche altri parenti o affini che hanno particolari situazioni familiari. Il soggetto assistito dal richiedente la quota 41 precoci deve essere a carico di quest’ultimo e in coabitazione.

La quota 41 e i lavori gravosi, la pensione in anticipo

Chi svolge particolari attività lavorative, piuttosto logoranti e pesanti, ha diritto ad un trattamento agevolato in materia previdenziale. Parliamo dei lavori gravosi. Per loro ci sarebbero le vie dell’Ape sociale e della quota 41. Per la prima la legge di Bilancio ha esteso la possibilità a tante categorie. Una cosa che non è intervenuta per la quota 41.

Infatti per i precoci restano 15 le categorie a cui la quota 41 è destinata. Si tratta di:

  • Edili;
  • camionisti;
  • infermieri delle sale operatorie e ostetriche delle sale parto che lavorano in turni;
  • Personale  addetto all’assistenza di persone non autosufficienti;
  • Personale non qualificato addetto ai servizi di pulizia;
  • Maestre, maestri ed educatori di asili nido e scuole dell’infanzia;
  • Conciatori di pelli e pellicce;
  • Pescatori;
  • Siderurgici;
  • Marittimi;
  • Agricoli;
  • Addetti ai servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti;
  • Facchini;
  • Gruisti;
  • Macchinisti dei treni e personale ferroviario viaggiante.

 

Tutte queste attività, per dar luogo all’uscita con la quota 41, fermo restando il possesso dei requisiti generali prima descritti, devono essere stati svolti per 6 degli ultimi 7 anni di carriera, o in alternativa, per 7 degli ultimi 10 anni.

Pensione precoci: come si accede e cosa occorre fare

Per accedere al beneficio della quota 41 per i lavoratori precoci è necessario presentare una domanda di riconoscimento del beneficio prima di presentare la vera domanda di pensione. La scadenza del primo marzo è quella da segnare in rosso sul calendario. Infatti entro il primo marzo di ciascun anno, e quindi anche entro il prossimo primo marzo, va tassativamente presentata la domanda di certificazione del diritto alla pensione con la quota 41. La domanda di pensione può essere fatta in un periodo successivo ma solo ad esito positivo della domanda di riconoscimento del beneficio.

La scadenza del primo marzo è determinante dal momento che così facendo si evita il rischio di essere tagliati fuori dalla prestazione per esaurimento risorse. Per le domande di riconoscimento del beneficio presentate successivamente al primo marzo ed entro il 30 novembre dello stesso anno, le domande verranno  prese in considerazione solo se le risorse saranno sufficienti.

Va sottolineato che per la pensione in regime di quota 41 peri precoci, vige il sistema della finestra mobile, nel senso che la pensione è posticipata di 3 mesi rispetto alla data di completamento dei requisiti prescritti.

Donazioni tra parenti e tracciabilità: vanno dichiarate?

Donazioni, una materia assai particolare. Ricevere dei soldi da un parente prevede l’obbligo di dichiararli? Una domanda che molti si pongono soprattutto in questi periodi di banche dati, pagamenti tracciabili, limite al contante e spesometro.
Non è la tassazione di queste donazioni che viene messa in discussione, quanto piuttosto l’obbligo di dichiarare la provenienza del soldi che finiscono sul conto di un contribuente ed elargiti da un parente.
Vediamo di approfondire bene la materia entrando nel dettaglio di ciò che bisogna fare quando si ricevono soldi in donazione.

Le donazioni vanno dichiarate?

Una cosa che tutti sanno oggi è il rischio che di ha nello spendere soldi, nel comperare qualcosa che può insospettire il fisco perché considerata troppo costosa rispetto a redditi dichiarati e patrimoni posseduti.
E lo stesso metro di sospetto di materializza sui risparmi, perché riuscire a mettere soldi da parte se non di dichiarano guadagni rilevanti, potrebbe essere pericoloso.
Il grande fratello del fisco italiano è completamente in atto. Nulla sfugge all’occhio lungo del fisco. E c’è gente quindi che è impaurita perfino sullo spendere i propri soldi, o sul risparmiarli.
E perfino le donazioni di un genitore o di qualsiasi altro parente mettono seri dubbi su chi li riceve.
Dubbi che riguardano eventualmente, l’obbligo di tracciabilità delle donazioni o il rischio di finire sotto la lente dei controlli fiscali sulle donazioni.
Un regalo da parte dei parenti come deve essere affrontato?
Il principio basilare è che il contribuente che riceve danaro, deve dimostrare che si tratta di somme che non possono essere assoggettate a tassazione in quanto frutto di una donazione.

Donazioni in danaro, come comportarsi

Più facile dimostrare la provenienza dei soldi da un regalo, se questo viene effettuato con assegno, bonifico, carta di credito o con qualsiasi altro strumento tracciabile. Diverso il caso di donazioni in contanti. E sono queste le due vie per donare soldi ad un figlio, ad un nipote o a qualsiasi altro parente.
Va ricordato che anche una donazione in denaro è assoggettata al limite all’utilizzo del contante. Dopo l’ok ad un emendamento correttivo al decreto Milleproroghe, il tetto all’utilizzo del contante è stato riportato a 2.000 euro. L’abbassamento della soglia a 1.000 euro infatti, slitta al primo gennaio 2023.
Questo vuol dire che se la donazione è superiore a 2.000 euro questa è da effettuarsi utilizzando uno strumento tracciabile.
Di rischia una multa se gli scambi di danaro, anche tra parenti, vengono effettuati in contanti. E sono multe pesanti, che vanno da 1.000 a 50.000 euro.

Una materia assai particolare

Il fatto che di possano ricevere fino a 1999 euro in contanti, senza rischiare sanzioni, va riportato al fatto che questo soldi finiscono in una operazione di acquisto di un qualcosa fuori portata per chi la effettua. Infatti se i soldi di una donazione, anche superiore al tetto del contante, vengono detenuti in casa e non spesi, o spesi poco alla volta, non lasciano traccia. E nessun rischio si può materializzare.
Se invece di acquista qualcosa che finisce sotto osservazione da parte d fisco, ecco che i problemi possono essere molteplici.
Occorrerebbe dimostrare la donazione, cosa difficile e praticamente impossibile. E se anche si arrivasse a testimonianze o simili, ecco che scatterebbero le sanzioni.

Donazioni tracciabili, occhio comunque

Diverso il caso della donazione effettuata con strumenti tracciabili. In questo caso se il denaro viene versato in banca, il fisco può accedere la spia rossa. A primo impatto infatti, a versamento sopraggiunto è ipotizzabile che io fisco considera tale somma come imponibile.
In questo caso il fisco potrebbe assoggettare tali somme all’Irpef considerandoli redditi. E nella migliore delle ipotesi potrebbe Fare scattare in accertamento, chiedendo spiegazioni sulla provenienza delle somme.

Caro bollette, le nuove misure, ecco chi si salva

Addirittura con un decreto ad hoc, presto ribattezzato, “decreto bollette“, il governo ha stanziato un fondo ad hoc per detonare il rincaro delle bollette per gli italiani. Naturalmente non per tutti, ma si tratta di un fondo con 5,6 miliardi di dotazione.

Un provvedimento che, stando alla bozza, dovrebbe arrivare a limitare gli effetti dei rincari quanto meno fino al prossimo mese di giugno.

Soldi che si aggiungeranno a quelli utilizzati per potenziare il bonus sociale. Un intervento che mira a salvaguardare una platea di circa 3,5 milioni di famiglie. Ma probabilmente pur se ingenti, questi soldi e questi provvedimenti non basteranno. Perché i rincari delle bollette sono davvero esorbitanti, con le famiglie che subiranno in totale 33,7 miliardi di euro di maggiore spesa.

Caro bollette, chi si salva dei rincari

Famiglie e imprese, negozi, bar e ristoranti, aziende e artigiani, i rincari delle bollette non hanno risparmiato nessuno. Infatti si tratta di aumenti che hanno colpito le utenze residenziali, quelle non residenziali, le utenze commerciali e così via.

Unici a non subire il contraccolpo, quelli che avevano aderito al mercato libero e avevano optato per la tariffa fissa.

Rincari pesantissimi quindi, a tal punto che il governo è stato chiamato ad intervenire. E lo fa con nuove misure e con un decreto quasi emergenziale visto il salasso per gli utenti. Il decreto bollette oltre a prevedere alcune misure di salvaguardia per arginare i rincari, prevede anche interventi su larga scala per potenziare i programmi relativi alle energie rinnovabili e alla produzione autoctona del gas da parte della Nazione.

Il nuovo decreto del governo in pillole, cosa accade sulle bollette

Una importante dotazione quella dedicata al maxi decreto da parte dell’esecutivo. Con un progetto che per la salvaguardia sui rincari delle bollette arriverà fino a giugno. Novità queste, che vanno ad aggiungersi a quelle già precedentemente varate per questi primi tre mesi del 2022. In pratica, ciò che è stato fatto da inizio anno prosegue come intervento, tanto è vero che ciò che si legge nella bozza del nuovo decreto ricalcherà quanto fatto in precedenza.

Le nuove agevolazioni nello specifico, cosa si risparmierà

Nel dettaglio saranno circa 3 miliardi i fondi che serviranno a cancellare gli oneri di sistema sulle bollette della corrente elettrica. Una cancellazione che riguarderà sia le bollette delle utenze domestiche che le altre. Taglio di oneri anche per le bollette del gas, per le quali si pensa anche a ridurre l’IVA al 5%.

Le dotazioni andranno anche a rimpinguare il fondo del bonus sociale, che già oggi serve per scontare le bollette delle utenze domestiche di luce, acqua e gas per le famiglie numerose o per quelle in particolari condizioni di disagio reddituale ed economico.

Interventi che non detoneranno l’aumento a 360 gradi naturalmente, e quindi da molti reputati insufficienti, quasi una pillola che addolcisce il colpo e nulla più.

A maggior ragione se si pensa che in materia di aumenti e rincari delle bollette, pare già certo che durerà a lungo. Per questo si guarda con favore e insistenza alle fonti di energia alternative e rinnovabili.

Cosa pagano di più le famiglie sulle bollette

Gli aumenti sono evidenti e sono realtà, le famiglie italiane, ma non solo, lo avranno già notato con le nuove bollette. Anche gli sconti offerti dal governo in questi primi mesi del 2022, con il taglio degli oneri, sono realtà. Ma va detto pure che si stima come nei primi 6 mesi del 2022, le famiglie italiane pagheranno ben 33,7 miliardi di euro di bolletta in più.

Secondo le stime della Cgia di Mestre, ha calcolato un incremento del costo di luce e gas pari a qualcosa come 44,8 miliardi. Più di un terzo di questi aumenti riguarderanno le utenze domestiche delle famiglie. Come si legge su un articolo del sito “tg24.sky.it”, secondo il sito di comparazioni tariffarie,”Facile.it”, gli sforzi del governo, tra intervento per il primo trimestre ed intervento per il secondo, porteranno ad un risparmio di meno di 10 euro al mese. Troppo poco per chi ha visto le bollette quasi raddoppiare in questi primi mesi dell’anno.

 

Contributi a fondo perduto fino a 130.000 euro, dal 26 febbraio la procedura di richiesta del nuovo ISI

Presto si riparte con i nuovi contributi ISI Inail per imprese ed enti. Infatti dal 26 febbraio tutto sarà pronto per presentare domanda per il contributo a fondo perduto. Verrà pubblicato il nuovo bando con tutte le informazioni utili sul sito ufficiale dell’Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro. Un appuntamento che ogni anno si ripete e che molti potenziali beneficiari attendono con impazienza.

Tutto confermato quindi per il giorno 26 febbraio quando saranno note, sempre sul portale dell’Inail, le date di avvio e scadenza delle domande. Come si legge sul sito “tg24.sky.it”, la struttura del provvedimento non presenta differenze rispetto allo scorso anno e agli ultimi anni, quindi è già possibile delineare le linee guida del provvedimento che presto verrà ufficializzato.

Nuovi contributi a fondo perduto fino al 65% delle spese ammissibili

Confermato anche per il 2022 il contributo ISI Inail per le imprese e gli enti che lo richiederanno. Un contributo sulle spese ammissibili fino a un massimo di 130.000 euro. E come dicevamo il 26 febbraio tutto sarà più chiaro, con la fuoriuscita della procedura utile alle richieste con tutte le informazioni utili per partecipare, dalle date di apertura e chiusura della procedura informatica, fino alle linee guida operative per le richieste. Come al solito il bando nasce come incentivo (contributo a fondo perduto) a queste attività a dotarsi dei migliori strumenti e delle migliori apparecchiature in materia di sicurezza sul lavoro.

Ma è altrettanto vero che si tratta di un contributo utile a piccole e medie imprese, anche del settore agricolo, per dotarsi di strumenti produttivi eco-sostenibili. In pratica, una misura che opererà a 360 gradi in materia di dotazioni riguardanti la sicurezza sul posto di lavoro, la sostenibilità ambientale e le condizioni di salute degli addetti.

Alcuni esempi di interventi ammissibili per il contributo a fondo perduto

Proprio sull’agricoltura prima citata si può fare un esempio di ciò che si prefigge di fare il bando ISI Inail. Infatti come testualmente si legge sul sito Inail dove si da notizia della imminente partenza della procedura, l’incentivo serve ad  “incoraggiare le micro e piccole imprese, operanti nel settore della produzione primaria dei prodotti agricoli, all’acquisto di nuovi macchinari e attrezzature di lavoro caratterizzati da soluzioni innovative per abbattere in misura significativa le emissioni inquinanti, migliorare il rendimento e la sostenibilità globali e, in concomitanza, conseguire la riduzione del livello di rumorosità o del rischio infortunistico o di quello derivante dallo svolgimento di operazioni manuali”.

Lo strumento che molte aziende hanno utilizzato in questi ultimi anni, per il 2022 prevede un contributo pari al 65% delle spese ammissibili fino al tetto massimo di 130.000 per richiedente.  Non ci sono vincoli territoriali o di zona in materia contributo ISI. Infatti lo strumento potrà essere utilizzato su tutto il territorio nazionale, da tutte le imprese, anche in forma individuale. Fattore essenziale la loro iscrizione alla Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura. Ma da qualche anno la novità è che tale contributo può riguardare pure chi opera nel terzo settore, anche se con lacune limitazioni.

Il bando ISI Inail, la struttura in sintesi

Per le imprese del terzo settore, o meglio per gli enti del terzo settore, il contributo è utilizzabile, ma solo per quanto concerne la parte relativa all’asse 2 di finanziamento. Infatti, sempre come si legge sul già citato sito di Sky, il bando ISI prevede cinque assi di finanziamento. Nello specifico:

  • Finanziamento per nuovi progetti di investimento o di adozione di modelli organizzativi e di responsabilità sociale;
  • Finanziamento di nuovi progetti per la riduzione del rischio da movimentazione manuale di carichi;
  • Finanziamento per nuovi progetti di bonifica amianto;
  • Finanziamento per nuovi progetti per micro e piccole imprese che operano in determinati settori o aree;
  • Finanziamento per le imprese, anche piccole e medie che operano nel settore agricolo, con produzione di prodotti agricoli.

Il contributo è sfruttabile partendo da una spesa minima di 5.000 euro ed una massima di 130.000 euro. Molto cambia in base all’asse di intervento tra i 5 prima citati. Il contributo è pari al 65% della spesa sostenuta. Per l’asse 4 la spesa massima è pari a 50.000 euro e quella minima a 2.000 euro. Per l’asse 5, quello delle imprese agricole invece, la percentuale di fondo perduto concessa rispetto alla spesa sostenuta passa dal 65% al 40% (ma 50% se trattasi di giovani imprenditori agricoli). In questo settore le soglie minime e massime di investimento sono pari, rispettivamente, a 1.000 e 60.000 euro.

Assegno Unico e detrazioni italiani all’estero, norma poco chiara

Nonostante un testo di legge ed una recente circolare da parte dell’Inps, ancora poca chiarezza esce fuori per le due grandi novità del 2022, cioè l’assegno unico sui figli a carico sotto i 21 anni di età e le nuove detrazioni Irpef.

Per esempio, sta facendo discutere il fatto che non è ancora chiarissimo cosa devono fare e cosa spetterebbe agli italiani all’estero, che sono stati oggetto di una nota di alcuni parlamentari della Repubblica eletti nelle Circoscrizioni Estere.

Assegno unico, a che punto siamo

A dire il vero la legge anche per chi ha partecipato alla sua stesura è scritta piuttosto male e da più di qualche perplessità di interpretazione per quasi tutti i suoi punti cardine. Tra i tanti dubbi c’è quello che riguarda gli italiani all’estero, ovvero l’applicabilità dei nuovi dettami normativi sull’assegno unico, per gli italiani all’estero.

Nemmeno la circolare n° 23 del 9 febbraio scorso, con cui l’Inps ha cercato di spiegare alcuni punti delle novità, è servita a fugare i dubbi. E nemmeno dalle risposte dell’Istituto alle FAQ si capisce granché in materia di italiani all’estero, che non sono certo pochi. Lo si evince dalla nota di cui parlavamo in premessa. Si tratta di quella della deputata Angela Schirò, eletta nella circoscrizione Europa e del senatore Fabio Porta eletto nelle circoscrizione America Meridionale. Sono due parlamentari del PD eletti all’estero. E sono quelli che portano in auge alcune delle perplessità che riguardano la corretta applicazione della legge sull’assegno unico ai residenti all’estero.

Quali sono i dubbi di interpretazione

Ciò che i due sollevano è un dubbio lecito in materia visto che in primo luogo la novità porta all’abrogazione dell’Assegno per il nucleo familiare (ANF) per i figli sotto i 21 anni di età e per le loro detrazioni per carichi di famiglia. Misure di welfare queste, sostituite dall’assegno unico universale.

Ma le misure precedenti, regolarmente applicate agli italiani all’estero, non prevedevano alcun requisito territoriale, nel senso che non erano collegate a domicilio o residenza degli aventi diritto. Il nuovo assegno unico invece prevede tra i requisiti utili alla sua fruizione, la residenza o al massimo il domicilio in Italia.

Stando alle regole quindi, non avendo residenza in Italia questi lavoratori potrebbero essere tagliati fuori dalla misura.

La nota dei due parlamentari è chiara nel sollevare dubbi di legittimità

Ciò che sollevano i due parlamentari della Repubblica è una presunta nuova normativa che va in contrasto con quello che è il diritto internazionale. Esiste in effetti tutta una normativa al riguardo, dalle convenzioni sulla sicurezza sociale alle direttive UE. Per non parlare dei tanti dettami giurisprudenziali con tanto di sentenze delle Corti come quella di Giustizia della Comunità Europea.

Dubbi leciti quindi, soprattutto dopo che l’Inps ha emanato una circolare che tutto fa tranne che chiarire l’arcano. L’Istituto non fa altro che sottolineare come per fruire della nuova misura, c’è da rispettare un preciso requisito. Infatti tra i requisiti da detenere al momento della presentazione della domanda e durante il corso di fruizione dell’assegno, si sono la residenza o il domicilio in Italia.

Perché per l’assegno unico fondamentale la residenza

Una norma scritta per evitare pratiche anomale e per scongiurare il fenomeno dei furbetti. Trucchi e pratiche più o meno lecite, che per ogni nuova misura ne escono copiosi.  Per evitare che ci siano richieste da parte di soggetti non residenti in Italia che sfruttano una regola e quindi un beneficio dello Stato italiano.

Proprio l’Inps non da risposta al riguardo e rimanda tutto a futuri chiarimenti, sottolineando però che al momento l’assegno unico trova applicazione limitatamente ai richiedenti residenti in Italia per i figli sotto i 21 anni di età che fanno parte del nucleo familiare del richiedente come emerge dall’Isee.

Molti i potenziali esclusi dall’assegno unico

Una precisazione che di fatto oggi esclude molti italiani dalla fruizione di questo beneficio. Ma allo stesso tempo conferma la cessazione per gli stessi italiani esclusi dall’assegno unico, tanto della fruizione delle detrazioni per i figli a carico che della fruizione dell’Assegno per il nucleo familiare. L’abrogazione di queste due misure verrà applicata d’ufficio e quindi la penalizzazione per questi lavoratori rischia di diventare massiccia.

Sempre relativamente alle problematiche degli italiani all’estero, i due parlamentari sottolineano pure che non è chiaro nemmeno il caso di italiani residenti nel territorio della penisola con figli a carico residenti all’estero e iscritti Aire. Anche in questo caso, se il fattore determinante è quello della convivenza e del nucleo familiare ai fini Isee, potrebbe venire meno il diritto per molte famiglie.

Arrivano proposte di modifica normativa

Si attendono aggiornamenti in merito, anche perché sembra stiano arrivando proposte ed emendamenti su determinati atti (per esempio il nuovo decreto emergenziale che dovrebbe chiamarsi decreto Sostegni),che vogliono che per gli italiani all’estero venga salvaguardata la normativa che vede loro stessi come beneficiari di ANF e detrazioni per i figli a carico, nel senso che si chiede la mancata applicazione dell’assegno unico a questi lavoratori.