Ticket licenziamento 2022: quando è dovuto e quando no

Novità dall’Inps in materia di Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (Naspi) e quindi novità anche per uno degli adempimenti più discussi per i datori di lavoro. Vengono aggiornate le cifre relative al cosiddetto ticket licenziamento, contributo dovuto dal datore di lavoro nel caso di interruzione del rapporto di lavoro con un proprio dipendente.

Proprio partendo dalla circolare n° 26 dello scorso 16 febbraio con cui l’Inps aggiorna i valori della Naspi, della Dis.Coll e degli altri ammortizzatori sociali, vediamo cosa è cambiato per il Ticket licenziamento. Perché inevitabilmente tale contributo, che i datori di lavoro devono versare per i licenziamenti dei dipendenti, cambia. Parliamo di dipendenti assunti a tempo indeterminato che a causa del licenziamento, rientrano nel perimetro della Naspi indipendentemente dal requisito contributivo.

Ticket licenziamento, di cosa si tratta

Il ticket licenziamento è un contributo che alcuni datori di lavoro devono erogare a seguito di licenziamento di un loro lavoratore subordinato assunto precedentemente. L’assunzione come vedremo, deve essere stata con contratto di lavoro a tempo indeterminato. Un adempimento a cui sono assoggettati alcuni datori di lavoro ormai dal lontano 2013, da quando fu introdotto dai legislatori tramite nuova legge.

Fu la legge n° 92 del 28 giugno 2012 ad introdurre questo adempimento a carico dei datori di lavoro. In base ai dettami normativi introdotti con questa legge, il ticket ha iniziato a gravare sulle interruzioni dei rapporti di lavoro. Un contributo a carico del datore di lavoro dovuto come partecipazione alla spesa che lo Stato deve sostenere per la Naspi teoricamente spettante al lavoratore licenziato. Contributo dovuto nei casi d’interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con motivazioni identiche a quelle che danno diritto alla Naspi. Infatti il ticket è dovuto se l’interruzione da diritto alla Naspi per il lavoratore dipendente. In questo caso il datore di lavoro deve versare un corrispettivo.

A far data dal primo gennaio 2013 infatti, in capo al datore di lavoro ricade l’onere di versare una  somma di denaro pari al 41% del massimale mensile di indennità di disoccupazione. E il versamento varia in base alla anzianità del lavoratore licenziato, perché occorre versare il corrispettivo ogni 12 mesi di anzianità aziendale del dipendente  negli ultimi 3 anni.

Il ticket licenziamento 2022

Come dicevamo, variando i massimali Naspi spettanti a seguito della nuova circolare Inps dello scorso 16 febbraio, cambiano gli importi dovuti dai datori di lavoro come ticket licenziamento.

Il contributo, per l’anno 2022 è pari a 557,92. Lo si desume dagli aumenti delle soglie della Naspi, senza però che l’Inps abbia in qualche modo fatto riferimento a nuove soglie per questo contributo in capo al datore di lavoro sui licenziamenti. Ne parla anche il sito “dottrinalavoro.it” che ha prodottole stime sulle nuove cifre sul ticket per il licenziamento, partendo proprio dalla nuova circolare Inps sugli ammortizzatori sociali.

Infatti, dal momento che l’importo soglia della nuova Naspi 2022 è pari a 1.360,77 euro, il suo 41% è pari proprio a 557,92 euro. Stando a questa nuova soglia, su un rapporto di lavoro che si interrompe con causali che danno diritto alla Naspi, se si tratta di un lavoratore dipendente assunto con contratto a tempo indeterminato da molto tempo si può arrivare a dover versare oltre 1.670 euro (il contributo annuale moltiplicato per 3 anni). A fugare dubbi, vanno sottolineate alcune cose.

Alcune particolarità del contributo per il datore di lavoro

Il contributo è commisurato all’anzianità di servizio presso lo stesso datore di lavoro e calcolato in mesi fino ad un massimo di 36 mesi. Il mese intero di lavoro è inteso come quello con assunzione superiore a 15 giorni. Se da un lato si deve distinguere tra lavoro a tempo indeterminato, per cui il contributo è dovuto, e lavoro a termine per cui esso non è dovuto, non si fanno altre distinzioni. Infatti nulla cambia per il ticket licenziamento tra lavoro full-time o part-time.

L’obbligo del versamento è da risolvere entro il giorno 16 del secondo mese successivo a quello in cui si materializza il licenziamento. Non si può versare a rate. Va ricordato infine che il ticket licenziamento è dovuto per le seguenti tipologie di interruzione del rapporto di lavoro:

  • Licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo;
  • Licenziamento per giusta causa o per superamento del periodo di comporto ;
  • Dimissioni per giusta causa;
  • Licenziamento nel periodo di prova o quando termina tale periodo;
  • Recesso  rapporto di apprendistato da parte del datore di lavoro;
  • Dimissioni durante la maternità indennizzata;
  • Risoluzione consensuale con conciliazione.

Pensioni contributive: il ricalcolo penalizzante, ecco cosa si perde, tutti gli esempi

A dirla tutta, parlare di riforma delle pensioni come di una cosa ormai certa è sempre un esercizio azzardato visto quello a cui si è assistito negli anni. Riforma delle pensioni che più volte sembrava ad un passo ma che alla fine non è mai stata fatta. Sono stati molteplici gli interventi normativi negli ultimi anni sul capitolo delle pensioni. Ma il più delle volte sono stati interventi tampone, piccole misure ben delimitate come platea e piene zeppe di vincoli, paletti e requisiti a volte difficilmente centrabili e forse comprensibili.

Adesso però sembra che tutte le caselle del puzzle stiano andando al loro posto, con l’esecutivo Draghi che pare seriamente intenzionato a varare una riforma delle pensioni che arrivi per davvero a superare la riforma Fornero, ultima vera riforma del sistema a memoria d’uomo.

Ma sarà una riforma che secondo molti, rischia di far rimpiangere la riforma del governo Monti/Fornero. Sarà vero che dopo tanti anni di discussioni, incontri, summit e proposte, alla fine si arriva a ritoccare un sistema basato su una legge troppo severa come quella della Fornero, introducendone un’altra ancora più severa? Probabilmente si arriverà ad una riforma che produrrà misure di pensionamento anticipato come molti lavoratori auspicano, ma a caro prezzo. Un prezzo che sarà pagato come al solito dai lavoratori e futuri pensionati.

Riforma delle pensioni ad un passo? Sembrerebbe di si

Nulla ancora di ufficiale e di certo, ma pare che la riforma delle pensioni tra poche settimane potrebbe vedere finalmente i natali. E dal 2023 tutto cambierà in materia previdenziale. Sono molteplici le proposte e le ipotesi sul tavolo. Nessuna però capace di far dire a chi le osserva, che dal 2023 si andrà in pensione più facilmente. Anzi, quello che balza agli occhi è un peggioramento della situazione, non tanto per età di uscita dal lavoro o di pensionamento, quanto di importo degli assegni.

Probabilmente sarà ad aprile con il nuovo documento di economia e finanze che la riforma delle pensioni verrà predisposta, o per lo meno inizierà a fare capolino visto che il DEF è l’atto di governo con cui vengono delineate le misure di carattere economico e finanziario dello Stato, con i capitoli di spesa compresa quella previdenziale. Ciò che appare evidente è che si va verso un contributivo integrale, nel senso che probabilmente di dovrà dire addio alle pensioni calcolate nel misto.

Oggi sono sempre meno i contribuenti che hanno contributi versati nel sistema retributivo. Ma ce ne sono tanti che hanno anche più di 18 anni di versamenti prima del primo gennaio 1996. E più anni di carriera rientrano nel favorevole sistema retributivo, più si perde a ricevere una pensione calcolata tutta con il sistema contributivo.

Perché contributivo e basta

Secondo tutti i tecnici il sistema contributivo è meno favorevole ai pensionati rispetto a quello retributivo. Un dato di fatto questo incontrovertibile. Ma è altrettanto vero che per tutti questi tecnici, il sistema contributivo è il più equo. Chi va in pensione prende ciò che si merita, ovvero un assegno corrispettivo di ciò che ha versato nella carriera lavorativa.

I punti fermi che oggi sono sul tavolo riguardano due cose, cioè la mancata conferma della legge Fornero come parametro del sistema previdenziale, e lo stop alla quota 102. Si, anche quest’ultima misura, nata solo da qualche mese, in sostituzione di quota 100, cesserà il 31 dicembre prossimo.

Probabilmente però, si cercherà di arrivare ad un misura pensionistica che parte da una età pensionabile di 64 anni proprio come quota 102. Magari rendendola allineata alla pensione di vecchiaia ordinaria, cioè con uscite una volta raggiunti i 20 anni di contributi minimi (la quota 102 ne prevede 38 come la vecchia quota 100). Ma solo accettando un pieno ricalcolo contributivo.

Una pensione contributiva per tutti

Si estenderebbe a tutti la pensione anticipata contributiva che già oggi fa uscire dal lavoro chi ha compiuto 64 anni ed ha almeno 20 anni di contributi versati, per lo meno. Ma con pensione pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale. Ma è una misura che oggi riguarda solo chi è privo di contributi a qualsiasi titolo versati antecedenti il 1996. Si tratta dei cosiddetti contributivi puri, che di fatto non subirebbero alcuna penalità accettando questa misura visto che non hanno diritto a calcoli di pensione alternativi a quello per chi hanno versato, cioè il contributivo.

Diverso il caso di chi uscirebbe con una misura del genere, estesa a tutti, ma con opzione per il contributivo obbligatoria. Il rischio è che chi compie 64 anni di età nel 2023, pur completando 38 anni di contributi versati, e magari avendone già 18 o più versati al 31 dicembre 1995, possa prendere una pensione nettamente più bassa rispetto a chi essendo nato un anno prima ha sfruttato la quota 102.

Alcune proposte sul tavolo, ma tutte contributive, salasso sulle pensioni

Estendere quindi la pensione anticipata per i contributivi puri, pure ai misti è solo una proposta tra quelle sul tavolo. Ed è una proposta che prevede un grosso taglio di assegno per molti possibili pensionati che potrebbero così soprassedere e decidere di non sfruttare questo canale di uscita, aspettando la pensione di vecchiaia senza tagli di assegno. Anche perché si tratta di 3 anni di anticipo, non certo un anticipo netto di età pensionabile che può rendere particolarmente appetibile la misura. Ed anche portando la soglia da 2,8 ad 1,5 volte l’assegno sociale, l’appeal della misura non sarebbe incrementato in maniera esponenziale.
Ma ci sarebbe anche la proposta di Pasquale Tridico, Presidente dell’Inps. In questo caso la pensione potrebbe essere penalizzata solo per una parte, cioè per qualche anno fino al compimento dell’età per la pensione di vecchiaia.

Secondo il numero uno dell’Istituto Previdenziale, si potrebbe concedere una pensione anticipata a partire dai 63 anni. Ma accettando di percepire solo la parte contributiva dell’assegno. In pratica si deve accettare di percepire quella pensione tagliata e liquidata con il solo metodo contributivo. Ma il taglio durerebbe solo il necessario, cioè solo per quegli anni di anticipo fino ai 67 anni, quando si andrebbe a ricalcolare il tutto anche con la parte retributiva.  E sempre di pensione a 64 anni parla un’altra proposta, ma con taglio lineare del 3% per ogni anno di anticipo, cioè fino al 9% in meno di pensione. Evidente che il ragionamento dei legislatori è quello di dotare il sistema delle opportune misure di flessibilità in uscita, ma barattando l’anticipo con una pensione più bassa.

Esonero contributivo partite IVA: nuovo messaggio Inps

Sull’esonero dei contributi per le partite IVA nuovo messaggio Inps che spiega cosa fare in caso di reiezione della domanda.

Argomento del messaggio Inps n° 803 del 2022, le istanze di riesame per le richieste di esonero contributivo per le partite IVA.

L’Istituto previdenziale quindi spiega come fare in caso di reiezione delle domande.

Esito negativo della domanda di esonero contributivo per le partite IVA

L’esonero dei contributi per le partite IVA è un provvedimento nato con la legge di Bilancio. La manovra finanziaria ha introdotto questo esonero dei contributi previdenziali e assistenziali per i lavoratori autonomi e per i liberi professionisti. Si tratta di quei soggetti iscritti alle Gestioni INPS e alle Casse professionali autonome, che hanno fatto registrare un calo di fatturato pari o superiore al 33% e con redditi complessivi al di sotto di 50mila euro.

Il nuovo messaggio Inps, oltre a confermare la platea degli interessati, fornisce le istruzioni utili per provvedere all’invio delle istanze di riesame. E naturalmente viene messo in luce il meccanismo attraverso il quale si può arrivare alla verifica delle motivazioni per le quali l’istanza di richiesta dell’esonero è stata respinta.

 

Cosa mette in evidenza l’Inps nel messaggio n°803 del 2022

Dopo aver ricevuto la domanda da parte dei contribuenti, l’Inps provvede alla verifica della detenzione dei relativi requisiti di accesso alle agevolazioni. Lo sgravio dei contributi avviene esclusivamente ad esito positivo di queste verifiche. Se invece sopraggiunge esito negativo della domanda di accesso alle agevolazioni, l’Inps provvede a darne immediata comunicazione ai diretti interessati. In questo modo il contribuente oltre ad essere messo al corrente della reiezione, può trasmettere la domanda di riesame con tutti i documenti eventualmente in suo possesso per far si che l’Inps riveda la sua precedente posizione.

Come controllare la posizione della domanda, l’esito o le motivazioni della reiezione

Proprio questo ciò che l’Inps fa con il prima citato e nuovo messaggio pubblicato oggi 18 febbraio 2022 sul portale ufficiale dell’Istituto nell’area “Inps Comunica”.

Nella comunicazione Inps viene imposto anche il termine entro cui far rilevare le motivazioni per le quali si intende provvedere al riesame. Termine perentorio anche per inviare l’istanza di riesame all’Istituto Previdenziale. Viene sottolineato anche da dove scaturiscono i controlli dell’Istituto. Parliamo di quelli che l’Inps ha prodotto dopo aver ricevuto le istanze. Controlli che hanno riguardato tutti i requisiti che davano diritto alla corresponsione del beneficio dello sgravio. Quindi, dall’assenza di un contratto di lavoro subordinato in capo al richiedente, alla effettiva iscrizione alle gestioni Inps.

Il messaggio si è reso necessario dal momento che non sono state poche le domande respinte ai richiedenti. Domande respinte nella stragrande maggioranza dei casi per mancanza di alcuni dei requisiti necessari per accedere al beneficio. L’Inps infine ricorda come verificare il tutto. Per gli interessati basterà accedere all’area riservata del sito dell’Inps. Così facendo è possibile in qualsiasi momento verificare lo stato delle domande di esonero contributivo.

Assegno unico universale, genitori separati, divorziati o non conviventi

L’assegno unico per i figli a carico è la grande novità che entrerà in vigore nel 2022, dal prossimo primo marzo 2022. Una misura che scombina tutta la normativa oggi vigente in materia di prestazioni per i figli a carico. L’assegno unico andrà a cancellare tutte le misure di welfare sulla famiglia, o quasi tutte.

Ma la novità come è normale che sia, apre a tutta una serie di problematiche da affrontare bene, per evitare di rimanere spiazzati da questa rivoluzione. Per esempio, i casi particolari riguardano le famiglie con genitori separati, divorziati o non conviventi. Tutti casi da approfondire attentamente.

Assegno unico genitori separati, divorziati o non conviventi

Sono molti gli aspetti di non facile interpretazione collegati all’assegno universale per i figli a carico. Corretto calcolo dell’Isee, corretta individuazione del nucleo familiare e così via. Senza considerare poi tutte le altre beghe dietro, dai genitori che non sono in accordo con la ripartizione del bonus. Basti pensare ai problemi  di chi conti correnti con Iban, non intestato al diretto interessato.

Infatti l’assegno deve essere liquidato sul conto intestato al genitore o al massimo cointestato tra i genitori.

In altri termini, una serie di problemi che possono portare ad una reiezione delle domande. Problemi che l’Inps deve cercare di risolvere quanto prima tramite le sue risposte alla centinaia di migliaia di faq pervenute. Va considerata prima di tutto la portata della misura, che interessa una enorme platea. In effetti,  solo in queste prime settimane dall’avvio delle domande, l’assegno ha fatto registrare oltre un milione di richieste.

Il genitore attratto nel nucleo familiare dei figli anche se non risiede effettivamente con loro è un principio cardine per capire come funziona, prima di tutto l’Isee, e poi l’assegno unico.

Assegno unico ed Isee, un collegamento inevitabile o quasi

Per percepire l’assegno unico serve l’Isee. Questo ciò che è evidente a tutti. Per la prima volta, anche lavoratori che mai prima d’ora avevano dovuto ottenere l’Isee  per le detrazioni o gli assegni al nucleo familiare. Da adesso, per percepire la misura universale che sostituisce le precedenti, devono adempiere all’obbligo di munirsi di Isee in corso di validità.

L’assegno universale può essere richiesto anche senza Isee, ma in questo caso la somma percepita è quella minima, pari a 50 euro al mese a figlio. L’Isee quindi serve per la misura dell’assegno e non per il diritto a riceverlo. L’Isee è necessario per ottenere la cifra effettivamente spettante in base alle proprie condizioni patrimoniali e reddituali. Situazioni economiche che come vedremo, vanno riferite  all’intero nucleo familiare.

Occorre pertanto presentare la Dichiarazione Sostitutiva Unica, la cosiddetta DSU. Ed è proprio nella DSU che viene prevista l’attrazione nel nucleo familiare del genitore non più convivente con i figli.

Genitori separati o divorziati, cosa occorre sapere per Isee e assegno universale

L’assegno unico riguarda i figli a carico fino ai 21 anni di età. Sui figli esiste l’istituto della responsabilità genitoriale. Per questo per famiglie con genitori separati o divorziati, in linea di massima e senza previo accordo tra i due ex coniugi, l’assegno unico spetta ad entrambi.  E deve essere ripartito in pari misura tra loro due.

Lo prevede l’articolo n° 6 comma n° 4 del Decreto Legislativo che ha istituito la misura, ovvero il n° 230 del 2021. L’accordo tra le parti può essere diverso. Magari con l’assegno che viene erogato ad uno dei due, soprattutto a quello che il giudice ha stabilito essere il genitore affidatario o collocatario dei figli.

Per fugare i dubbi, va sottolineato che in caso di affido esclusivo ad un solo genitore, l’assegno verrà erogato proprio a quest’ultimo e per intero. Lo stesso vale per i casi di nomina di un tutore. Questo alla luce del fatto che l’assegno è riconosciuto nell’esclusivo interesse del minore tutelato. Un principio confermato dal fatto che dopo i 18 anni di età il figlio può richiedere direttamente l’assegno al posto dei due genitori.

L’importanza del nucleo familiare

La scelta di ripartire l’assegno in parti uguali tra entrambi i genitori può sopraggiungere anche nei mesi successivi alle prime erogazioni. In questo caso la ripartizione scatterà dal primo giorno di pagamento successivo alla scelta effettuata e differente da quella iniziale.

Va ricordato che il nucleo familiare per la DSU deve comprendere sempre entrambi i genitori, a prescindere dalla loro coabitazione o convivenza. A meno che non ci si trovi in alcuni casi specifici.Tra questi, il mancato riconoscimento di un figlio da parte di uno dei due genitori. Ma anche in caso di decesso di uno dei due o se sia sopraggiunta una sentenza di allontanamento dal nucleo familiare per uno di essi.

Il nucleo familiare è fondamentale non solo per l’Isee ma anche per la corresponsione dell’assegno universale per i figli a carico. Il nucleo familiare che viene preso in considerazione per l’assegno universale è quello comprensivo di entrambi i genitori. Questo vale anche per  quelli separati, divorziati o non conviventi. E nel modulo di domanda va indicato anche il cognome dell’altro genitore.

Quale Isee deve essere quello di riferimento?

Per calcolare l’importo dell’assegno unico spettante, come dicevamo, l’Isee è di fondamentale importanza. In caso di genitori separati o divorziati la regola generale è cosa certa. Infatti per calcolare il giusto ammontare dell’assegno l’Isee di riferimento è quello dove è inserito il figlio beneficiario della prestazione. E questo prescinde dal fatto che il richiedente sia il genitore che non fa parte di quel nucleo familiare per separazione o divorzio.

Va precisato che se ci si trova dinnanzi a casi di genitori non coniugati e non conviventi tra di loro, occorre cautela. Infatti il genitore esterno al nucleo familiare va considerato come facente parte del nucleo familiare del figlio.

Ricapitolando, il genitore non convivente che però ha riconosciuto il figlio (il beneficiario dell’assegno), viene attratto nel nucleo familiare del figlio a meno che:

  • Sia risposato con un altro coniuge naturalmente diverso dall’altro genitore del beneficiario della prestazione;
  • Abbia altri figli con una persona differente dall’ex coniuge e genitore del figlio beneficiario dell’assegno;
  • Sia stato assoggettato all’erogazione dell’assegno di mantenimento al figlio beneficiario dell’assegno unico;
  • Abbia ricevuto un provvedimento giudiziario di allontanamento dal nucleo familiare del figlio beneficiario dell’assegno.

Altri chiarimenti necessari per i casi particolari per l’assegno unico

Non è attratto nel nucleo familiare del figlio beneficiario dell’assegno il genitore risposato o con nuova prole da altro genitore. Ma occorrerà integrare la DSU con una componente aggiuntiva dal momento che si tiene conto della sua situazione reddituale e patrimoniale. Cosa che non accade in caso di assegno di mantenimento o di allontanamento dal nucleo familiare, cioè da provvedimenti di una autorità giudiziaria. In pratica in questi casi il genitore non convivente oltre a non essere attratto nell’Isee, non andrà a costituire nemmeno la componente aggiuntiva. Quindi, quella componente che serve nei casi prima citati,  per il giusto calcolo della prestazione.

Infine va detto che l’adempimento della componente aggiuntiva può essere espletato anche inserendo il numero di protocollo Inps dell’Isee se il genitore non convivente ne ha già uno in corso di validità.

Auto d’epoca o auto storica: guida al bollo auto

Avere una auto storica o d’epoca, oltre al livello affettivo offre pure alcuni vantaggi, tra cui quelli sul bollo auto. Qualcuno le chiama auto storiche, altri le chiamano auto d’epoca. Parliamo di auto piuttosto vecchie, datate nel tempo che possono avere una valenza collezionistica o storica, oltre ad avere un valore affettivo per il proprietario. Si tratta di auto che godono di alcuni vantaggi fiscali rispetto a tutte le altre auto. Uno di questi vantaggi riguarda il bollo auto.

Auto d’epoca ed auto storiche, importante capire le differenze

Per capire tutto questo dobbiamo tornare alla considerazione iniziale. Anche se sembrano la stessa cosa, anche se molti le confondono, auto d’epoca ed auto storiche sono due cose diverse. Ed anche sul nostro approfondimento di oggi, cioè sul bollo auto, queste differenze sono importanti.

L’auto storica o meglio, il veicolo storico, è quel veicolo che ha almeno 30 anni di età (dalla prima immatricolazione). Il veicolo d’epoca invece è quello che ha una età compresa tra i 20 ed i 30 anni.

Le differenze sono sostanziali anche sull’utilizzo che ne consegue, per questo veicolo.

Le auto d’epoca sono auto che possono liberamente circolare, anche se, essendo vecchie e sicuramente piuttosto inquinanti, devo sottostare alle comuni regole relative a ZTL, targhe alterne e blocchi come stabiliscono le regole da città a città.

Le auto storiche invece non possono circolare liberamente, se non previa autorizzazione delle autorità in concomitanza con mostre, raduni, fiere ed eventi simili.

Bollo auto d’epoca e auto storiche

Ricapitolando, in maniera sintetica possiamo definire come auto d’epoca quelle costruite da oltre vent’anni non utilizzate per lavoro impresa, arti o professioni. Le auto storiche invece sono auto con le stesse caratteristiche delle precedenti, sono che hanno 30 o più anni di vita.

Come detto, nonostante le Regioni abbiano piena autonomia decisionale in materia di bollo auto, cioè possono decidere se concedere o meno esenzioni, in Italia la linea generale utilizzata da quasi tutti questi Enti territoriali è la medesima. Il bollo auto è dovuto per intero sulle auto d’epoca, mentre per quelle ultra trentennali, esenzione completa. Ci sono delle eccezioni. In Emilia Romagna le auto d’epoca versano il bollo, ma a condizioni tariffarie agevolate. Sulle auto storiche la Regione Emilia Romagna invece le considera esenti, ma con annessa tassa di circolazione una tantum e forfettaria per chi dichiara di utilizzare il veicolo su strade pubbliche.

Stessa tassa di circolazione per i veicoli over 30 nel Lazio, dove però per le auto d’epoca il bollo è dovuto con riduzione del 10%, a condizione di essere iscritti ai pubblici Registri ASI o FMI. Per comprendere effettivamente la tassa da pagare quindi, meglio collegarsi al sito della propria Regione per verificare eventuali differenti regole a carattere territoriale rispetto a quelle nazionali.

 

Dichiarazione redditi 2021: ultima chiamata per il ravvedimento

Sembrerà strano parlare di dichiarazione dei redditi 2021 dal momento in cui siamo entrati ufficialmente nella nuova stagione reddituale 2022. Fatto sta che occorre dare notizia dell’ormai imminente scadenza di quello che resta l’ultimo veicolo di sanatoria ammissibile per chi ha da sistemare l’adempimento del 2021, relativo all’anno di imposta 2020. Parliamo del ravvedimento, che va in scadenza il 28 febbraio 2022.

Lo strumento che consente di mettere in regola la dichiarazione pagando sanzioni inferirori a quelle che invece potrebbero essere a carico del contribuente inadempiente se non promuove nessuna tipologia di azione. Vediamo adesso di cosa si tratta e cosa possono fare i contribuenti con questo importante strumento.

Dichiarazione dei redditi 2021, come aggiustarla entro il prossimo 28 febbraio

Sistemare la dichiarazione dei redditi 2021 relativa all’anno di imposta 2020 è possibile con lo strumento del ravvedimento. E tale strumento utile a molti contribuenti scade il 28 febbraio prossimo. Va ricordato che parliamo di uno strumento utile a molti contribuenti che hanno saltato l’originaria scadenza del 30 novembre 2021.

Quella data infatti ha segnato la scadenza del termine ordinario di presentazione. La deroga  però permette di mettersi in regola ancora, completando l’adempimento obbligatorio con la dichiarazione dei redditi dell’anno di imposta 2020 entro al fine di febbraio. Sono i canonici 90 giorni concessi per la regolarizzazione.

Cosa accade utilizzando il ravvedimento entro il 28 febbraio 2022

A ravvedimento utilizzato e completato la dichiarazione dei redditi passerà da omessa a tardiva. E cambia molto dal punto di vista sanzionatorio visto che per dichiarazioni tardive c’è da pagare solo un surplus di 25 euro.  Va ricordato che nel caso di dichiarazione omessa invece, la multa è almeno di 250 euro. Più nel dettaglio, omettere di presentare la dichiarazione dei redditi comporta una sanzione che va dal 120% al 240% dell’imposta dovuta.

Naturalmente con la presentazione della dichiarazione occorre fare i conti con eventuale imposta da versare su cui gravano gli interessi. Parliamo dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali all’Irpef.

Va ricordato che utilizzando lo strumento del ravvedimento occorrerà provvedere a pagare le risultanze della dichiarazione con il modello F24.

Nuova Irpef, la guida definitiva, ecco i contribuenti che guadagneranno di più

Ed alla fine la riforma fiscale ha prodotto il taglio di uno scaglione Irpef. Si tratta di un cambiamento che molti sottovalutano ma che risulterà determinante per moltissimi contribuenti che si troveranno a pagare meno tasse.

L’eliminazione dell’aliquota del 41%, produrrà vantaggi per qualcuno, ma svantaggi per altri che passeranno all’aliquota del 43%. Ma occorre sottolineare che oltre al passaggio da 5 a 4 scaglioni, la riforma ha introdotto anche un cambiamento delle detrazioni, che porta il vantaggio ad essere esteso alla maggior parte dei contribuenti.

Ecco quindi la necessità di capire come la riforma dell’Irpef e delle detrazioni impatterà sui redditi dei contribuenti. Vediamo di spiegare il tutto con tanto di esempi pratici con questa nostra approfondita analisi.

Riforma del Fisco: con le nuove aliquote c’è un risparmio sulle tasse?

Addizionali comunali IRPEF, cosa sono e come trovare i codici tributo

L’intenzione del governo che ha introdotto la riforma Irpef è quella di arrivare ad un decremento dell’imposizione fiscale. Questo è assodato. Come anticipato in premessa, la riforma dell’Irpef porta da 5 a 4 le aliquote Irpef, escludendo uno scaglione ed allargandone un altro, cioè l’ultimo. Per capire cosa cambia, non si può non partire dai vecchi scaglioni. Fino alla riforma infatti l’Irpef era basata su 5 aliquote per fascia di reddito, cioè:

  • Fino a 15.000 euro il  23%;
  • Da 15.000 a 28.000 euro il 27%;
  • Da 28.000 a 55.000 euro il 38%;
  • Da 55.000 a 75.000 euro il 41%;
  • Oltre 75.000 euro il 43%.

Oggi invece, alla luce della riforma, abbiamo:

  • Fino a 15.000 euro il 23%;
  • Da 15.000 a 28.000 euro il 25%;
  • Da 28.000 a 55.000 euro il 35%;
  • Oltre 55.000 il 43%.

A primo acchito si nota che i contribuenti con redditi da 15.000 a 28.000 passano dal 27% di aliquota al 25%, così come i redditi da 28.000 a 35.000 passano dal 38% al 35%. Sono i redditi da 55.000 a 75.000 che una volta rientravano nel penultimo scaglione, che passano dal 41% al 43%.

Cosa accade con le nuove aliquote Irpef

La metà dei contribuenti italiani resta nella fascia da 15.000 a 55.000 euro e sono quelli a cui l’aliquota applicata è stata tagliata. Per i redditi più bassi, cioè fino a 15.000 euro nulla cambia, come nulla cambia per quelli oltre i 75.000 euro. Saranno i redditi tra i 55.000 e i 75.000 euro che si trovano una aliquota peggiorativa.

Ma in salvaguardia di questi soggetti a cui effettivamente la riforma mette in campo una aliquota peggiorativa, ecco che il governo ha rimodulato il sistema delle detrazioni fiscali. Un intervento che dovrebbe garantire a tutti il risparmio delle tasse.

Anzi, a dire il vero, più che il cambio di aliquote, è la rimodulazione delle detrazioni fiscali quella che ha più impatto in termini di minor gettito fiscale che i contribuenti saranno tenuti a versare.

Il taglio vero sull’Irpef dipende dalle nuove detrazioni più che dai nuovi scaglioni

Nello specifico, possiamo confermare per buone le stime che il Ministero dell’Economia e Finanze ha prodotto a margine del via libera alla riforma dell’Irpef. Infatti secondo i tecnici economici dello Stato, per i redditi fra 35.000 e 40.000 euro si andrò à a risparmiare in tutto circa il 5,2% di imposizione fiscale se il contribuente è un lavoratore dipendente. Per i lavoratori autonomi invece, sarà del 3,1% il risparmio, così come sarà del 3,5% per i pensionati.

Per le stesse tre categorie, cioè dipendenti, autonomi e pensionati, ma nella fascia tra 40.000 e 45.000 euro di redditi annui, il risparmio sarà rispettivamente del 7,5%, del 3,9% e del 4,2%. Per chi invece ha redditi tra i 45.000 ed i 50.000 euro abbiamo il 4,6% di risparmio per i pensionati, il 4,3% per i lavoratori autonomi e il 5,5% per i lavoratori subordinati.

Tornando alla revisione delle detrazioni fiscali, anche i redditi più alti, nonostante l’aliquota applicata sarà peggiorativa, si arriva ad un risparmio del 3,1% per redditi compresi tra 60.000 e 65.000 euro e del 2,2% per chi ha redditi annui sopra i 65.000 e fino ai 75.000 euro.

Infatti,al fine di evitare discriminazioni, e soprattutto per evitare perdite si parla di ulteriore detrazione, nello specifico:

  • Lavoratore dipendente da 25.000 a 35.000 euro,surplus di 60 euro di detrazione;
  • Pensionato con reddito da 25.000 a 29.000 euro, surplus di 50 euro di detrazione;
  • Lavoratore autonomo con reddito da 11.000 a 17.000 euro, surplus di 50 euro di detrazione.

Esempi pratici di risparmio fiscale con la nuova Irpef

Fino ad ora abbiamo parlato di percentuali di risparmio ed aliquote applicate. Per capire bene il tutto, niente di meglio che alcuni esempi, che traducono le percentuali in “soldoni”. Il semplice passaggio da 5 a 4 aliquote per un contribuente che ha  40.000 euro di reddito annuo, produce un cospicuo vantaggio.

Infatti con le vecchie aliquote, naturalmente a scaglioni progressivi, questo contribuente avrebbe dovuto pagare una Irpef di 3.450 euro fino a 15.000 euro, 3.510 per i 13.000 euro successivi (da 15.000 a 28.000) e 4.560 euro sui successivi 12.000 euro (da 28.000 fino ai 40.000 euro di reddito del contribuente nell’esempio).  In totale 11.520 euro di Irpef.

Adesso invece pagherà solo di aliquote Irpef 10.900 euro, frutto di 3.450 per i primi 15.000 euro, 3.250 per i 13.000 del secondo scaglione e 4.200 per i 12.000 del terzo scaglione. Un risparmio di 620 euro.

Altri esempi pratici del risparmio fiscale dei vari scaglioni

Quello di prima era un tipico esempio di lavoratore che rientra nella fascia di reddito che godrà del vantaggio maggiore. Si tratta della fascia fino a 50.000 euro quella che effettivamente fruirà dei maggiori risparmi, arrivando a più o meno 1.000 euro di minor Irpef dovuta per chi si avvicina proprio al limite dei 50.000 euro di reddito annuale.

Per le fasce più basse risparmi inferiori, come per esempio un lavoratore che ha redditi pari a 20.000 euro che risparmierà 100 euro rispetto a prima (dal 27 al 25% per i 5.000 euro che ricadono nel secondo scaglione). Per via dell’incremento delle aliquote per le fasce oltre i 55.000 euro, il risparmio è più contenuto, ma non azzerato dal momento che un contribuente con 70.000 euro di reddito avrà 370 euro di minor Irpef dovuta.

Pensioni per tutti con uscita flessibile a 64 anni, la quiescenza del futuro

Apertura piena da parte del governo a mettere finalmente mano alle pensioni. Il superamento della riforma Fornero vede il governo, forse per la prima volta aprire ad una revisione completa del sistema. Ma non sono certo buone notizie, o meglio, non sono le notizie che tanti attendevano. Infatti si parte con un secco no alla quota 41 per tutti, misura caldeggiata dai sindacati da molto tempo, ed una volta caldeggiata anche dalla Lega di Matteo Salvini salvo poi fare dietrofront o quasi come su quasi tutta la linea politica del Carroccio di questi tempi.
E poi, pensione flessibile dai 62 anni e senza penalità, altro cavallo di battaglia dei sindacati, cestinata e non ammissibile per il governo. Ma allora di cosa si tratta e su cosa avrebbe aperto il governo? La riforma delle pensioni secondo l’esecutivo prevede una pensione flessibile dai 64 anni di età. La stessa medesima età con cui si concede oggi l’uscita con la nuova quota 102, tanto per intenderci.

Cosa si sta preparando per le pensioni, l’uscita a 64 anni per tutti, ma con penalità

Nessuna intesa e non poteva essere altrimenti tra sindacati e governo alla luce dell’ultimo summit di ieri 15 marzo. Posizioni sempre distanti e governo che apre alla riforma, ma partendo da una età che ai sindacati non piace. Uscita come per la quota 102 di oggi, cioè pensione per tutti a 64 anni. Una nuova misura flessibile.
Pochi fanno rilevare cosa significa flessibile quando si parla di pensioni. Flessibilità significa opzione, cioè lasciare la scelta al lavoratore se continuare a lavorare o andare in pensione. La parola flessibilità collegata alle pensioni significa penalità. Così come non può esistere sistema pensionistico contributivo senza flessibilità, così non può esistere sistema flessibile senza penalizzazioni di assegno.
In un sistema basato sul calcolo contributivo della pensione, cioè su un calcolo che prevede una pensione in base al montante contributivo, è naturale che una pensione sarà più ricca per chi più versa. Prima si esce dal lavoro, meno contributi si versano, meno si prende di pensione. E questo è alla base della flessibilità, che lascia la scelta al lavoratore se uscire prima prendendo una pensione più bassa di quella che gli spetterebbe l’anno successivo per esempio, restando in servizio.
Ma flessibilità significa porre delle nette differenze tra l’importo dell’assegno in base all’età prescelta per uscire. E qui che entra in gioco la penalizzazione di assegno che resta alla base della proposta del governo di una pensione flessibile dai 64 anni di età.

Si litiga anche sul taglio dell’assegno

Per il governo ogni anno di anticipo rispetto alla pensione di vecchiaia ordinaria a 67 anni dovrebbe prevedere il 3% di taglio dell’assegno. Conti semplicistici parlano quindi di un taglio del 9% massimo considerando in 3 anni il numero massimo di anni di anticipo tra i 64 anni della pensione flessibile ed i 67 della quiescenza ordinaria. Se così fosse, un lavoratore che a 67 anni percepirebbe un assegno da 1.500 euro al mese uscendo a 67 anni, uscendo a 64 anni percepirebbe 1.365 euro al mese.
Per i sindacati invece questo taglio non è quello che effettivamente subirebbero i pensionati. Secondo le parti sociali infatti il taglio sarebbe ben maggiore. Soprattutto per chi rientra nel sistema misto si rischia di perdere il 30% di pensione.
Più elevati sono gli anni di contributi prima del 1996, più è forte la perdita di assegno. Infatti il governo avrebbe in mente di applicare il ricalcolo contributivo a questa pensione a 64 anni per tutti. Infatti verrebbe estesa la pensione anticipata contributiva a tutti. La misura oggi vigente è destinata ai lavoratori privi di contribuzione al 31 dicembre 1995.

La pensione anticipata contributiva per tutti, e sempre a 64 anni

Si esce dal lavoro infatti a 64 anni con almeno 20 anni di contributi, a condizione che il primo contributi a qualsiasi titolo versato è a partire dal primo gennaio 1996 e che la pensione liquidata sia pari ad poco più di 1.300 euro al mese, cioè pari o superiore a 2,8 volte l’assegno sociale.
Il contributivo puro però non ha alternative al ricalcolo contributivo della prestazione, quello del misto invece si. E per chi ha maturato già 18 anni di contribuzione prima del 1996, il diritto al favorevole calcolo retributivo arriva fino al 2012.
Il sacrifico che il governo imporrebbe ai pensionandi che opteranno per l’uscita a 64 anni è importante. Oltre al taglio lineare di assegno, anche il ricalcolo contributivo della pensione. Ed inoltre, va considerato il meno favorevole coefficiente di trasformazione dei contributi in pensione, che è tanto più penalizzante quanto prima si lascia il lavoro. E non va sottovalutata la perdita in termini di assegno, per via dei 3 anni teorici di contributi in meno versati se il lavoratore esce a 64 anni e non a 67.

La solita misura con poco appeal per le pensioni future

Siamo di fronte quindi ad una misura di pensione anticipata che nasce come le ultime varate negli ultimi anni. Misure che nascono con vincoli e paletti adatti a renderle quanto meno appetibili possibile, in modo tale da dotare il sistema di una misura di pensionamento anticipato che pochi vorranno sfruttare. L’esempio di opzione donna è lapalissiano, visto il netto anticipo che consente (Già a 58/59 anni di età) e visto il netto taglio di assegno che impone.

Come leggere i verbali di invalidità per accompagnamento e legge 104

Dopo aver passato la visita medica per il riconoscimento dell’invalidità presso le competenti commissioni mediche Asl arriva il classico verbale. Ma come si fa a leggerlo e capire cosa è stato concesso? Una domanda sicuramente comune a molti questa relativa ai verbali delle Commissioni Mediche. Capita di vedere scritto che è stato riconosciuto il 100% di invalidità, ma a conti fatti non è stato concesso l’accompagnamento.

Altre volte viene concesso solo il beneficio della legge 104, senza indennità. Ma come capire tutto questo? Ecco una sintetica guida con tutti i chiarimenti del caso.

La procedura di richiesta di accompagnamento e invalidità civile

Quando si è in condizioni fisiche malandate, con uno stato di presumibile invalidità, occorre produrre domanda alle competenti autorità che devono procedere all’accertamento dell’invalidità civile, della cecità civile, della sordità e così via dicendo. Il primo passo lo fa il medico di base, che rilascia il certificato medico. Tale certificato è telematico e lo stesso medico di base lo invia on line. La compia di questo certificato, con la ricevuta di trasmissione deve essere portato al Patronato che provvede all’avvio della pratica.

Dopo la domanda, con tempi variabili da luogo a luogo e da periodi a periodi, si viene convocati dinnanzi alle Commissioni Mediche per l’accertamento delle invalidità civili. Si tratta di un pool di medici delle Asl. Dopo la visita, in tempi brevi la commissione medica Asl rilascia il verbale con dentro l’elenco delle patologie che sono state riscontrate e con l’esito della visita. Nel verbale viene riportata la condizione dell’ammalato, con il grado di invalidità accertato e con, eventualmente, l’accettazione delle richieste di beneficio della legge 104 o dell’indennità di accompagnamento.

Come leggere il verbale della Commissione Medica per le invalidità civili

Se la procedura pare abbastanza semplice come spiegato in precedenza, non è così con il verbale della commissione, che spesso presenta non poche difficoltà di lettura da parte degli interessati.

Il verbale della commissione Asl che viene rilasciato dopo una visita specifica, è tutto fuorché facile da comprendere.  Eppure si tratta di un semplice verbale di accertamento da cui esce fuori lo status dell’interessato e il grado di invalidità. Va detto che non saper interpretare il verbale può essere un problema dal momento che non si arriva a comprendere gli eventuali benefici e indennità eventualmente concessi.

Le definizioni nel verbale di invalidità civile

In linea generale nel verbale la cosa più chiara è il grado di invalidità concesso. Poi ci sono tutta una serie di definizioni che in genere sono le seguenti:

  • Non invalido con assenza di patologia o con una riduzione delle capacità inferiore ad 1/3;
  • Invalido con riduzione permanente della capacità lavorativa in misura superiore ad 1/3 (art. 2, Legge 118/1971).
  • Invalido con riduzione permanente della capacità lavorativa in misura superiore ai 2/3 (artt. 2 e 13, Legge 118/1971);
  • Invalido con riduzione permanente con invalidità pari o superiore al 74% (artt. 2 e 13, Legge 118/1971).
  • Invalido con totale e permanente inabilità lavorativa pari al 100% (artt. 2 e 12, Legge 118/1971);
  • Invalido con totale e permanente inabilità lavorativa 100% e impossibilità a deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore (Legge 18/1980 e Legge 508/1988);
  • Invalido con totale e permanente inabilità lavorativa 100% e con necessità di assistenza continua non essendo in grado di svolgere gli atti quotidiani della vita (Legge 18/1980 e Legge 508/1988);
  • Minore con difficoltà persistenti a svolgere le funzioni proprie dell’età  (Legge 289/1990);
  • Minore invalido totale con impossibilità a deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore (Legge 18/1980 e Legge 508/1988);
  • Minore invalido totale con necessità di assistenza continua non essendo in grado di svolgere gli atti quotidiani della vita (Legge 18/1980 e Legge 508/1988);
  • Cieco con residuo visivo (Legge 382/1970 e Legge 508/1988);
  • Cieco assoluto (Legge 382/1970 e Legge 508/1988);
  • Sordo (Legge 381/1970 e Legge 508/1988);
  • Over 65 con difficoltà persistenti a svolgere le funzioni proprie della sua età (art. 9 D.Lgs. 509/1988);
  • Over 65 con impossibilità a deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore (Legge 18/1980 e Legge 508/1988);
  • Over 65 con necessità di assistenza continua non essendo in grado di svolgere gli atti quotidiani della vita (Legge 18/1980 e Legge 508/1988).

Cosa si recupera in base a ciò che definisce la Commissione Medica Asl

In estrema sintesi va sottolineato che in base alla definizione inserita nel verbale, si ha diritto a una serie di agevolazioni e benefici. Quando viene riportato il riferimento alla legge n° 18/1980 o n° 508/1988, si ha diritto all’indennità di accompagnamento e alla pensione di inabilità per i soggetti di età compresa tra i 18 ed i 65 anni.

Se invece compare il riferimento alla legge n°118/1971 si ha diritto alla pensione di inabilità, ma non all’indennità di accompagnamento. Se la riduzione della capacità lavorativa certificata è pari ad 1/3 non si ha diritto a indennità o pensioni, mentre se è pari ad almeno 2/3 si ha diritto all’assegno mensile di assistenza. In tutti gli altri casi, senza accompagnamento, si ha diritto alla pensione di inabilità.

Per i minori invalidi ma con riferimento alla legge n° 289/1990, esiste l’indennità di frequenza. Negli altri casi invece l’indennità di accompagnamento.

Altri benefici concessi

Questo dal punto di vista delle indennità di natura economica. Invece le agevolazioni fiscali (detrazioni per acquisto ausili, veicoli agevolati e cos’ via) sono sempre concesse per chi è riconosciuto invalido e per i familiari che li hanno a carico o che prestano loro assistenza. Per questi ultimi ci sarebbero sempre anche i benefici lavorativi della legge 104.

Parliamo dei permessi lavorativi retribuiti e dei congedi, sia per l’invalido minorenne che per il maggiorenne o anziano. Infatti per minori sopra i 3 anni di vita, si ha diritto a 3 giorni di permessi retribuiti al mese. Se l’invalido è il lavoratore stesso,  due ore di permesso al giorno. Resta di 3 giorni di permesso al mese anche il beneficio per chi ha un familiare maggiorenne invalido a carico.

La condizione sine qua non per ottenere questi permessi è il richiamo nel verbale dell’invalidità, all’articolo n° 3, comma 3 della Legge n° 104/1992.

Con lo stesso articolo di legge si ha beneficio anche al congedo retribuito fino a due anni anche con fruizione non continuativa. Se l’invalido è un minore invece, se si richiama alla legge che concede l’accompagnamento, il genitore o il tutore ha diritto al congedo parentale o al prolungamento fino a tre anni anche frazionato con indennità pari al  30% dello stipendio per minori fino a 6 anni di età.

Per chi invece ha minori tra 6 e 12 anni con handicap grave, congedo parentale anche frazionato sempre al 30% e 3 giorni di permesso al mese retribuiti. In tutti questi casi il riferimento nel verbale deve essere specifico alla legge n° 104 e all’articolo n° 3 comma 3.

Pensioni sbagliate? Ecco i motivi di migliaia di ricorsi

Si sono accentuati in maniera esponenziale i problemi dell’Inps in materia previdenziale, sulle pensioni. L’emergenza pandemica ha prodotto un notevole incremento dei ritardi nell’espletamento delle pratiche di pensione.

Ma le lungaggini burocratiche peggiorate non sono certo l’unico dei problemi con cui hanno a che fare i cittadini pensionati o pensionandi.

Moltissimi infatti i ricorsi presentati dai contribuenti nei confronti dell’Inps.

E spesso le problematiche sono relative a pensioni sbagliate. Calcolo errato o mancato riconoscimento di integrazioni e trattamenti sono alla base di moltissimi ricorsi.

Troppi gli errori sulle pensioni da parte dell’Inps, ma non tutti sono addebitabili all’Istituto

Alla data attuale ci sarebbero in pendenza oltre 500.000 ricorsi contro l’Inps per pensioni errate. Prima di approfondire alcune tematiche relative a questi errori da parte dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale Italiano, va detto che ci sono errori da parte dell’Istituto e mancate richieste da parte dei cittadini.

In questo ultimo caso nulla è addebitabile all’Inps naturalmente. Molti non sanno che ci sono alcuni diritti spettanti ai pensionati, che l’Inps non eroga automaticamente, ma serve espressa richiesta degli stessi pensionati.

Parliamo dei diritti inespressi, ovvero di somme aggiuntive sulla pensione, che se non è lo stesso pensionato a richiedere, non vengono assegnate dall’Inps. Maggiorazioni sociali, trattamento minimo, integrazioni, ma anche assegni familiari, quattordicesima e così via.

L’Inps non può sapere tutto sempre, gli adempimenti dei pensionati

Le comunicazioni reddituali a cui ogni anno i titolari di un trattamento pensionistico sono tenuti, non fanno altro che consentire all’Inps di erogare la pensione giusta ad un pensionato. Un figlio a carico che entra o esce dal nucleo familiare, produce un cambiamento che l’Inps non può conoscere se non lo segnala il pensionato stesso.

Lo stesso accade per redditi che cambiano da un anno all’altro, per il coniuge che prima era a carico e poi non lo è più e viceversa. Ma ci sono anche contributi previdenziali non utilizzati per la liquidazione della pensione, perché magari versati o accreditati dopo la stessa liquidazione.

Quando è l’Inps che sbaglia sulle pensioni

È altrettanto vero però che gli errori sulle pensioni sono assai frequenti e sono stati oggetto di alcune campagne di sensibilizzazione che i sindacati e i patronati hanno avviato in passato. Operazioni su larga scala che hanno portato a scoprire che una pensione su tre che eroga l’Inps hanno importi errati e a svantaggio del pensionato.

Naturalmente in primo luogo perché ci si è trovati a tutta una serie di diritti inespressi come quelli di cui parlavamo in precedenza in riferimento a mancate richieste dei pensionati. E poi perché l’Inps sbagliava.

Gli ultimi dati parlano di oltre 500.000 ricorsi contro l’Inps da parte di cittadini che denunciano, soprattutto, problemi ed errori di calcolo della pensione. Mancato cumulo dei contributi, oppure errori in sede di ricongiunzione, ma anche ritardo nelle liquidazioni delle stesse pensioni.

I ritardi dell’Inps sulle risposte per le pensioni

Soprattutto sulle pensioni di invalidità, oppure su quelle in deroga che sono collegate anche ai fondi a disposizione, non è raro il caso di pensionati che si trovano a dover aspettare tanti mesi per ricevere una risposta. Naturalmente raramente si perde tutto, perché l’Inps lavora con arretrati a partire dalla data di presentazione delle domande.

Ciò che stride è il fatto che spesso un lavoratore è costretto a lasciare il lavoro perché molte delle misure pensionistiche vigenti, tra i vincoli prevedono la cessazione del rapporto di lavoro. E rimanere per tanti mesi senza lavoro e senza pensione non è certo una cosa facile.

Gli errori più frequenti da parte dell’Inps

Per la maggior parte delle volte, gli errori dell’Inps riguardano pensioni che vengono calcolate in maniera errata. Parliamo di pensioni in essere quindi, o di quelle in prima liquidazione. Spesso si tratta di pensioni di importo inferiore a ciò che dovrebbero. Altre volte invece si tratta di pensioni non erogate per niente, come per i casi di mancato riconoscimento di un assegno di invalidità.

I numeri dei ricorsi prima citati provengono direttamente all’Inps e dal suo Comitato di indirizzo e vigilanza. Secondo il CIV Inps infatti, 931.000 pratiche erano giacenti e non ancora espletate al 31 ottobre 2021. Sempre secondo il Comitato, di tutti i ricorsi che pervengono all’Inps, il 40% produce un esito sfavorevole all’Istituto. In pratica, ogni 10 ricorrenti, 4 hanno ragione nel produrre ricorso nei confronti dell’Istituto.