Ricostituzione e supplemento di pensione: quali differenze?

Supplemento e ricostruzioni sono due istituti in base ai quali l’assegno della pensione viene ricalcolato sulla base di contributi non considerati ai fini dell’importo del trattamento stesso. Con il supplemento di pensione si conteggiano i contributi che sono stati versati dopo la decorrenza della pensione. Con la ricostruzione, invece, vengono riconosciuti i contributi già maturati prima di andare in pensione ma non conteggiati.

Cos’è il supplemento di pensione?

Il supplemento si concretizza, dunque, in un aumento della pensione sulla base dei contributi relativi a periodi successivi alla data di decorrenza della pensione stesa. I contributi maturati successivamente alla decorrenza del primo supplemento comportano la liquidazioni di ulteriori supplementi. Pertanto, il supplemento spetta a tutti i pensionati che continuano a lavorare e a versare all’Inps, nelle svariate gestioni, i contributi relativi a periodi lavorativi successivi alla pensione.  I pensionati ex autonomi della Gestione separata possono richiedere il supplemento di pensione solo per i contributi versati, dopo la decorrenza della pensione, nella stessa gestione Inps.

Chi può richiedere il supplemento di pensione?

I pensionati che continuano a lavorare dopo la pensione, appartenenti all’Assicurazione Generale Obbligatoria o alla Gestione lavoratori autonomi, hanno diritto alla liquidazione di un supplemento per gli ulteriori contributi. Tuttavia, si ottiene il supplemento trascorsi cinque anni dalla data di decorrenza della pensione o dal precedente riconoscimento del supplemento. In ogni caso deve essere stata raggiunta l’età per la pensione di vecchiaia di 67 anni, requisito non richiesto per la liquidazione dei supplementi della Gestione separata Inps.

La richiesta anticipata di supplemento di pensione rispetto ai 5 anni

Il pensionato può, una sola volta, chiedere la liquidazione del supplemento, che sia il primo o uno dei successivi, al trascorrere di soli due anni della decorrenza della pensione oppure dalla precedente richiesta di supplemento. In entrambi i casi, l’Inps richiede che sia stata raggiunta l’età della pensione di vecchiaia. La domanda del supplemento anticipato (2 anni), presentata già all’Assicurazione obbligatoria, comporta l’impossibilità di presentare la stessa richiesta alla Gestione separata.

Quanto spetta di supplemento di pensione?

L’importo del supplemento va a integrare il trattamento di pensione, anche ai fini della tredicesima mensilità. Pertanto il supplemento non dà luogo a un’emissione separata rispetto alla pensione normalmente percepita. Il calcolo della quota di supplemento, dal 1° gennaio 2012, avviene con il metodo contributivo. Il supplemento decorre dal primo giorno del mese susseguente a quello nel quale si è presentata la domanda.

Come presentare domanda per il supplemento di pensione?

La domanda per il supplemento di pensione può essere presentata in tre modalità. Nel dettaglio:

  • telematicamente, attraverso il sito internet dell’Inps, accedendo direttamente con le proprie credenziali;
  • attraverso il contact center, ovvero contattando il numero 803 164 gratuito da rete fisso, oppure lo 06 164164 da cellulare, a pagamento a seconda del proprio piano telefonico;
  • tramite i patronati e tutti gli intermediari dell’Inps.

Ricostruzione di pensione, cos’è?

Con l’istituto della ricostruzione di pensione si procede con la variazione dell’importo del trattamento pensionistico già percepito mediante l’accreditamento di contributi versati o dovuti per periodi di lavoro anteriori alla decorrenza originaria della pensione stessa. La ricostruzione della pensione può essere richiesta sia per la contribuzione obbligatoria che per quella figurativa e da riscatto. In tutti e tre i casi, la contribuzione deve essere maturata prima della decorrenza della pensione. Il termine per presentare domanda di ricostruzione della pensione è di tre anni. Trascorso questo periodo la ricostruzione va in prescrizione e la possibilità di avvalersi di questo istituto decade.

Ricostruzione della pensione, per cosa si può fare domanda?

La presentazione della domanda Inps per la ricostruzione della pensione può avvenire per tre motivazioni. Nel dettaglio:

  • per l’accreditamento di contributi non valutati in sede di prima liquidazione della pensione;
  • in caso di esclusione di contributi nella prima liquidazione di pensione;
  • per la modifica del valore retributivo o contributivo già considerato nella prima liquidazione.

Al verificarsi di queste tre motivazioni, l’Inps ricalcola la pensione in base alla normativa vigente al momento della prima decorrenza della pensione.

Domanda di ricostruzione per contributi non calcolati correttamente

In merito al terzo punto, ovvero per la modifica del valore retributivo o contributo già considerato in sede di primo calcolo della pensione, la relativa domanda deve essere presentata, come di consueto, entro 3 anni dal provvedimento di liquidazione della pensione. Se invece i fatti sono “sopravvenuti“, ovvero non vanno a variare gli elementi di calcolo della pensione originaria, non vi è alcuna decadenza. Solo gli eventuali arretrati sono corrisposti nel termine di prescrizione fissato in 5 anni.

Da quando decorre la ricostruzione della pensione?

La decorrenza della ricostruzione della pensione avviene dalla decorrenza originaria del trattamento pensionistico mediante applicazione di coefficienti di perequazione. Con questo istituto, dunque, si procedere ad accertare tutti i requisiti e a ricalcolare la pensione come se si trattasse di una nuova liquidazione. Per i ratei di pensione maturati dopo il 6 luglio 2011, la prescrizione è quinquennale. Pertanto, il limite temporale per il ricalcolo della pensione è quello del 7 luglio 2016.

Come si presenta domanda di ricostruzione della pensione?

La domanda di ricostruzione della pensione si presenta nelle stesse modalità dell’istituto del supplemento di pensione. Pertanto, il pensionato può inoltrare domanda:

  • dal sito Inps attraverso l’apposita sezione e previo accesso con le credenziali;
  • attraverso il contact center dell’Inps ai consueti numeri;
  • tramite i patronati e gli intermediari dell’Istituto previdenziali.

Pensione e metodi di calcolo: guida al sistema contributivo

Le pensioni dei lavoratori che hanno iniziato a lavorare e a versare contributi a partire dal 1° gennaio del 1996 sono calcolate con il metodo contributivo puro. Rispetto al meccanismo retributivo e al misto, si tratta pertanto dei lavoratori che non hanno alcuna anzianità contributiva fino al 31 dicembre del 1995. E, rispetto agli altri due sistemi previdenziali, per il calcolo della pensione con il metodo contributivo puro si prendono le contribuzioni versate e accreditate nel corso di tutta la vita lavorativa.

Pensioni con il metodo contributivo più basse del retributivo

Di conseguenza, le pensioni calcolate con il metodo contributivo sono meno generose rispetto a quelle calcolate con il retributivo. Anche il sistema misto è meno vantaggioso rispetto al retributivo proprio per la quota di contributi (la C) rientrante nel metodo di calcolo del contributivo. Essendo, per l’appunto, “mista”, tuttavia beneficia dei vantaggi del retributivo nel calcolo delle restanti quote, la A e la B. La caratteristica del sistema contributivo è pertanto che questo meccanismo fotografa esattamente quanto versato durante gli anni lavorativi.

Il montante contributivo

Per i lavoratori dipendenti, l’importo del montante dei contributi si calcola con il 33% delle retribuzioni ottenute. Per gli autonomi e le partite Iva, invece, la percentuale è più bassa. Infatti, i professionisti non assicurati presso altre forme pensionistiche versano il 25,98% nel 2021; i professionisti o collaboratori titolari di pensione o altra tutela pensionistica obbligatoria il 24%. Pagano più del 33% i collaboratori e figure assimilate senza altre forme pensionistiche obbligatorie e con contribuzione aggiuntiva Dis Coll (34,23%) e gli stessi senza contribuzione aggiuntiva Dis Coll (33,72%).

La rivalutazione dei contributi per il calcolo delle pensioni

I contributi versati annualmente durante la vita lavorativa vanno a formare il montante contributivo. Tale montante va rivalutato sulla base del tasso annuo di capitalizzazione derivante dalla variazione media sui 5 anni del Prodotto interno lordo (Pil) nominale, che l’Istat provvede a calcolare, prendendo a riferimento il quinquennio precedente l’anno da rivalutare. Fanno eccezione sia i contributi relativi alle retribuzioni percepite nell’anno di decorrenza della pensione che quelli dell’anno precedente: entrambi gli anni non vengono rivalutati.

Come si calcolano le pensioni con il metodo contributivo?

Per il calcolo della pensione, dunque, il montante contributivo ottenuto, opportunamente rivalutato secondo le regole appena esposte, va moltiplicato per i coefficienti di trasformazione. Si tratta di indici, aggiornati ogni biennio e che dipendono dall’età di uscita per andare in pensione e dalla speranza di vita, che trasformano il montante contributivo (la cosiddetta “quota C“) in pensione.

I coefficienti di trasformazioni per il calcolo della pensione

I coefficienti di trasformazione, dunque, sono indici che determinano quale sarà l’importo della pensione in base ai contributi versati. Detti coefficienti variano a seconda dell’età di uscita per andare in pensione: più è bassa l’età (ovvero più si anticipa rispetto alla pensione di vecchiaia dei 67 anni) e più sono alti. Di conseguenza, il sistema dei coefficienti di trasformazione penalizza i lavoratori che anticipano l’uscita sia per i minori anni di contributi versati che per l’applicazione di indici inferiori. Per entrambi i motivi l’importo della pensione, a parità di anni di contributi versati, risulta inferiore. Viceversa, più il lavoratore rimanda l’uscita per la pensione e maggiore risulta essere l’indice mediante il quale si moltiplica il suo montante.

Il massimale del sistema contributivo

I lavoratori ricadenti nel sistema contributivo puro versano i contributi fino a un importo massimo delle retribuzioni. Per il 2021 il massimale è fissato a 103.055 euro. L’importo rappresenta un tetto al versamento dei contributi per le retribuzioni che superano i 103.055 euro. Chi percepisce retribuzioni annue più alte, dunque, non paga i contributi sulla parte eccedente. Il massimale contributivo, tuttavia, non si applica per i lavoratori che abbiano contributi entro il 31 dicembre 1995.

Assegno di pensione con il sistema contributivo

I lavoratori appartenenti al sistema contributivo puro accedono alla pensione con gli stessi requisiti previsti per la generalità dei lavoratori. Per la pensione di vecchiaia è necessario raggiungere l’età di 67 anni e aver versato contributi per almeno 20 anni. Ulteriore requisito per andare in pensione di vecchiaia è proprio l’importo della pensione. Infatti, la prima rata pensionistica deve essere di almeno 1,5 volte superiore al valore dell’assegno sociale.

Cosa succede se non si raggiungono i requisiti per la pensione di vecchiaia nel contributivo?

Se il contribuente di 67 anni in procinto di andare in pensione di vecchiaia non raggiunge l’importo soglia sopra indicato (dunque la prima rata risulta più bassa di 1,5 volte l’assegno sociale) oppure gli anni di contributi sono inferiori ai 20 richiesti, l’assegno pensionistico slitta. In particolare, occorre attendere la pensione di vecchiaia a 71 anni di età, in presenza di almeno 5 anni di contributi effettivi.

Pensioni con il contributivo, requisiti di uscita

I requisiti anagrafici della pensione di vecchiaia e quello dei 71 anni di età sono soggetti a variazione. In particolare, sull’età incide la speranza di vita calcolata sulla popolazione dai 65 anni in su. Il prossimo adeguamento avverrà nel 2023 e sarà valido fino al 31 dicembre 2024.

La pensione di vecchiaia del contributivo si può adeguare al minimo?

Ulteriore differenza della pensione che spetta con il sistema contributivo puro riguarda il trattamento minimo. Infatti, la pensione calcolata con il metodo contributivo non può essere adeguata al trattamento minimo come avviene per altri meccanismi previdenziali. Pertanto, la rata di pensione di un lavoratore del contributivo corrisponde esattamente all’importo risultante dal calcolo illustrato in precedenza.

Pensione anticipata nel sistema contributivo

Per i lavoratori appartenenti al sistema contributivo puro c’è una specifica formula di pensione anticipata. Infatti è prevista l’uscita a 64 anni di età unitamente a 20 anni di contributi rispetto ai 67 richiesti per la pensione di vecchiaia. La condizione essenziale per agganciare questa formula anticipata di uscita è che la prima rata di pensione deve essere almeno 2,8 volto superiore all’importo dell’assegno sociale.

Pensione integrativa, a chi conviene aderire alla previdenza complementare e quando

A chi conviene aderire alla previdenza integrativa dei fondi pensione e in quale momento? Sono questi due tra i maggiori quesiti che si pongono i lavoratori nel momento in cui devono decidere se affidarsi a una futura pensione “di scorta” e a partire da quale età.

Perché si ricorre alla pensione integrativa?

Il ricorso alla pensione integrativa è dettato innanzitutto dalla motivazione di mantenere nel tempo una mensilità adeguata alle proprie esigenze e al tenore di vita condotto. Infatti, quando un contribuente va in pensione da lavoro, l’assegno mensile potrebbe non soddisfare le proprie necessità. Da qui l’esigenza di integrare la propria pensione futura con un assegno maturato sulla base dell’adesione volontaria ai fondi pensione.

Con l’aumento della speranza di vita le pensioni sono spalmate su più anni

La tendenza del ricorso alla previdenza complementare è tanto più ampia quanto maggiori sono i dubbi sulle pensioni da lavoro. Le pensioni pubbliche, infatti, continuano a subire nel tempo aumenti dei requisiti di uscita e diminuzione della rata mensile. A partire dagli anni ’90 il progressivo aumento della speranza di vita, e dunque l’incremento della vita media a partire dai 65 anni di età, ha avuto come conseguenza  l’allungamento del periodo in cui si beneficia della pensione, oltre a un maggior numero di anni di contributi da versare durante la vita lavorativa.

Previdenza integrativa: adesione perché le pensioni sono sempre più basse

Inoltre, proprio l’allungamento della vita da pensionato unito al forte rallentamento della crescita economica (con conseguente riduzione del peso dei contributi versati durante la vita lavorativa), ha imposto dei cambiamenti ai meccanismi previdenziali italiani. Il risultato ottenuto è quello che, progressivamente, si esce a un’età sempre più alta con un mensile di pensione sempre più basso a causa di coefficienti di trasformazione tendenzialmente al ribasso.

Contribuenti e futuro tenore di vita: l’integrazione dei fondi pensione

Con il superamento del sistema previdenziale retributivo, inoltre, le rivalutazioni delle future pensioni non saranno più legate, in alcun modo, all’aumento delle retribuzioni. In questo scenario di progressivo aumento della speranza di vita e di riduzione dell’assegno di pensione, il contribuente preoccupato del proprio tenore di vita futuro rappresenta il profilo più sensibile alle possibilità offerte dalla previdenza complementare.

Come sapere di quanto sarà l’importo mensile della pensione?

Il primo passaggio da compiere è conoscere quale sarà l’importo della propria pensione nel momento di uscita dal mondo del lavoro. L’Inps, ma anche altri siti specializzati in pensioni, ha creato una piattaforma (la Busta arancione) all’interno del proprio portale istituzionale per avere una stima di quello che sarà il futuro assegno previdenziale. Oltre all’importo prospettato per la pensione, dalla simulazione si può ricavare anche il tasso di sostituzione della previdenza obbligatoria.

Il tasso di sostituzione per capire se è necessario ricorrere alle pensioni integrative

Il tasso di sostituzione esprime il rapporto tra la prima rata di pensione e l’ultimo stipendio (o il reddito per i lavoratori autonomi). Pertanto, è l’indicatore che maggiormente descrive quale sarà la futura pensione rispetto allo stipendio in termini percentuali. Ad esempio, a fronte di uno stipendio attuale di 1200 euro e con un tasso di sostituzione pari al 70%, la futura pensione sarà di 840 euro.

Quanti dei contributi versati torneranno indietro sotto forma di pensione?

La simulazione Inps che consente di avere una stima della futura pensione (da ripete periodicamente per i cambiamenti che intervengono nella vita lavorativa) potrebbe rappresentare un primo indizio per il ricorso alla previdenza complementare. Quanto ritorna indietro dei contributi che si sono versati durante la vita lavorativa? Chi dalla simulazione ottiene un  risultato non soddisfacente, può giocarsi la carta della previdenza complementare. L’obiettivo è quello di avere un’alternativa previdenziale per poter beneficiare, in futuro, di una rendita che vada a integrare la pensione pubblica.

Fondo pensione: in che modo aderire?

Non è necessario che la rata mensile dei contributi versati a un fondo pensione sia elevata. Invece, è consigliabile spalmare la contribuzione complementare su un numero più ampio possibile di anni. Anche un importo non elevato può rappresentare, per un numero elevato di anni, una formula di previdenza e di risparmio soddisfacente. Inoltre, se si sceglie di aderire a un fondo pensione in giovane età è possibile aderire a fondi più rischiosi, ma con un rendimento più elevato. Diversamente, più si è vicini all’uscita per la pensione e maggiormente si vira verso fondi più sicuri e con rendimenti meno elevati.

Quali sono i vantaggi dell’adesione al fondo pensione in età giovanile?

Un aspetto del “quando aderire” è rappresentato dai vantaggi riservati ai più giovani. Infatti, meno elevata è l’età di partecipazione al fondo pensione e maggiori sono i benefici della previdenza complementare. Sono almeno quattro i vantaggi che possono riscontrarsi in un’adesione di lunga data:

  • la rivalutazione assicurata dai fondi con i connessi vantaggi della deducibilità fiscale;
  • La deducibilità fiscale per i versamenti previsti periodicamente per la partecipazione al fondo;
  • la possibilità di accedere a quanto già versato nel caso in cui si dovessero presentare situazioni di difficoltà;
  • il reintegro del capitale nei periodi più favorevoli.

Quanto si può avere in più di pensione con la previdenza complementare?

Con la stima della propria futura pensione è più facile scegliere, tra i fondi pensione, quello che potrà garantire l’integrazione utile a mantenere un tenore di vita adeguato. Per conoscere di quanto si può integrare la pensione con la previdenza complementare esistono sul web numerosi comparatori. Questi strumenti servono a mettere a confronto tra loro le diverse formule di pensione integrativa. L’attenzione va posta sulla soluzione che massimizza il rapporto dei costi di accesso ai rendimenti.

Quanti contributi si pagano con una partita Iva?

I titolari di partita Iva sono soggetti al pagamento dei contributi all’Inps o alla Cassa previdenziale di appartenenza. La contribuzione è legata ai soggetti che esercitano un’attività commerciale oppure professionale, in forma autonoma o associata. I contributi previdenziali, per chi vuole aprire una partita Iva o per chi già esercita in proprio, rappresentano una quota consistente delle uscite, pari mediamente a circa un quarto dei redditi annuali.

Contributi previdenziali, pagamento all’Inps o alla Cassa professionale?

Risulta importante chiarire fin dall’inizio che i contributi possono essere pagati all’Inps o alla Cassa previdenziale. Nel primo caso, sono tenuti al pagamento gli artigiani, i commercianti e i professionisti che non hanno una cassa previdenziale. A quest’ultima sono tenuti al pagamento dei contributi i professionisti iscritti a un albo o a un ordine professionale.

Contributi previdenziali: quali differenze in base all’attività che si esercita

I contributi da versare, all’Inps o alla Cassa previdenziale, non sono uguali per tutte le categorie di lavoratori autonomi. L’importo da versare, infatti, dipende da quale attività si svolga e a quale delle grandi categorie si rientri tra:

  • artigiani;
  • commercianti;
  • lavoratori autonomi senza Cassa previdenziale;
  • autonomi con Cassa previdenziale.

Contributi previdenziali di artigiani e commercianti

Rientrano nella categoria degli artigiani i lavoratori in proprio la cui attività è rivolta alla produzione di beni o di servizi. Esempi di artigiani si ritrovano negli idraulici, nei falegnami, negli elettricisti, nei pasticceri e gelatai, nei massaggiatori, nei parrucchieri ed estetisti, nei fotografi. I commercianti, invece, svolgono la propria attività autonoma acquistando e vendendo beni di consumo.

Contributi Inps fissi e a percentuale per gli artigiani e i commercianti

I contributi Inps che pagano gli artigiani e i commercianti partita Iva sono fissi e a percentuale. I contributi fissi sono sempre dovuti, indipendentemente dai compensi percepiti annualmente dalle due categorie. Se un artigiano, nell’anno di riferimento, non percepisce redditi, deve comunque versare all’Inps i contributi. La somma da versare è comunicata, anno per anno, proprio dall’Inps con apposita comunicazione. Per l’anno 2021 gli artigiani devono versare contributi fissi per 3.836 euro, mentre i commercianti 3.850 euro.

Artigiani e commercianti, quando si pagano i contributi fissi e i contributi a percentuale

Artigiani e commercianti pagano l’importo stabilito dall’Inps per i contributi fissi in quattro rate annuali. Il primo pagamento deve avvenire entro il 16 maggio, il secondo entro il 20 agosto, il terzo entro il 16 novembre e l’ultimo entro il 16 febbraio dell’anno successivo. Tuttavia, se il reddito annuale delle due categorie supera i 15.953 euro, si dovranno pagare anche i contributi a percentuale.

Partite Iva, contributi Inps a percentuale: quanto si paga?

Sono due essenzialmente le soglie di reddito per i pagamenti a percentuale di artigiani e commercianti con partita Iva. Tutte le percentuali vanno pagate per la parte di reddito che eccede i 15.953 euro. Le percentuali variabili, dunque, vanno ad aggiungersi ai contributi fissi da pagare all’Inps.  In particolare:

  • per redditi da 15.953 euro fino a 47.379 euro, gli artigiani nel 2021 pagano il 24%, i commercianti il 24,09%;
  • per redditi oltre la soglia dei 47.379 euro gli artigiani pagano il 25% e i commercianti il 25,09%.

Esempi di pagamento di contributi Inps per artigiani e commercianti

Se un contribuente, artigiano o commerciante con partita Iva, ha un reddito annuale di 11.000 euro, dovrà pagare i contributi fissi non superando la soglia minima di 15.953 euro. Il pagamento deve avvenire entro le 4 scadenze fissate annualmente. Se, invece, il reddito è pari a 26.000 euro, oltre ai minimi contributivi stabiliti annualmente, la partita Iva (ad esempio, un artigiano) dovrà pagare il 24% sulla differenza tra 26.000 euro e 15.953 euro (10.047 euro), pari a 2.411 euro.

Partite Iva, totale dei contributi Inps da versare tra fissi e a percentuale

Il totale dei contributi dovuti dall’artigiano sono pari a 3.836 euro di contributi fissi più 2.411 euro di contributi a percentuale, per un complessivo di 6.247 euro. Se il reddito è elevato, i contributi da pagare dall’artigiani possono essere molto più alti. Ad esempio, se il reddito da dichiarare è pari a 60.000 euro, oltre ai contributi fissi di  3.836 euro, l’artigiano dovrà pagare:

  • il 24% sulla differenza tra 47.379 euro e 15.953 euro, pari a 7.452 euro;
  • il 25% sulla differenza tra 60.000 euro e 47.379, pari a 3.155 euro;
  • il totale dei contributi che l’artigiano dovrà versare è pari a 3.836 euro più 7.452 euro più 3.155 euro, ovvero 14.443 euro di contributi previdenziali Inps.

Scadenze del pagamento dei contributi Inps a percentuale

I contributi a percentuale, a differenza di quelli fissi, hanno due scadenze: la prima al 30 giugno, la seconda al 30 novembre. Inoltre, artigiani e commercianti hanno massimali contributivi, oltre i quali non si pagano contributi. Per il 2021 il massimale fissato dall’Inps è pari a 103.055 euro. Eventuali redditi eccedenti questo massimale non sono soggetti ad alcun contributo previdenziale.

Contributi Inps dei lavoratori con partita Iva e senza Cassa previdenziale

I lavoratori autonomi con partita Iva e senza l’iscrizione a una Cassa previdenziale di appartenenza, hanno l’obbligo dell’iscrizione alla Gestione separata Inps. Dall’iscrizione ne deriva l’obbligo del pagamento dei contributi previdenziali che per il 2021 sono pari al 25,98% dei redditi dell’anno di riferimento. Rispetto agli artigiani e ai commercianti, i lavoratori autonomi come freelance e liberi professionisti senza albo a titolo di esempio, non pagano i contributi Inps fissi. L’importo da pagare, dunque, è in proporzione a quanto si guadagna. Tuttavia, è importante raggiungere il tetto minimo dei 15.953 euro fissati dall’Inps. Infatti, al di sotto di questa somma, l’Inps non accredita l’anno di contributi utile ai fini della pensione. Il massimale è fissato, invece, a 103.055 euro per il 2021.

Partite Iva con Cassa previdenziale autonoma: quali contributi?

I calcoli e i contributi fatti per artigiani, commercianti e autonomi con partita Iva ma senza albo o ordine professionale, non valgono per i professionisti appartenenti a una Cassa previdenziale. Ad esempio, gli avvocati hanno la propria Cassa previdenziale, come anche gli ingegneri, i giornalisti e gli architetti. Per il calcolo dei contributi da versare è necessario, pertanto, far riferimento alle regole e ai calcoli della propria Cassa previdenziale di appartenenza. Solo in mancanza di una Cassa previdenziale, come ad esempio avviene per i consulenti aziendali, sono da applicare le regole dei lavoratori autonomi con partita Iva ma senza Cassa.

 

Contributi Inps arretrati, come e quando possono essere pagati?

È possibile pagare contributi Inps arretrati? La risposta è affermativa e lo stesso Istituto previdenziale li classifica come “contributi da riscatto”. Sono versamenti che vengono accreditati a seguito della facoltà, concessa al lavoratore o al pensionato, di coprire periodi che, essendo privi di versamenti, rimarrebbero esclusi dalla contribuzione.

Contributi Inps da riscatto, cosa sono e quando vi è la possibilità di pagarli

Le casistiche per le quali si configurano periodi non coperti da versamenti previdenziali Inps e per le quali si apre la possibilità del riscatto comprendono:

  • l’eventuale omissione nel versamento all’Inps dei contributi obbligatori. Il pagamento di questi contributi permette il recupero di periodi che, altrimenti, rimarrebbero privi di versamenti;
  • l’inesistenza dell’obbligo del versamento dei contributi;
  • particolari disposizioni legislative.

Contributi Inps omessi, a cosa serve pagarli?

I contributi Inps non pagati e riscattati successivamente si collocano nel periodo al quale si riferiscono, anche se il pagamento avviene successivamente. Sono tre le utilità del pagamento dei contributi arretrati:

  • innanzitutto per maturare il diritto a tutte le prestazioni previdenziali;
  • in secondo luogo, il pagamento dei contributi arretrati permette l’accertamento ai fini del diritto alla prosecuzione volontaria;
  • infine, pagare i contributi omessi e prescritti ha utilità ai fini del diritto e della misura di tutte le prestazioni pensionistiche, inclusa la pensione di anzianità.

I contributi non versati all’Inps

I contributi riscattabili sono quelli riguardanti periodi di lavoro per i quali non c’è la copertura da contribuzione (contributi omessi) e per i quali non sussiste l’obbligo assicurativo perché prescritti. Contributi omessi e prescritti derivano dal mancato versamento:

  • del datore di lavoro per attività lavorativa subordinata;
  • del titolare di un’impresa artigiana o commerciale per i coadiuvanti;
  • dagli aderenti alla gestione separata Inps che non siano titolari di obbligo contributivo;
  • del titolare del nucleo coltivatore diretto, colono o mezzadro per i familiari coadiuvanti.

Quali periodi lavorativi senza contributi si possono riscattare?

Si possono riscattare i periodi senza contribuzione relativi:

  • al corso legale della laurea, della laurea breve e dei titoli di studio a esse equiparati;
  • all’attività lavorativa esercitata in Paesi esteri non convenzionati;
  • all’estensione facoltativa per la maternità che si colloca al di fuori del rapporto di lavoro;
  • agli anni di praticantato come promotore finanziario;
  • all’attività svolta con contratto co.co.co., ovvero di collaborazione coordinata e continuativa, per i periodi che precedono il 1° aprile 1996;

Quali altri periodi di lavoro si possono riscattare?

Ulteriori periodi da riscattare per la mancata copertura dei contributi previdenziali riguardano:

  • i periodi non lavorati successivi al 31 dicembre 1996 che sono privi di contributi secondo quanto disposto da specifiche norme di legge;
  • il lavoro svolto con contratti part time;
  • i periodi inerenti lo svolgimento di lavori socialmente utili. La copertura avviene per le settimane utili al calcolo della misura della pensione;
  • ulteriori periodi da riscattare previsti da specifiche norme di legge.

Chi può presentare la domanda di riscatto dei contributi Inps arretrati?

I soggetti ammessi a presentare domanda per il riscatto di contributi inerenti periodi lavorativi non coperti comprendono:

  • i lavoratori che sono iscritti all’assicurazione generale obbligatoria;
  • chi è iscritto a una delle gestioni speciali dei lavori autonomi;
  • i lavoratori iscritti alla gestione separata dei parasubordinati;
  • gli iscritti ai fondi speciali appartenenti all’Inps.

La domanda si presenta alla sede dell’Inps competente per territorio in base alla residenza. Alla domanda si allega anche la documentazione richiesta.

Quanto costa il riscatto dei contributi Inps omessi in periodi ricadenti nel retributivo?

Il riscatto dei contributi per periodi privi di versamenti è sempre oneroso, a differenza dei contributi figurativi che vengono accreditati gratuitamente. Se i contributi omessi riguardano periodi ricadenti nel sistema previdenziale retributivo, il calcolo di quanto si paga avviene con la riserva matematica. Il costo, dunque, è pari al differenziale annuo tra la pensione con il riscatto dei contributi e la pensione senza il riscatto. Al risultato occorre moltiplicare il coefficiente variabile per sesso, per età e per anzianità contributiva.

Costo contributi arretrati sistema contributivo e iscritti alla Gestione separata Inps

Ai contributi inerenti periodi lavorativi da riscattare e ricadenti nel sistema contributivo si applica l’aliquota contributiva in vigore nel momento in cui il lavoratore presenta domanda. L’aliquota va moltiplicata per gli stipendi percepiti nei 12 mesi che precedono la domanda stessa. Per chi è iscritto alla Gestione separata Inps il costo del riscatto prende in considerazione il valore medio mensile dei compensi soggetti alla contribuzione obbligatoria degli ultimi 12 mesi prima della domanda.

Contributi arretrati, l’importo da pagare per il riscatto è determinato dall’Inps

Il calcolo di quanto si paga per il riscatto dei contributi è, in ogni modo, effettuato dall’Inps. Infatti, nel provvedimento di accoglimento della domanda di riscatto, l’Istituto previdenziale specifica qual è l’importo da pagare. Il provvedimento di accoglimento viene notificato al contribuente tramite raccomandata.

Come si possono pagare i contributi arretrati Inps?

Il pagamento all’Inps dei contributi arretrati ai fini del riscatto si effettua usando i bollettini Mav inviati dall’Istituto previdenziale stesso con il provvedimento di accoglimento. I bollettini Mav si possono scaricare anche dal sito dell’Inps, nella sezione “Portale dei pagamenti”, accedendo ai “Riscatti, ricongiungimenti e rendite”. Nella stessa sezione si possono saldare i contributi omessi utilizzando la carta di credito. Si può pagare il riscatto dei contributi anche:

  • ai soggetti aderenti a “Reti Amiche”;
  • alle tabaccherie che aderiscono a “Reti Amiche”;
  • agli sportelli bancari di Unicredit;
  • attraverso il portale internet di Unicredit per chi è cliente della banca;
  • chiamando il contact center al numero 803 164 da rete fissa o 06 164 164 da rete mobile.

Quando si pagano i contributi arretrati?

Nel momento in cui il contribuente riceve il provvedimento di accoglimento della domanda ha 60 giorni di tempo per pagare in un’unica soluzione. In alternativa, il contribuente può richiedere il pagamento rateale dell’importo comunicato dall’Inps. Il pagamento a rate è concesso ai soggetti che non debbano utilizzare nell’immediato i contributi ai fini del trattamento di pensione. Se il contribuente non paga l’importo in un’unica soluzione o la prima rata del pagamento frazionato, l’Inps archivia la pratica come rinuncia.

Pagamento rateale dei contributi arretrati Inps

Il numero massimo di rate per il pagamento dei contributi omessi e prescritti è pari a 60. L’importo minimo mensile è pari a 27 euro. Per il riscatto di laurea, invece, l’Inps ammette il pagamento fino a 120 rate. Se durante le rate il contribuente va in pensione, l’importo residuo deve essere pagato in un’unica soluzione.

Contributi INPS: quando cadono in prescrizione?

“Prescrizione” sembra essere la parola magica quando si parla di mancati pagamenti, proprio quella situazione che spera si concretizzi a chi attende timorosamente un sollecito di pagamento poco gradito che infrangerebbe il suo auspicio. Come tutti i debiti, anche quelli relativi i contributi INPS possono cadere in prescrizione, che siano stati omessi o non dichiarati. Ma da quando decorre il termine di prescrizione e quanto dura?

Poiché la prescrizione ha una durata di cinque anni, così come lo è quella di tutti i contributi a prescindere dalle gestioni previdenziali, l’oggetto del contendere tra l’INPS e il contribuente resta l’inizio della decorrenza dei termini.

INPS e contribuente: posizioni diverse

Il motivo della contesa tra l’ente previdenziale e il contribuente risiede nel fatto che il primo, solitamente, invia gli avvisi di pagamento ai contribuenti per l’omissione dei versamenti dovuti, a ridosso della loro prescrizione, cosa che illude i mancati pagatori. Difficile capire perché l’INPS adotti questa consuetudine, ma un invio degli avvisi vicino al termine della prescrizione, induce il contribuente a verificare se il debito si sia già estinto o meno.

Come appena anticipato, i contributi INPS da dichiarazione si prescrivono in cinque anni: per azzerare il periodo di prescrizione l’ente previdenziale deve inoltrare una richiesta di pagamento, entro tale termine, al contribuente che ha omesso il pagamento dei contributi.

Il problema sorge nel momento in cui la richiesta di pagamento viene comunicata a ridosso della scadenza dei cinque anni. A questo punto, è d’obbligo stabilire quando parte realmente la decorrenza della prescrizione. In parole semplici: da quale giorno si deve considerare avviata la decorrenza della prescrizione?

Per questo motivo, è importante capire quando scatta la prescrizione per contributi non versati ma dichiarati, e quando, invece, per gli stessi contributi INPS non versati e nemmeno dichiarati.

La prescrizione dei contributi non versati ma dichiarati

L’INPS sostiene la posizione secondo cui, ai fini del conteggio della prescrizione per l’omesso versamento dei contributi previdenziali da dichiarazione, si debba prendere in considerazione che il momento iniziale la data d’invio della dichiarazione dei redditi, sia da considerare come il giorno a partire da cui è possibile, per gli enti demandati al controllo delle dichiarazioni, verificare l’avvenuto versamento di quanto dovuto.

Diversa la posizione dei contribuenti, per cui l’inizio del periodo di computo debba coincidere con la data di scadenza del versamento dovuto. La differenza tra le due posizioni è notevole, visto che nel sistema italiano i versamenti dei saldi da dichiarazione annuale scadono alcuni mesi prima dell’invio telematico del modello dichiarativo.

Sul contenzioso tra INPS e contribuente è intervenuta a più ripresa la Corte di Cassazione. A tal proposito, i giudici supremi con la sentenza n. 4899 del 23 febbraio 2021 chiariscono con testuali parolec cheil fatto costitutivo dell’obbligazione contributiva è costituito dall’avvenuta produzione, da parte del lavoratore autonomo, di un determinato reddito costituente la base imponibile per il calcolo del contributo” e che “la decorrenza del termine di prescrizione dipende dall’ulteriore momento in cui la corrispondente contribuzione è dovuta e quindi dal momento in cui scadono i termini di pagamento di essa”.

Quindi, è possibile dichiarare che la prescrizione dei contributi INPS da dichiarazione avviene in cinque anni a partire dal giorno in cui questi versamenti dovevano essere versati.

Meno definita la questione del contendere tra INPS e contribuente, quando i contributi previdenziali, non solo non sono stati versati dal contribuente, ma nemmeno dichiarati.

La prescrizione dei contributi non versati e non dichiarati

In tal caso sulla prescrizione pesa il punto 8 dell’art. 2941 del Codice civile, in base al quale la prescrizione resta sospesa tra il debitore che ha omesso volontariamente l’esistenza del debito e il creditore, fino a quando il dolo non sia stato scoperto. L’INPS ha così rafforzato la sua posizione, per la quale la prescrizione è sospesa sino a quando non emerga l’omissione, a seguito dell’ordinaria attività di controllo delle dichiarazioni dei redditi.

Ciononostante, la Corte di Cassazione con l’ordinanza 14410/2019 ha stabilito che “l’operatività della causa di sospensione della prescrizione, di cui all’articolo 2941, numero 8, Codice civile, ricorre quando sia posta in essere dal debitore una condotta tale da comportare per il creditore una vera e propria impossibilità di agire, e non una mera difficoltà di accertamento del credito”, che tale criterio “richiede di considerare l’effetto dell’occultamento in termini di impedimento non sormontabile con gli ordinari controlli”, e che “va pertanto affermato che la mancata denuncia del reddito non equivalga né ad un doloso e preordinato occultamento del debito contributivo da corrispondere all’INPS, né che essa configuri impedimento assoluto, non scongiurabile con i normali controlli che l’istituto può invece sempre attivare e sollecitare anche rivolgendosi all’Agenzia delle Entrate”.

Quanto stabilito dai giudici supremi con la sentenza sopra citata, è di fondamentale importanza interpretativa per l’oggetto del contendere: escludendo la legittimità dell’applicazione dell’articolo 2941 n. 8 del Codice civile, la Corte di Cassazione, di fatto, riporta la fattispecie (la prescrizione dei contributi INPS non versati e non dichiarati) all’interno dell’ordinario perimetro di prescrizione, che, anche in questo caso, sarà di cinque anni dalla data del versamento omesso.

In conclusione, nel contenzioso tra ente previdenziale e contribuente per quanto concerne il computo della prescrizione dei contributi non versati e non dichiarati, la giurisprudenza va nella direzione di salvaguardare, per quanto possibile, il contribuente piuttosto che l’INPS.

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Rendita vitalizia dei contributi prescritti: quando è possibile il riscatto?

Per un lavoratore, i periodi non coperti o con insufficienti contributi previdenziali rappresentano un danno per la sua futura pensione. La legge permette di rimediare, anche nel momento in cui il termine di prescrizione sia scaduto. Si tratta della rendita vitalizia, lo strumento mediante il quale si possono riscattare in modo oneroso i periodi non coperti o carenti di contributi previdenziali. Il riscatto può avvenire da parte del datore di lavoro o, in mancanza, per iniziativa del lavoratore stesso.

Circolare Inps numero 78 del 29 maggio 2019

Sulla questione è intervenuta recentemente l’Inps con la circolare numero 78 del 29 maggio 2019. Nel documento l’Istituto di previdenza elenca i dettagli procedurali per la presentazione della domanda e l’indicazione dei mezzi di prova che supportano la richiesta. La prova documentale dell’esistenza del rapporto di lavoro, la data certa, l’esistenza certa, le dichiarazioni ora per allora e quelle dalla Pubblica amministrazione, le attestazioni del sindaco sono altresì precisate nella medesima circolare. Tuttavia, l’istituto del riscatto dei contributi omessi risale già all’articolo 13 della legge numero 1338 del 1962.

La legge 1338 del 1962 sulla costituzione della rendita vitalizia

Secondo la legge, infatti, “il datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l’assicurazione obbligatoria di invalidità, vecchiaia e superstiti e che non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione ai sensi dell’articolo 55 del regio decreto legge 4 ottobre 1935, numero 1827, può chiedere all’Istituto nazionale della previdenza sociale di costituire una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell’assicurazione obbligatoria, che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi”.

Rendita dei contributi prescritti, effetto immediato sulla pensione

La stessa legge specifica che la rendita dei contributi prescritti integra con effetto immediato la pensione già in essere. In caso contrario, i contributi sono valutati ai fini dell’assicurazione obbligatoria prevista per la pensione di invalidità, per la vecchiaia e a favore dei superstiti.

Contributi prescritti, quando il pagamento spetta al datore di lavoro

Il datore di lavoro può esercitare la facoltà del versamento dei contributi prescritti esibendo all’Inps i documenti di data certa, dai quali si evince l’effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro. Deve risultare, inoltre, anche la misura della retribuzione corrisposta al lavoratore stesso.

Quando i contributi prescritti devono essere versati dal lavoratore?

I contributi prescritti possono essere versati dal lavoratore nel momento in cui non possa ottenere dal datore di lavoro la costituzione della rendita. In questo caso, il lavoratore si sostituisce al datore di lavoro, salvo il diritto del risarcimento del danno. Ricade sul lavoratore stesso l’onere di fornire all’Inps le prove del rapporto di lavoro e della retribuzione. Tra i soggetti interessati alla costituzione della rendita vitalizia rientrano anche i superstiti del lavoratore.

Quando può essere presentata la domanda all’Inps dei contributi prescritti?

La domanda dei contributi prescritti può essere presentata all’Inps senza limiti temporali, anche dopo il verificarsi del pagamento di un trattamento di pensione. È inoltre ammessa la domanda per omissioni parziali, nel caso in cui sia stata versata una contribuzione parziale rispetto alle retribuzioni che sono state percepite effettivamente. Infine, si può presentare domanda dei contributi prescritti anche per coprire parzialmente il periodo durante il quale si sia verificata omissione contributiva. Ad esempio, il riscatto può avvenire solo per le settimane necessarie per perfezionare i requisiti della pensione.

Chi sono i destinatari del riscatto o della costituzione della rendita vitalizia?

La circolare Inps 78 del 29 maggio 2019 riporta compiutamente i destinatari dello strumento del riscatto dei contributi omessi, ovvero gli interessati alla costituzione della rendita vitalizia. Infatti, figurano:

  • i lavoratori di un rapporto di lavoro subordinato;
  • i familiari coadiuvanti e coadiutori di chi è titolare di impresa artigiana o commerciale;
  • i collaboratori del nucleo diretto coltivatore diversi dal titolare e collaboratori dei nuclei colonici e mezzadrili;
  • i lavoratori che, essendo soggetti al regime assicurativo della gestione separata, non siano obbligati al versamento diretto della contribuzione, essendo la propria quota trattenuta dal committente o associante e versata direttamente da quest’ultimo;
  • gli iscritti alla Cassa per le pensioni degli insegnanti di asilo e di scuole elementari parificate.

Prescrizione dei contributi, quale attesa?

Il presupposto per attivare l’istituto del riscatto dei contributi omessi è che i contributi stessi siano caduti in prescrizione. Ciò avviene al trascorrere di cinque anni se la domanda viene presentata dal datore di lavoro e di dieci anni se è invece il lavoratore stesso a farne denuncia all’Inps.

Quanto si paga per riscattare i contributi omessi nel sistema retributivo?

Se i periodi per i quali si richiede il riscatto dei contributi omessi rientrano nel meccanismo retributivo, il costo viene calcolato in termini di “riserva matematica”. Ciò significa che si effettua il differenziale annuo tra la pensione con il riscatto dei contributi e quella senza il riscatto. Il risultato va moltiplicato per il coefficiente inerente al sesso, all’età e all’anzianità contributiva.

Costo del riscatto dei contributi omessi nel sistema contributivo

Diverso è il calcolo del riscatto di periodi di contributi omessi rientranti nel sistema contributivo. In questo meccanismo rientrano i lavoratori:

  • che abbiano iniziato a versare contributi a partire dal 1° gennaio 1996 e con meno di 18 anni di contribuzione prima del 1996;
  • i periodi dal 2012 in poi per contribuenti che abbiano almeno 18 anni di contributi versati prima del 1996.

Per queste categorie di contribuenti il costo è quantificato applicando l’aliquota contributiva in vigore nel momento in cui si presenta domanda alla retribuzione percepita nei 12 mesi precedenti la domanda stessa. Si tratta di un sistema simile, dunque, al riscatto della laurea per chi non può beneficiare del sistema agevolato dell’articolo 4 del 2019.

Costo riscatto contributi iscritti alla Gestione separata Inps, artigiani e commercianti

Per i contribuenti iscritti alla Gestione separata Inps il costo del riscatto di periodi di omessa contribuzione fa riferimento al valore medio mensile dei compensi assoggettati alla contribuzione obbligatoria degli ultimi dodici mesi precedenti la domanda stessa. Non è stato ancora chiarito, invece, quale sia il reddito sul quale debbano far riferimento gli artigiani e i commercianti per il riscatto dei periodi non coperti.

Trasferte fisse e occasionali: quando sono dovuti i contributi?

Quando si lavora in azienda è possibile che il datore di lavoro disponga per il lavoratore delle trasferte fisse e occasionali, queste però sono sottoposte a un particolare regime fiscale, sebbene occorra fare delle precisazioni. Si cercherà in questa guida di dare un quadro esaustivo tenendo in considerazione anche le sentenze emesse su tale materia che spesso è oggetto di controversie interpretative.

Trasferte fisse e occasionali: differenze

La prima cosa da fare è definire la trasferta: si tratta di un trasferimento temporaneo del lavoratore presso una sede che non è la sua abituale, quindi temporaneamente la prestazione lavorativa viene eseguita in una sede diversa.

Solitamente la scelta della trasferta è dovuta a motivi logistici, ad esempio deve essere avviata una nuova sede e quindi un dipendente della sede principale viene temporaneamente spostato in modo da fare da tutor ai nuovi membri dell’azienda. Può inoltre capitare che in una sede un dipendente fondamentale sia in vacanza e debba essere necessariamente coperto, in questi casi si può parlare di trasferta. Gli elementi caratteristici della trasferta sono: eccezionalità, occasionalità e precarietà della permanenza nella nuova sede. In presenza di questi tratti caratteristici si può applicare l’articolo 51 del TUIR (Testo Unico Imposte sul Reddito) il quale stabilisce delle particolari agevolazioni fiscali.

Il comma 5 dell’articolo 51 si occupa delle trasferte occasionali e stabilisce che le indennità percepite per esse non concorrono alla formazione del reddito se non nella parte eccedente i 46,48 euro giornalieri se la trasferta è in Italia e 77,47 euro se la trasferta è all’estero. Tali importi sono al netto delle spese di vitto e alloggio che possono essere rimborsate applicando il principio analitico, quindi il lavoratore fornisce scontrini, in modo forfettario o misto.

Il comma 6 dello stesso articolo si occupa delle trasferte fisse o abituali e stabilisce invece che “le indennità e le maggiorazioni di retribuzione spettanti ai lavoratori tenuto per contratto all’espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, anche se corrisposte con carattere di continuità[…]concorrono a formare il reddito nella misura del 50% del loro ammontare”.

Contributi per trasferte fisse e occasionali

Un discorso a parte deve essere fatto per i contributi, infatti il datore di lavoro non sempre deve pagare i contributi previdenziali per la trasferta. Il datore di lavoro, nel caso in cui sia disposta una trasferta occasionale non è tenuto al pagamento dei contributi INPS e INAIL sulle somme versate.

Devono però essere fatte delle differenze, infatti le agevolazioni ora viste non si applicano nel caso in cui il dipendente possa essere qualificato come “trasfertista”. Il trasfertista è colui che abitualmente deve spostarsi verso diverse sedi di lavoro. In questo caso non si può parlare di un’indennità di trasferta vera e propria piuttosto di un elemento costante della busta paga e di conseguenza al lavoratore gli importi sono tassati, mentre il datore di lavoro su tali somme deve erogare i contributi previdenziali e assistenziali.

Sentenze della Corte di Cassazione

Il trasfertista può essere inquadrato nella disciplina del comma 6 dell’articolo 51, di conseguenza gli emolumenti devono essere tassati tenendo in considerazione proprio tale disposizione. Chiarezza sul punto viene fatta dalla Corte di Cassazione con la sentenza  del 15 novembre 2017 n°27093.

La sentenza ha ad oggetto il caso di  un’impresa che si occupa della realizzazione di impianti, la stessa abitualmente ha lavoratori in trasferta e corrisponde la relativa indennità con rimborsi spese. D’altronde, nel caso in cui gli operai lavorano nell’arco di 20 km dalla sede della ditta, la ditta non versa tale indennità. Questo trattamento fa pensare appunto a trasferte occasionali e in virtù di questo si applica il comma 5 dell’articolo 51 del TUIR e di conseguenza gli emolumenti non si considerano come redditi e di conseguenza il datore di lavoro su tali somme non versa i contributi previdenziali e assistenziali e le somme non sono considerate ai fini del calcolo del TFR .

Trattamento contributivo delle trasferte abituali

La Corte di Cassazione però ha applicato una interpretazione diversa stabilendo invece che nel caso concreto doveva essere applicato il comma 6. Ciò perché nel caso concreto si è di fronte all’ipotesi di “lavoratori subordinati destinati a svolgere sistematicamente e professionalmente la propria attività quasi interamente al di fuori dalla sede aziendale”, di conseguenza non si può parlare di trasferta in senso proprio e vi è una base contrattuale differente.

Nel caso della trasferta occasionale infatti vi è una decisione unilaterale del datore di lavoro che, per esigenze organizzative “eccezionali” , trasferisce il dipendente per un periodo che può essere anche “lungo”, mentre nel caso del trasfertista abituale, già il contratto prevede questa “mobilità”. Da ciò discende che gli emolumenti devono essere considerati retribuzione e devono essere ricompresi anche nella base del TFR. La stessa sentenza stabilisce quindi che per la parte del compenso considerata retribuzione devono essere calcolati anche gli oneri contributivi.

La giurisprudenza sulla natura degli emolumento per il trasfertista

Deve essere sottolineato che non sempre la giurisprudenza in passato era allineata sulla posizione poc’anzi citata, ma ora l’orientamento sembra essere consolidato, infatti l’ordinanza 14047 del 2020 emessa dalla Corte di Cassazione è dello stesso tenore.  Questa ribadisce che nel caso in cui la sede di assunzione costituisce un mero riferimento per la gestione burocratica del rapporto di lavoro, l’indennità di trasferta non può essere assoggettata alla disciplina del comma 5 del TUIR.

La sentenza definisce la natura delle indennità e afferma: “normalmente essa comporta un maggior disagio, che deve essere appositamente compensato, sicché la relativa indennità generalmente ha una duplice funzione, risarcitoria o meglio restitutoria delle maggiori spese sopportate nell’interesse del datore di lavoro, e retributiva del maggior disagio”. Proprio da tale natura deriva il duplice inquadramento anche dal punto di vista fiscale e contributivo.  La stessa ordinanza precisa che questa disposizione deve essere applicata anche ai lavoratori cantieristi che per la natura stessa del lavoro sono destinati a spostarsi in modo abituale.

Neutralizzare contributi dannosi per la pensione: come funziona?

La riduzione dello stipendo, il ricorso alla cassa integrazione e i periodi di disoccupazione possono ridurre i contributi previdenziali. Come conseguenza, ne potrebbe risentire l’importo della futura pensione, ma è possibile neutralizzare i contributi svantaggiosi. Focus, dunque, sui contributi, l’elemento principale nel calcolo della pensione. Alcuni periodi contributivi infatti sarebbe meglio escluderli dal calcolo della pensione, come ad esemio i contributi figurativi.

Chi rischia l’assegno di pensione ridotto per i ‘contributi dannosi’?

La neutralizzazione dei contributi dannosi per la pensione futura riguarda, in primo luogo, i lavoratori che rientrano nel sistema previdenziale retributivo. La medesima situazione, invece, non si verifica se il lavoratore ricade nel mecacnismo previdenziale contributivo, con inizio di contribuzione a partire dal 1° gennaio 1996. La motivazione risiede proprio nel calcolo della pensione. Per il contribuente del regime retributivo, infatti, incidono principalmente gli stipendi percepiti negli ultimi cinque o dieci anni di lavoro.

Futura pensione in diminuzione per chi perde il lavoro prima dell’uscita

Ciò equivale a dire che, negli anni precedenti l’uscita da lavoro per la pensione, i contribuenti del sistema retributivo, in corrispondenza di stipendi più bassi, si vedrebbero calcolata la futura pensione sulla base di salari in diminuzione, anziché in aumento. Questa relazione è tanto vera quanto più penalizzante risulta per i lavoratori che perdono il proprio lavoro e percepiscono l’assegno di disoccupazione. A fronte di retribuzioni ridotte corrisponderà una pensione futura in diminuzione.

Contributi dannosi per il calcolo della pensione futura: i riferimenti normativi

I passaggi normativi rigurdanti la disciplina della neutralizzazione dei contributi “dannosi” ha radici molto indietro nel tempo. Inizialmente la questione è stata affrontata dall’articolo 37 del decreto del Presidente della Repubblica numero 818 del 26 aprile 1957. Infatti, nell’articolo si fa riferimento ai periodi da escludere in modo che non concorrano al calcolo della pensione nel quinquennio di riferimento, ovvero i periodi di:

  1. assenza facoltativa dal lavoro;
  2. lavoro subordinato all’estero;
  3. servizio militare;
  4. malatttia.

La sterilizzazione dei contributi penalizzanti

I successivi provvedimenti legislativi con la legge numero 297 del 1982 e il decreto legislatio numero 503 del 1992, nonché gli interventi della Corte costituzionale, sono andati nella direzione del riconoscere ai lavoratori, anche autonomi, la facoltà di sterilizzare gli eventuali contributi penalizzanti. In tal senso, è possibile non farli rientrere nel calcolo della futura pensione purché vengano accreditati una volta maturato il requisito contributivo richiesto per la pensione anticipata o per quella di vecchiaia.

Quali contributi si possono neutralizzare e in quali limiti?

Fatta la premessa del momento in cui si può attivare la sterilizzazione dei contributi penalizzanti, la legge riconoscere il meccanismo per un massimo di 260 settimane di contributi. Il limite fa riferimento ai periodi:

  • di rioccupazione con uno stipendio inferiore a qello che si percepita prima;
  • alla disoccupazione indennizzata.

Non vi sono limiti, invece, per la neutralizzazione dei seguenti contributi:

  • quelli riguardanti periodi figurativi di integrazione dello stipendio;
  • i periodi di contribuzione volontaria.

Domanda di neutralizzazione dei contributi penalizzanti

Spetta al lavoratore l’iniziativa di fare richiesta di neutralizzazione dei contributi penalizzanti. In particolare, la richiesta deve essere presentata all’Inps nel caso in cui il lavoratore ravvisi una decurtazione della pensione. In particolare, una volta raggiunti i requisiti della pensione di vecchiaia o della pensione anticipata, l’eventuale ed ulteriore montante di contributi accreditato può essere neutralizzato se dal calcolo dell’accredito risulti un nocumento sull’assegno di pensione.

Contributi da neutralizzare: il caso della retribuzione inferiore

Sul caso dei contributi da neutralizzare a causa di una retribuzione inferiore che possa produrre un assegno di pensione decurtato, è intervenuta l’Inps con la circolare numero 133 del 1997 e con il messaggio 12002 del 2006. La circolare, che si rifà alla sentenza della Corte Costituzionale numero 264 del 1994, recita: “In base ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza numero 264, l’esclusione dal calcolo della pensione dei periodi di retribuzione ridotta non necessari ai fini del perfezionamento dell’anzianità contributiva minima è finalizzata a evitare un depauperamento del trattamento pensionistico causato dallo svolgimento di un’attività lavorativa meno retribuita nell’ultimo quinquennio di lavoro”.

Il calcolo delle 260 settimane ai fini della confronto dei contributi

Ciò premesso, la circolare Inps specifica che: “La diminuzione della retribuzione deve essersi verificata nell’ultimo quinquennio di contribuzione, e cioe in coincidenza con il periodo di riferimento (le ultime 260 settimane di contribuzione) o nel corso di esso”. Al verificarsi di queste condizioni, l’applicabilità della sentenza numero 264 nel caso di cambiamento dell’attività lavorativa nell’ultimo quinquennio di contribuzione, necessita di “prendere a riferimento la retribuzione settimanale media percepita nell’anno di cessazione della precedente attività, calcolata sulla base delle retribuzioni percepite per tale attività, e metterla a confronto con la retribuzione media settimanale percepita nello stesso anno, calcolata sulla base delle retribuzioni percepite in relazione alla nuova attività lavorativa”.

Periodi da escludere dal calcolo della pensione

La circolare Inps detta, dunque, disposizioni in merito ai periodi da escludere dal computo della pensione. Infatti, come poi specificato dalla stessa Inps con il messaggio 12002 del 2006, “deve essere escluso dal computo della retribuzione pensionabile e dell’anzianità contributiva tutto il periodo di lavoro svolto a partire dal cambiamento di attività ovvero, in caso di riduzione retributiva avvenuta nell’ambito dello stesso rapporto di lavoro, tutto il periodo di lavoro svolto a partire dall’anno solare in cui è iniziata tale riduzione. In ogni caso non possono essere escluse dal computo più di 260 settimane di contribuzione”.

Contributi dannosi in caso di disoccupazione indennizzata

Sui contributi dannosi in caso di disoccupazione indennizzata è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza numero 82 del 2017. Nel caso di pensione retributiva non si conta il periodo di disoccupazione, se dannoso. Ovvero deve essere possibile, per il lavoratore, eslcudere i periodi in cui si sono percepiti contributi per disoccupazione.

La sentenza della Corte costituzionale sui periodi di disoccupazione

I periodi di disoccupazione andrebbero ad abbassare l’assegno pensionistico. La sentenza della Corte costituzionale ha stabilito, dunque, l’illegittimità del comma 8 dell’articolo 3, della legge 297 del 1982. Il provvedimento, infatti, non permetteva al lavoratore, che già avesse matrato il diritto alla pensione, di scorporare il periodo non lavorato coperto da disoccupazione.

Integrazione salariale ai fini della pensione nel retributivo

Non è soggetto al vincolo delle 260 settimane il caso dell’integrazione salariale. La circolare Inps numero 158 del 1996 prende in esame il lavoratore che percepisce, nell’ultimo periodo antecedente la decorrenza della pensione, il trattamento di integrazione salariale. In particolare, l’Inps stabilisce che: “La liquidazione dell’assegno pensionistico risulta determinata in misura sensibilmente più ridotta rispetto a quella che sarebbe derivata tenendo conto dei soli contributi obbligatori già versati e sufficienti, all’atto dell’ammissione all’integrazione salariale, a far conseguire il trattamento pensionistico di anzianità al raggiungimento dell’età pensionabile”.

Esclusione dei periodi di integrazione salariale

La circolare Inps disponde che “nei casi in cui nel periodo utile per il calcolo della retribuzione pensionabile, e cioè nelle ultime 260 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione, siano compresi periodi di contribuzione per integrazione salariale, la contribuzione per integrazione salariale non deve essere considerata a nessun effetto”.  Ne consegue che le pensioni con decorrenza posteriore al 31 dicembre 1992 devono essere calcolate senza tener conto dell’integrazione salariale.

Periodi di contribuzione volontaria

Rientrano nella casistica dei contributi dannosi anche quelli versati volontariamente dei quali parla l’Inps nella circolare 127 del 2000. In particolare, il ricalcolo della pensione e, dunque, la neutralizzazione dei contributi dannosi riguarda:

  • le pensioni a carico dell’assicurazione obbligatoria dei lavoratori dipendenti;
  • i lavoratori autonomi per il cumulo di contribuzione.

Il versamento dei contributi volontari, effettuato nell’ultimo quinquiennio di contribuzione, deve aver comportato una riduzione della pensione maturata sulla base dei contributi versati nella vita lavorativa.

Coefficienti di trasformazione, come influiscono sull’assegno di pensione?

Il calcolo delle pensioni del meccanismo contributivo implica un equilibrio tra il montante dei contributi che si sono versati durante la vita lavorativa e l’importo della pensione attesa. Questa equivalenza necessita, dunque, dell’applicazione di coefficienti di trasformazione, cioè di parametri che, moltiplicati per il montante dei contributi rivalutati, determinano l’assegno di pensione maturato in corrispondenza dell’età dell’uscita da lavoro.

Prestazione pensionistica e assegno futuro di pensione legato alla speranza di vita

Il coefficiente di trasformazione delle pensioni implica anche una componente aleatoria, dipendente dalla speranza di vita attesa all’età di uscita da lavoro. L’aumento della speranza di vita, e dunque il numero di anni sul quale spalmare la futura pensione, determina una conseguente riduzione della prestazione pensionistica. Viceversa, una speranza di vita in diminuzione implica (come sta avvenendo a causa della Covid) un assegno pensionistico più elevato.

Sistema pensionistico ed equilibrio dei coefficienti di trasformazione

Il sistema previdenziale contributivo si basa essenzialmente sul coefficiente di trasformazione per determinare, in maniera equa, il futuro assegno di pensione. Un aumento o una diminuzione accentuati della speranza di vita determinerebbe uno squilibrio finanziario direttamente proporzionale al numero, rispettivamente maggiore o minore, di assegni mensili. In linea di massima, il sistema previdenziale si può equilibrare agendo su tre fattori:

  • innalzando il valore dei contributi;
  • aumentando l’età di uscita per il pensionamento;
  • diminuendo i coefficienti di trasformazioni e quindi riducendo il valore del mensile di pensione.

Riequilibrio del sistema previdenziale

L’aumento del valore dei contributi è una soluzione impraticabile data la pressione alla quale è sottoposta, al giorno d’oggi, la previdenza italiana. Pertanto, la revisione periodica dei coefficienti di trasformazione, oltre ad agire sull’età del pensionamento, rappresenta il meccanismo tramite il quale il sistema previdenziale provvede al riequilibrio. Ovvero all’equilibrio tra i contributi versati, l’età di uscita per il pensionamento e la rata della prestazione previdenziale.

Coefficienti di trasformazione, più si anticipa la pensione più sono bassi

Analizzando i coefficienti di trasformazione si può notare che, fin dalla loro introduzione nel 1995, i parametri sono più bassi quanto più bassa è l’età di uscita per il pensionamento. Contrariamente, più si esce a un’età avanzata, più i coefficienti sono elevati. Dunque, una prima osservazione porta a concludere che più si beneficia di meccanismi di pensione che fanno abbandonare prima il lavoro e minore sarà l’assegno futuro di pensione. Ciò dipende sia dal minor numero di anni di contributi versati (ad esempio 38 anni, quanti ne richiede la quota 100 rispetto ai circa 43 della pensione anticipata), ma anche dal coefficiente di trasformazione. Che, all’età di 62 anni, quella minima della quota 100, fa corrispondere un indice più basso dei 67 anni richiesti per la pensione di vecchiaia.

Coefficienti di trasformazione, diminuiscono a ogni aggiornamento

La seconda considerazione che si può fare sui coefficienti di trasformazione è quella secondo la quale gli indici sono decrescenti nel tempo. Ovvero, i valori dei coefficienti diminuiscono a ogni revisione che, attualmente, si fa ogni due anni. Considerando l’età di uscita dei 67 anni, quella per la pensione di vecchiaia, nel periodo dal 1995 al 2009 il coefficiente di trasformazione era pari a 6,136%. Da notare che fino al 2009, il coefficiente di trasformazione dai 65 anni in su era sempre lo stesso. Attualmente, l’Inps determina il coefficiente sulla base dei dati demografici Istat dai 57 ai 71 anni di età.

Qual è l’attuale coefficiente di trasformazione per le pensioni di vecchiaia?

Con i valori in vigore dal 1° gennaio 2021, chi va in pensione a 67 anni ha un coefficiente pari a 5,575%, ancora più basso del 5,604% del biennio precedente, ovvero il 2019-2020. Considerando l’età minima per la quota 100, i 62 anni, l’attuale coefficiente è pari a 4,770%, meno del precedente aggiornamento (4,790% del 2019-2020) e infinitamente inferiore a quello del 1995-2009 pari a 5,514%.

Coefficienti di trasformazione, aggiornamento periodico

La costante diminuzione dei coefficienti di trasformazione a ogni aggiornamento può portare i contribuenti a uscire da lavoro alla prima data utile possibile. Da un lato, infatti, è vero che più si esce tardi e più il coefficiente di trasformazione è alto. Ma, dall’altro lato, è altrettanto vero che il coefficiente diminuisce ogni due anni, cioè ad ogni aggiornamento. per ciascuna età di uscita. E i requisiti di uscita, ovvero l’età minima richiesta o i contributi minimi versati, sono sempre più in aumento. La riforma delle pensioni di Elsa Fornero del 2011 aveva previsto il ricalcolo dei coefficienti dapprima ogni tre anni e poi, dal 2019, ogni due. E, di conseguenza, anche una diminuzione del mensile di pensione a una rotazione più elevata.

Esempio di calcolo dei coefficienti di trasformazione

La relazione tra coefficienti di trasformazione, aspettativa di vita e montante contributivo può essere spiegata con un esempio. Ammettiamo un contribuente che, nella vita lavorativa, abbia accumulato 280 mila euro di montante contributivo. È interessante verificare di quanto è diminuita la pensione del contribuente nel tempo a parità di età di uscita, ovvero a 67 anni. Innanzitutto, è indispensabile verificare le variazioni della speranza di vita, mediamente di 77,88 anni nel periodo 1995-2009 e di 83,25 nel 2019-2020 (calcolo pre-Covid). Per continuare a crescere, secondo le stime demografiche, a quasi 86 anni nel 2040 e a quasi 88 anni nel 2060.

Coefficienti di trasformazione, come influiscono sul mensile di pensione

In costante diminuzione risulta il coefficiente di trasformazione a 67 anni per i quattro periodi considerati. Nel 1995-2009 risulta pari a 6,136%, nel 2019-2020 è del 5,604%, nel 2040 corrispondente a 5,202% e nel 2060 pari a 4,994%. Considerando le 13 rate annuali di pensione e il montante di contributi di 280 mila euro per tutti e quattro i periodi considerati, a una pensione di 1.332 euro del 1995-2009 corrisponde un assegno mensile di 1.207 euro del periodo 2019-2020. Nell’esempio, il montante contributivo di 280 mila euro deve essere moltiplicato per il coefficiente di trasformazione corrispondente all’anno e all’età di uscita (6,136% del 1995-2209). Il risultato va diviso per 13 mensilità per ottenere il mensile di pensione (1.332 euro). Ulteriormente in diminuzione la pensione mensile nel 2040 (pari a 1.120 euro) e nel 2060 (1.076 euro).

Quanto incide la speranza di vita sulle pensioni?

Come si può notare dall’esempio, dunque, le pensioni sono mediamente più basse a parità di montante contributivo versato. E, come facilmente intuibile, questo dipende da più fattori. In primo luogo da una speranza di vita sempre crescente e quindi su un numero di anni più elevato per spalmare la vita da pensionato. L’attuale situazione di alta mortalità tra i pensionati per la Covid rappresenta, statisticamente, un evento eccezionale che ha ridotto la speranza di vita anche di anni. Ad esempio, in alcune zone della Lombardia, si sono persi mediamente cinque anni di aspettativa di vita. E nelle altre parti d’Italia, in attesa di dati più aggiornati, la perdita si attesta su uno, due o anche tre anni. Ma, passata l’emergenza, la speranza di vita tornerà a crescere e a ristabilirsi a livelli pre-Covid presumibilmente a partire dal 2025-2026.

Con la speranza di vita in calo si bloccherà l’età di uscita per la pensione?

In secondo luogo, la diminuzione della speranza di vita potrebbe incidere, nei prossimi anni, anche sul mancato aggiornamento dell’età di uscita per la pensione. Presumibilmente, l’età dei 67 anni per la pensione di vecchiaia potrebbe non subire variazioni anche nel prossimo biennio, nel 2022-2023. Anziché aumentare di 3 mesi come avrebbe dovuto essere seguendo le stime demografiche prima della Covid.

Perché le pensioni diminuiscono sempre?

Quanto è presumibile possa avvenire per l’età di uscita delle pensioni, con un blocco per almeno il prossimo biennio, potrebbe succedere anche ai coefficienti di trasformazione. Ovvero che la diminuzione della speranza di vita sulla quale si basa la determinazione dei coefficienti possa subire uno stop nei prossimi anni e per un periodo limitato, in conseguenza di quanto sta avvenendo per l’emergenza Covid. In ogni caso, con il tornare a crescere della speranza di vita anche i coefficienti di trasformazione torneranno a diminuire conseguentemente. E a determinare assegni di pensione sempre più ridotti a parità di anni di contributi versati e di età di uscita.