Pensione quota 41: perché non spetta con assegno ordinario di invalidità?

Può un contribuente con pensione di invalidità ordinaria (AIO) presentare domanda per la quota 41 dei lavoratori precoci? La risposta è negativa, innanzitutto perché la legge non lo consente. In secondo luogo, nel campo delle ipotesi, sarebbe necessario analizzare anche l’opportunità del passaggio dall’AIO alla pensione dei precoci.

Per chi ha l’assegno di invalidità ordinario niente domanda di pensione con quota 41

La domanda potrebbe interessare i contribuenti che abbiano intorno ai quattro decenni di versamenti e un’invalidità, ad esempio, dell’80% che permette già di avere la prestazione di invalidità. Le pensioni anticipate con la quota 41 dei precoci sono incompatibili con gli assegni di invalidità ordinari perché i due trattamenti sono alternativi. E, dunque, il contribuente, finché percepisce l’assegno di invalidità ordinario non potrà presentare domanda della prestazione prevista per i precoci con 41 anni di contributi.

Pensione di invalidità e quota 41 precoci: quali differenze?

La natura delle due prestazioni pensionistiche è, inoltre, diversa. L’assegno ordinario di invalidità rappresenta una prestazione economica pur sempre calcolata sui contributi versati e, dunque, sottostante alle medesime regole ai fini della misura. Tuttavia l’invalidità è regolata da requisiti sottoposti ad accertamenti dopo la presentazione della domanda che solo in parte potrebbero soddisfare quelli della pensione con quota 41.

Requisiti richiesti dall’Inps per la domanda di assegno di invalidità ordinario

Pur non essendo prevista la cessazione dell’attività lavorativa, chi presenta domanda di pensione di invalidità deve aver subito la riduzione della capacità lavorativa a meno di un terzo a causa dell’infermità fisica o mentale. Inoltre, per ottenere l’assegno di invalidità, è necessaria una contribuzione di almeno 260 settimane, pari a 5 anni di contribuzione e di assicurazione, delle quali 156 settimane, pari a 3 anni di contribuzione e di assicurazione, devono rientrare nei cinque anni che precedono la data di presentazione della domanda.

Riduzione della capacità lavorativa nell’invalidità e nella pensione con quota 41

Un punto importante da tener presente sia nell’assegno di invalidità che nella pensione con quota 41 è la riduzione della capacità lavorativa. Infatti, mentre l’Inps per la domanda di invalidità parla di una riduzione a “meno di un terzo della capacità lavorativa”, per la quota 41 dei precoci la riduzione accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile deve essere superiore o per lo meno uguale al 74%.

Quando la ridotta capacità lavorativa va bene per l’invalidità ma non per la quota 41?

C’è una zona grigia nella quale l’invalidità dell’una non è sufficiente per i requisiti richiesti dall’altra misura di pensione. Ciò significa che una ridotta capacità lavorativa al 30% soddisferebbe il requisito per la pensione di invalidità ma non quello della quota 41 dei precoci. È facile intuire che per quest’ultima misura la ridotta capacità al 30% rappresenterebbe una condizione non sufficiente (una delle quattro situazioni nelle quali può trovarsi un lavoratore per chiedere la quota 41 insieme alla condizione di disoccupazione, all’assistenza di persone non autosufficienti o allo svolgimento di mansioni usuranti o gravose) per presentare la domanda.

I requisiti dei contributi richiesti per le pensioni con quota 41

È altrettanto vero che la pensione con la quota 41 richiede ulteriori requisiti per la presentazione della domanda. In merito al versamento dei 41 anni di contributi, infatti, la legge richiede che almeno 12 mesi siano stati versati, anche in maniera non continuativa, prima dei 19 anni di età del contribuente. Pertanto, l’ipotetica richiesta del passaggio dall’assegno di invalidità alla pensione con quota 41 necessiterebbe di una verifica:

  • sia del montante dei contributi versati, con traguardo dei 41 anni di versamenti a qualsiasi età venga raggiunto;
  • che dell’inizio della prima attività lavorativa in età adolescenziale.

Trasformazione dell’assegno di invalidità in pensione di vecchiaia a 67 anni

Tornando nel campo di applicazione delle norme previdenziali, chi percepisce una pensione di invalidità ordinaria deve aspettare la maturazione della pensione di vecchiaia per vedersi trasformato l’assegno di invalidità in, appunto, pensione di vecchiaia. Questo passaggio avviene al compimento dei 67 anni di età. Pertanto, il contribuente già titolare di assegno di invalidità definitivo ha come obiettivo del suo trattamento solo quello della trasformazione in pensione di vecchiaia. Risulta pertanto incompatibile il passaggio a una formula di pensione anticipata come la quota 41 dei precoci.

 

Partita IVA, quando non si pagano i contributi?

Solitamente, il titolare di una partita IVA è tenuto al pagamento delle tasse e al versamento dei contributi. Tuttavia, in alcuni casi è possibile aprire la partita IVA senza pagare i contributi Inps. A questo punto, non ci resta che capire di quali ipotesi stiamo parlando, anche perché, uno dei maggiori timori che tormenta chi si vuole mettere in proprio aprendo una partita IVA, è rappresentato proprio dal versamento dei contributi INPS che vorrebbe evitare, in quanto costituisce una delle maggiori voci di spesa dei possessori della partita IVA.

E’ giusto premettere, che non esiste una riposta univoca a questo quesito, molto dipende dal tipo di attività che s’intraprende e della sua forma, se in veste di società, di ditta individuale o di libero professionista. Ma entriamo nello specifico.

Partita IVA: i casi in cui non si pagano i contributi previdenziali

Senza troppi preamboli o giri di parole tedianti quanto infiniti, ecco le ipotesi in cui chi decide di aprire una partita IVA non è tenuto al pagamento dei contributi previdenziali:

  • Quando si apre partita IVA per arrotondare i guadagni da lavoratore dipendente;
  • Se si pratica un’attività professionale senza albo di riferimento;
  • L’esistenza di accordi sulla previdenza e assistenza sociali con Stati esteri.

E adesso, analizziamo nel dettaglio i suddetti tre casi.

Aprire partita IVA senza pagare contributi INPS: il caso del lavoratore dipendente

Il lavoratore dipendente con contratto di lavoro a tempo pieno che decide di aprire una partita IVA per esercitare attività d’impresa che gli consenta di arrotondare la sua retribuzione, beneficia di una norma che lo esonera dal versamento dei contributi INPS (per l’esercizio di attività commerciali o artigianali). Ciò accade perché i contributi previdenziali sono già pagati dal datore di lavoro. Si presuppone che l’attività principale resti quella inerente il lavoro dipendente.

Tuttavia, per godere di questo esonero contributivo devono venire rispettate due condizioni:

  • L’attività svolta in modo autonomo deve rientrare tra quelle per cui è prevista la contribuzione INPS per gli artigiani ed in commercianti (gestione IVS INPS artigiani e commercianti);
  • Il contratto di lavoro dipendente deve essere full-time e non part-time, anche se, ci sono alcuni casi in cui l’esenzione è stata assicurata anche a lavoratori dipendenti con lavoro part time di 38 ore settimanali. La decisione è rimessa ai diversi uffici territoriali dell’INPS. Sostanzialmente è il singolo ufficio che decide se concedere l’esonero contributivo o meno.

Aprire partita IVA senza pagare contributi INPS: il caso del libero professionista

Il libero professionista viene esonerato dal pagamento dei contributi INPS solo nel caso eserciti un’attività professionale priva di albo di riferimento. Prendiamo ad esempio, i fotografi professionisti, i copywriter, i personal trainer, così come i promoter e le hostess. Si tratta di professioni prive di casse previdenziali e che sono tenute ad iscriversi e a versare i contributi alla Gestione Separata INPS.

Aprire partita IVA senza pagare contributi INPS: accordi previdenziali con stati esteri

Se non si guadagna, non si devono pagare i contributi: è questo il principio che vige per le attività professionali di cui sopra. Mettendo da parte questo caso, è possibile evitare di pagare i contributi previdenziali in Italia, quando si esercita senza profitto un’attività professionale sulla base di accordi presi tra l’Italia ed altri Paesi esteri. E’ il caso del professionista che esercitando all’estero è obbligato al versamento dei relativi contributi calcolati sul profitto alla previdenza del Paese di residenza.

Quest’ultima ipotesi è piuttosto rara, in quanto trovare due Paesi che trovino un accordo previdenziale di tal tipo non è affatto comune.

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Contributi Inps arretrati, come e quando possono essere pagati?

È possibile pagare contributi Inps arretrati? La risposta è affermativa e lo stesso Istituto previdenziale li classifica come “contributi da riscatto”. Sono versamenti che vengono accreditati a seguito della facoltà, concessa al lavoratore o al pensionato, di coprire periodi che, essendo privi di versamenti, rimarrebbero esclusi dalla contribuzione.

Contributi Inps da riscatto, cosa sono e quando vi è la possibilità di pagarli

Le casistiche per le quali si configurano periodi non coperti da versamenti previdenziali Inps e per le quali si apre la possibilità del riscatto comprendono:

  • l’eventuale omissione nel versamento all’Inps dei contributi obbligatori. Il pagamento di questi contributi permette il recupero di periodi che, altrimenti, rimarrebbero privi di versamenti;
  • l’inesistenza dell’obbligo del versamento dei contributi;
  • particolari disposizioni legislative.

Contributi Inps omessi, a cosa serve pagarli?

I contributi Inps non pagati e riscattati successivamente si collocano nel periodo al quale si riferiscono, anche se il pagamento avviene successivamente. Sono tre le utilità del pagamento dei contributi arretrati:

  • innanzitutto per maturare il diritto a tutte le prestazioni previdenziali;
  • in secondo luogo, il pagamento dei contributi arretrati permette l’accertamento ai fini del diritto alla prosecuzione volontaria;
  • infine, pagare i contributi omessi e prescritti ha utilità ai fini del diritto e della misura di tutte le prestazioni pensionistiche, inclusa la pensione di anzianità.

I contributi non versati all’Inps

I contributi riscattabili sono quelli riguardanti periodi di lavoro per i quali non c’è la copertura da contribuzione (contributi omessi) e per i quali non sussiste l’obbligo assicurativo perché prescritti. Contributi omessi e prescritti derivano dal mancato versamento:

  • del datore di lavoro per attività lavorativa subordinata;
  • del titolare di un’impresa artigiana o commerciale per i coadiuvanti;
  • dagli aderenti alla gestione separata Inps che non siano titolari di obbligo contributivo;
  • del titolare del nucleo coltivatore diretto, colono o mezzadro per i familiari coadiuvanti.

Quali periodi lavorativi senza contributi si possono riscattare?

Si possono riscattare i periodi senza contribuzione relativi:

  • al corso legale della laurea, della laurea breve e dei titoli di studio a esse equiparati;
  • all’attività lavorativa esercitata in Paesi esteri non convenzionati;
  • all’estensione facoltativa per la maternità che si colloca al di fuori del rapporto di lavoro;
  • agli anni di praticantato come promotore finanziario;
  • all’attività svolta con contratto co.co.co., ovvero di collaborazione coordinata e continuativa, per i periodi che precedono il 1° aprile 1996;

Quali altri periodi di lavoro si possono riscattare?

Ulteriori periodi da riscattare per la mancata copertura dei contributi previdenziali riguardano:

  • i periodi non lavorati successivi al 31 dicembre 1996 che sono privi di contributi secondo quanto disposto da specifiche norme di legge;
  • il lavoro svolto con contratti part time;
  • i periodi inerenti lo svolgimento di lavori socialmente utili. La copertura avviene per le settimane utili al calcolo della misura della pensione;
  • ulteriori periodi da riscattare previsti da specifiche norme di legge.

Chi può presentare la domanda di riscatto dei contributi Inps arretrati?

I soggetti ammessi a presentare domanda per il riscatto di contributi inerenti periodi lavorativi non coperti comprendono:

  • i lavoratori che sono iscritti all’assicurazione generale obbligatoria;
  • chi è iscritto a una delle gestioni speciali dei lavori autonomi;
  • i lavoratori iscritti alla gestione separata dei parasubordinati;
  • gli iscritti ai fondi speciali appartenenti all’Inps.

La domanda si presenta alla sede dell’Inps competente per territorio in base alla residenza. Alla domanda si allega anche la documentazione richiesta.

Quanto costa il riscatto dei contributi Inps omessi in periodi ricadenti nel retributivo?

Il riscatto dei contributi per periodi privi di versamenti è sempre oneroso, a differenza dei contributi figurativi che vengono accreditati gratuitamente. Se i contributi omessi riguardano periodi ricadenti nel sistema previdenziale retributivo, il calcolo di quanto si paga avviene con la riserva matematica. Il costo, dunque, è pari al differenziale annuo tra la pensione con il riscatto dei contributi e la pensione senza il riscatto. Al risultato occorre moltiplicare il coefficiente variabile per sesso, per età e per anzianità contributiva.

Costo contributi arretrati sistema contributivo e iscritti alla Gestione separata Inps

Ai contributi inerenti periodi lavorativi da riscattare e ricadenti nel sistema contributivo si applica l’aliquota contributiva in vigore nel momento in cui il lavoratore presenta domanda. L’aliquota va moltiplicata per gli stipendi percepiti nei 12 mesi che precedono la domanda stessa. Per chi è iscritto alla Gestione separata Inps il costo del riscatto prende in considerazione il valore medio mensile dei compensi soggetti alla contribuzione obbligatoria degli ultimi 12 mesi prima della domanda.

Contributi arretrati, l’importo da pagare per il riscatto è determinato dall’Inps

Il calcolo di quanto si paga per il riscatto dei contributi è, in ogni modo, effettuato dall’Inps. Infatti, nel provvedimento di accoglimento della domanda di riscatto, l’Istituto previdenziale specifica qual è l’importo da pagare. Il provvedimento di accoglimento viene notificato al contribuente tramite raccomandata.

Come si possono pagare i contributi arretrati Inps?

Il pagamento all’Inps dei contributi arretrati ai fini del riscatto si effettua usando i bollettini Mav inviati dall’Istituto previdenziale stesso con il provvedimento di accoglimento. I bollettini Mav si possono scaricare anche dal sito dell’Inps, nella sezione “Portale dei pagamenti”, accedendo ai “Riscatti, ricongiungimenti e rendite”. Nella stessa sezione si possono saldare i contributi omessi utilizzando la carta di credito. Si può pagare il riscatto dei contributi anche:

  • ai soggetti aderenti a “Reti Amiche”;
  • alle tabaccherie che aderiscono a “Reti Amiche”;
  • agli sportelli bancari di Unicredit;
  • attraverso il portale internet di Unicredit per chi è cliente della banca;
  • chiamando il contact center al numero 803 164 da rete fissa o 06 164 164 da rete mobile.

Quando si pagano i contributi arretrati?

Nel momento in cui il contribuente riceve il provvedimento di accoglimento della domanda ha 60 giorni di tempo per pagare in un’unica soluzione. In alternativa, il contribuente può richiedere il pagamento rateale dell’importo comunicato dall’Inps. Il pagamento a rate è concesso ai soggetti che non debbano utilizzare nell’immediato i contributi ai fini del trattamento di pensione. Se il contribuente non paga l’importo in un’unica soluzione o la prima rata del pagamento frazionato, l’Inps archivia la pratica come rinuncia.

Pagamento rateale dei contributi arretrati Inps

Il numero massimo di rate per il pagamento dei contributi omessi e prescritti è pari a 60. L’importo minimo mensile è pari a 27 euro. Per il riscatto di laurea, invece, l’Inps ammette il pagamento fino a 120 rate. Se durante le rate il contribuente va in pensione, l’importo residuo deve essere pagato in un’unica soluzione.

Contributi INPS: quando cadono in prescrizione?

“Prescrizione” sembra essere la parola magica quando si parla di mancati pagamenti, proprio quella situazione che spera si concretizzi a chi attende timorosamente un sollecito di pagamento poco gradito che infrangerebbe il suo auspicio. Come tutti i debiti, anche quelli relativi i contributi INPS possono cadere in prescrizione, che siano stati omessi o non dichiarati. Ma da quando decorre il termine di prescrizione e quanto dura?

Poiché la prescrizione ha una durata di cinque anni, così come lo è quella di tutti i contributi a prescindere dalle gestioni previdenziali, l’oggetto del contendere tra l’INPS e il contribuente resta l’inizio della decorrenza dei termini.

INPS e contribuente: posizioni diverse

Il motivo della contesa tra l’ente previdenziale e il contribuente risiede nel fatto che il primo, solitamente, invia gli avvisi di pagamento ai contribuenti per l’omissione dei versamenti dovuti, a ridosso della loro prescrizione, cosa che illude i mancati pagatori. Difficile capire perché l’INPS adotti questa consuetudine, ma un invio degli avvisi vicino al termine della prescrizione, induce il contribuente a verificare se il debito si sia già estinto o meno.

Come appena anticipato, i contributi INPS da dichiarazione si prescrivono in cinque anni: per azzerare il periodo di prescrizione l’ente previdenziale deve inoltrare una richiesta di pagamento, entro tale termine, al contribuente che ha omesso il pagamento dei contributi.

Il problema sorge nel momento in cui la richiesta di pagamento viene comunicata a ridosso della scadenza dei cinque anni. A questo punto, è d’obbligo stabilire quando parte realmente la decorrenza della prescrizione. In parole semplici: da quale giorno si deve considerare avviata la decorrenza della prescrizione?

Per questo motivo, è importante capire quando scatta la prescrizione per contributi non versati ma dichiarati, e quando, invece, per gli stessi contributi INPS non versati e nemmeno dichiarati.

La prescrizione dei contributi non versati ma dichiarati

L’INPS sostiene la posizione secondo cui, ai fini del conteggio della prescrizione per l’omesso versamento dei contributi previdenziali da dichiarazione, si debba prendere in considerazione che il momento iniziale la data d’invio della dichiarazione dei redditi, sia da considerare come il giorno a partire da cui è possibile, per gli enti demandati al controllo delle dichiarazioni, verificare l’avvenuto versamento di quanto dovuto.

Diversa la posizione dei contribuenti, per cui l’inizio del periodo di computo debba coincidere con la data di scadenza del versamento dovuto. La differenza tra le due posizioni è notevole, visto che nel sistema italiano i versamenti dei saldi da dichiarazione annuale scadono alcuni mesi prima dell’invio telematico del modello dichiarativo.

Sul contenzioso tra INPS e contribuente è intervenuta a più ripresa la Corte di Cassazione. A tal proposito, i giudici supremi con la sentenza n. 4899 del 23 febbraio 2021 chiariscono con testuali parolec cheil fatto costitutivo dell’obbligazione contributiva è costituito dall’avvenuta produzione, da parte del lavoratore autonomo, di un determinato reddito costituente la base imponibile per il calcolo del contributo” e che “la decorrenza del termine di prescrizione dipende dall’ulteriore momento in cui la corrispondente contribuzione è dovuta e quindi dal momento in cui scadono i termini di pagamento di essa”.

Quindi, è possibile dichiarare che la prescrizione dei contributi INPS da dichiarazione avviene in cinque anni a partire dal giorno in cui questi versamenti dovevano essere versati.

Meno definita la questione del contendere tra INPS e contribuente, quando i contributi previdenziali, non solo non sono stati versati dal contribuente, ma nemmeno dichiarati.

La prescrizione dei contributi non versati e non dichiarati

In tal caso sulla prescrizione pesa il punto 8 dell’art. 2941 del Codice civile, in base al quale la prescrizione resta sospesa tra il debitore che ha omesso volontariamente l’esistenza del debito e il creditore, fino a quando il dolo non sia stato scoperto. L’INPS ha così rafforzato la sua posizione, per la quale la prescrizione è sospesa sino a quando non emerga l’omissione, a seguito dell’ordinaria attività di controllo delle dichiarazioni dei redditi.

Ciononostante, la Corte di Cassazione con l’ordinanza 14410/2019 ha stabilito che “l’operatività della causa di sospensione della prescrizione, di cui all’articolo 2941, numero 8, Codice civile, ricorre quando sia posta in essere dal debitore una condotta tale da comportare per il creditore una vera e propria impossibilità di agire, e non una mera difficoltà di accertamento del credito”, che tale criterio “richiede di considerare l’effetto dell’occultamento in termini di impedimento non sormontabile con gli ordinari controlli”, e che “va pertanto affermato che la mancata denuncia del reddito non equivalga né ad un doloso e preordinato occultamento del debito contributivo da corrispondere all’INPS, né che essa configuri impedimento assoluto, non scongiurabile con i normali controlli che l’istituto può invece sempre attivare e sollecitare anche rivolgendosi all’Agenzia delle Entrate”.

Quanto stabilito dai giudici supremi con la sentenza sopra citata, è di fondamentale importanza interpretativa per l’oggetto del contendere: escludendo la legittimità dell’applicazione dell’articolo 2941 n. 8 del Codice civile, la Corte di Cassazione, di fatto, riporta la fattispecie (la prescrizione dei contributi INPS non versati e non dichiarati) all’interno dell’ordinario perimetro di prescrizione, che, anche in questo caso, sarà di cinque anni dalla data del versamento omesso.

In conclusione, nel contenzioso tra ente previdenziale e contribuente per quanto concerne il computo della prescrizione dei contributi non versati e non dichiarati, la giurisprudenza va nella direzione di salvaguardare, per quanto possibile, il contribuente piuttosto che l’INPS.

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Partita IVA per lavoratore dipendente: come cambia la contribuzione?

Anche un lavoratore dipendente può essere titolare di una partita IVA, avviando una seconda attività, ma ci sono dei limiti da rispettare.

Esistono molti lavoratori dipendenti impiegati a tempo indeterminato o determinato, che vogliono migliorare il proprio stile di vita o più semplicemente seguire, lavorando in proprio, una propria passione. Farlo non è sempre facile, tanto meno possibile. Cerchiamo di capirne il perché.

Lavoratore dipendente e partita IVA nel settore pubblico

Avviare un’attività extra, dipende se si lavora nel settore pubblico o in quello privato, o dall’orario dal tipo di impiego, a tempo parziale o pieno.

Se si svolge un pubblico impiego il lavoratore è tenuto a lavorare esclusivamente con l’ente datore di lavoro. Tuttavia, chi appartiene ai regimi speciali (docenti e dipendente part-time) dove il lavoro corrisponde alla metà di un’occupazione svolta full-time, fa eccezione.

A questo punto, diventa fondamentale il contratto di lavoro che deve prevedere o meno la disciplina che concilia il lavoro da dipendente pubblico con l’apertura di una partita IVA. Nel primo caso si configura l’impiego presso un ente pubblico, nel secondo caso si può trattare di un’impresa privata.

Spetta all’Amministrazione Pubblica concedere o negare la possibilità al proprio dipendente di svolgere una seconda attività (autonoma) a prescindere che si operi o meno con partita IVA. Tuttavia, esistono delle condizioni da rispettare:

  • l’incarico deve essere temporaneo e occasionale;
  • l’incarico non deve interferire con l’orario di lavoro svolto da dipendente;
  • non ci deve essere conflitto d’interesse;
  • l’attività deve essere svolta al di fuori del lavoro prestato alla Pubblica Amministrazione.

Nel caso il dipendente sia stato assunto con un contratto a tempo parziale pari al 50%, può svolgere un’attività extra ma sempre con il benestare del datore di lavoro.

Se, invece, l’impiegato pubblico lavora full time ma vuole avviare un’attività autonoma, può farlo ma sempre previo autorizzazione del datore di lavoro, chiedendo una diminuzione dell’orario di lavoro almeno del 50%.

Lavoratore dipendente e partita IVA nel settore privato

Anche il dipendente privato può svolgere una seconda attività di tipo autonomo, purché non sia in concorrenza con quella svolta principalmente. Può trattarsi di una ditta individuale o di un libero professionista. La clausola inerente la concorrenza è necessaria venga indicata nel contratto di lavoro, altrimenti, l’azienda non ha nulla da obiettare.

Nella pratica è comunque consigliato di mettere al corrente il proprio datore di lavoro privato della nuova situazione del suo dipendente, onde evitare di poter deteriorare il rapporto di fiducia tra le due parti, o addirittura di poter subire un licenziamento per giusta causa (per aver divulgato notizie private sull’azienda o danneggiandone l’immagine per un tornaconto personale).

Partita IVA per lavoratore dipendente: come cambia la contribuzione?

Con un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (almeno 26 ore settimanali), chi decide di avviare un’attività commerciale può non iscriversi alla Gestione Commercianti e Artigiani dell’INPS, purché la prima occupazione sia quella prevalente, ossia quella da cui deriva la maggior parte del reddito e del tempo impiegato nello svolgerla.

L’INPS invierà un avviso di iscrizione alla Gestione Commercianti e basterà rispondere con una comunicazione indicante l’attività prevalente, alla quale deve essere allegata l’ultima busta paga come verificare della propria posizione e al fine di evitare eventuali quanto probabili equivoci.

Chi scegliere di intraprendere un’attività da libero professionista è tenuto a iscriversi alla Gestione Separata INPS,. Tuttavia, il calcolo dei contributi sul reddito derivante dall’attività professionale avverrà con aliquota ridotta. Al posto dell’iscrizione alla GS Inps, è previsto l’obbligo di iscrizione all’Albo professionale, se presente, in quanto i contributi vanno versati alla relativa Cassa Previdenziale.

Nel caso di contratti di lavoro dipendente, ma a tempo determinato, sarà necessaria una valutazione del singolo contratto, così da determinare quale attività sia prevalente ai fini della contribuzione.

Neutralizzare contributi dannosi per la pensione: come funziona?

La riduzione dello stipendo, il ricorso alla cassa integrazione e i periodi di disoccupazione possono ridurre i contributi previdenziali. Come conseguenza, ne potrebbe risentire l’importo della futura pensione, ma è possibile neutralizzare i contributi svantaggiosi. Focus, dunque, sui contributi, l’elemento principale nel calcolo della pensione. Alcuni periodi contributivi infatti sarebbe meglio escluderli dal calcolo della pensione, come ad esemio i contributi figurativi.

Chi rischia l’assegno di pensione ridotto per i ‘contributi dannosi’?

La neutralizzazione dei contributi dannosi per la pensione futura riguarda, in primo luogo, i lavoratori che rientrano nel sistema previdenziale retributivo. La medesima situazione, invece, non si verifica se il lavoratore ricade nel mecacnismo previdenziale contributivo, con inizio di contribuzione a partire dal 1° gennaio 1996. La motivazione risiede proprio nel calcolo della pensione. Per il contribuente del regime retributivo, infatti, incidono principalmente gli stipendi percepiti negli ultimi cinque o dieci anni di lavoro.

Futura pensione in diminuzione per chi perde il lavoro prima dell’uscita

Ciò equivale a dire che, negli anni precedenti l’uscita da lavoro per la pensione, i contribuenti del sistema retributivo, in corrispondenza di stipendi più bassi, si vedrebbero calcolata la futura pensione sulla base di salari in diminuzione, anziché in aumento. Questa relazione è tanto vera quanto più penalizzante risulta per i lavoratori che perdono il proprio lavoro e percepiscono l’assegno di disoccupazione. A fronte di retribuzioni ridotte corrisponderà una pensione futura in diminuzione.

Contributi dannosi per il calcolo della pensione futura: i riferimenti normativi

I passaggi normativi rigurdanti la disciplina della neutralizzazione dei contributi “dannosi” ha radici molto indietro nel tempo. Inizialmente la questione è stata affrontata dall’articolo 37 del decreto del Presidente della Repubblica numero 818 del 26 aprile 1957. Infatti, nell’articolo si fa riferimento ai periodi da escludere in modo che non concorrano al calcolo della pensione nel quinquennio di riferimento, ovvero i periodi di:

  1. assenza facoltativa dal lavoro;
  2. lavoro subordinato all’estero;
  3. servizio militare;
  4. malatttia.

La sterilizzazione dei contributi penalizzanti

I successivi provvedimenti legislativi con la legge numero 297 del 1982 e il decreto legislatio numero 503 del 1992, nonché gli interventi della Corte costituzionale, sono andati nella direzione del riconoscere ai lavoratori, anche autonomi, la facoltà di sterilizzare gli eventuali contributi penalizzanti. In tal senso, è possibile non farli rientrere nel calcolo della futura pensione purché vengano accreditati una volta maturato il requisito contributivo richiesto per la pensione anticipata o per quella di vecchiaia.

Quali contributi si possono neutralizzare e in quali limiti?

Fatta la premessa del momento in cui si può attivare la sterilizzazione dei contributi penalizzanti, la legge riconoscere il meccanismo per un massimo di 260 settimane di contributi. Il limite fa riferimento ai periodi:

  • di rioccupazione con uno stipendio inferiore a qello che si percepita prima;
  • alla disoccupazione indennizzata.

Non vi sono limiti, invece, per la neutralizzazione dei seguenti contributi:

  • quelli riguardanti periodi figurativi di integrazione dello stipendio;
  • i periodi di contribuzione volontaria.

Domanda di neutralizzazione dei contributi penalizzanti

Spetta al lavoratore l’iniziativa di fare richiesta di neutralizzazione dei contributi penalizzanti. In particolare, la richiesta deve essere presentata all’Inps nel caso in cui il lavoratore ravvisi una decurtazione della pensione. In particolare, una volta raggiunti i requisiti della pensione di vecchiaia o della pensione anticipata, l’eventuale ed ulteriore montante di contributi accreditato può essere neutralizzato se dal calcolo dell’accredito risulti un nocumento sull’assegno di pensione.

Contributi da neutralizzare: il caso della retribuzione inferiore

Sul caso dei contributi da neutralizzare a causa di una retribuzione inferiore che possa produrre un assegno di pensione decurtato, è intervenuta l’Inps con la circolare numero 133 del 1997 e con il messaggio 12002 del 2006. La circolare, che si rifà alla sentenza della Corte Costituzionale numero 264 del 1994, recita: “In base ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza numero 264, l’esclusione dal calcolo della pensione dei periodi di retribuzione ridotta non necessari ai fini del perfezionamento dell’anzianità contributiva minima è finalizzata a evitare un depauperamento del trattamento pensionistico causato dallo svolgimento di un’attività lavorativa meno retribuita nell’ultimo quinquennio di lavoro”.

Il calcolo delle 260 settimane ai fini della confronto dei contributi

Ciò premesso, la circolare Inps specifica che: “La diminuzione della retribuzione deve essersi verificata nell’ultimo quinquennio di contribuzione, e cioe in coincidenza con il periodo di riferimento (le ultime 260 settimane di contribuzione) o nel corso di esso”. Al verificarsi di queste condizioni, l’applicabilità della sentenza numero 264 nel caso di cambiamento dell’attività lavorativa nell’ultimo quinquennio di contribuzione, necessita di “prendere a riferimento la retribuzione settimanale media percepita nell’anno di cessazione della precedente attività, calcolata sulla base delle retribuzioni percepite per tale attività, e metterla a confronto con la retribuzione media settimanale percepita nello stesso anno, calcolata sulla base delle retribuzioni percepite in relazione alla nuova attività lavorativa”.

Periodi da escludere dal calcolo della pensione

La circolare Inps detta, dunque, disposizioni in merito ai periodi da escludere dal computo della pensione. Infatti, come poi specificato dalla stessa Inps con il messaggio 12002 del 2006, “deve essere escluso dal computo della retribuzione pensionabile e dell’anzianità contributiva tutto il periodo di lavoro svolto a partire dal cambiamento di attività ovvero, in caso di riduzione retributiva avvenuta nell’ambito dello stesso rapporto di lavoro, tutto il periodo di lavoro svolto a partire dall’anno solare in cui è iniziata tale riduzione. In ogni caso non possono essere escluse dal computo più di 260 settimane di contribuzione”.

Contributi dannosi in caso di disoccupazione indennizzata

Sui contributi dannosi in caso di disoccupazione indennizzata è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza numero 82 del 2017. Nel caso di pensione retributiva non si conta il periodo di disoccupazione, se dannoso. Ovvero deve essere possibile, per il lavoratore, eslcudere i periodi in cui si sono percepiti contributi per disoccupazione.

La sentenza della Corte costituzionale sui periodi di disoccupazione

I periodi di disoccupazione andrebbero ad abbassare l’assegno pensionistico. La sentenza della Corte costituzionale ha stabilito, dunque, l’illegittimità del comma 8 dell’articolo 3, della legge 297 del 1982. Il provvedimento, infatti, non permetteva al lavoratore, che già avesse matrato il diritto alla pensione, di scorporare il periodo non lavorato coperto da disoccupazione.

Integrazione salariale ai fini della pensione nel retributivo

Non è soggetto al vincolo delle 260 settimane il caso dell’integrazione salariale. La circolare Inps numero 158 del 1996 prende in esame il lavoratore che percepisce, nell’ultimo periodo antecedente la decorrenza della pensione, il trattamento di integrazione salariale. In particolare, l’Inps stabilisce che: “La liquidazione dell’assegno pensionistico risulta determinata in misura sensibilmente più ridotta rispetto a quella che sarebbe derivata tenendo conto dei soli contributi obbligatori già versati e sufficienti, all’atto dell’ammissione all’integrazione salariale, a far conseguire il trattamento pensionistico di anzianità al raggiungimento dell’età pensionabile”.

Esclusione dei periodi di integrazione salariale

La circolare Inps disponde che “nei casi in cui nel periodo utile per il calcolo della retribuzione pensionabile, e cioè nelle ultime 260 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione, siano compresi periodi di contribuzione per integrazione salariale, la contribuzione per integrazione salariale non deve essere considerata a nessun effetto”.  Ne consegue che le pensioni con decorrenza posteriore al 31 dicembre 1992 devono essere calcolate senza tener conto dell’integrazione salariale.

Periodi di contribuzione volontaria

Rientrano nella casistica dei contributi dannosi anche quelli versati volontariamente dei quali parla l’Inps nella circolare 127 del 2000. In particolare, il ricalcolo della pensione e, dunque, la neutralizzazione dei contributi dannosi riguarda:

  • le pensioni a carico dell’assicurazione obbligatoria dei lavoratori dipendenti;
  • i lavoratori autonomi per il cumulo di contribuzione.

Il versamento dei contributi volontari, effettuato nell’ultimo quinquiennio di contribuzione, deve aver comportato una riduzione della pensione maturata sulla base dei contributi versati nella vita lavorativa.

Riscatto laurea per la pensione: si può interrompere?

Con il decreto legge numero 4 del 2019 sono diventati tre i metodi per il riscatto degli anni di laurea. Al riscatto ordinario e a quello per inoccupati, infatti, si è aggiunto il riscatto agevolato. Tutti e tre i metodi consentono al contribuente di ridurre il periodo che lo separa dalla pensione. Inoltre, il contribuente può ottenere un importo proporzionalmente più alto in base a quanto versato. Proprio la proporzione tra quanto versato ai fini del riscatto e gli effetti e aspettative sulla futura pensione confermano la possibilità di interrompere il pagamento delle rate previste per il riscatto stesso.

Quanto costa riscattare la laurea?

L’interruzione è valida per tutte e tre le tipologie di riscatto della laurea previste:

  • il riscatto ordinario;
  • quello riservato agli inoccupati;
  • il nuovo riscatto agevolato previsto dal decreto 4 del 2019.

In linea generale, con il riscatto ordinario si procedere al pagamento di un costo per il riscatto degli anni universitari variabile. Per chi rientri nel sistema retributivo, ovvero con contributi prima del 1995, il riscatto si calcola in base al sistema della riserva matematica. Tale meccanismo quantifica il beneficio sulla futura pensione considerando sia l’età che altre caratteristiche del contribuente.

Calcolo del riscatto di laurea ai fini della pensione

Per studi universitari che si collocano dopo il 1995 il calcolo di quanto costa il riscatto si ottiene da una formula matematica che prevede di moltiplicare il reddito dei 12 mesi precedenti la domanda per la percentuale di imponibile (per il lavoro alle dipendenze è del 33%). Il riscatto per gli inoccupati prevede, in maniera simile, l’applicazione della percentuale a forfait del 33%, pari all’imponibile figurativo del reddito minimo.

Col riscatto di laurea agevolato si paga poco più di 5 mila euro per ogni anno di studio

Il riscatto previsto dal decreto legge numero 4 del 2019 si chiama agevolato perché consente di pagare poco più di 5 mila euro per ogni anno da riscattare. In tutti i casi indicati, ci si chiede se il contribuente che abbia pagato un certo numero di rate del riscatto di laurea, possa sospendere il pagamento. E, in questo caso, se vedrà comunque riconosciuti i mesi pagati fino al momento della sospensione in vista di un assegno di pensione più alto e di una uscita prima dal lavoro.

Riscatto laurea per avere una pensione più alta: si può interrompere il pagamento delle rate

La risposta se il pagamento delle rate del riscatto di laurea si possa interrompere è positiva. Nel senso che il contribuente può interrompere il pagamento delle rate usufruendo dei benefici proporzionalmente a quanto già pagato. E, pertanto, ai fini della futura pensione, il contribuente si vedrà riconoscere il riscatto limitatamente agli anni per i quali ha versato quanto previsto. Inoltre, anche dopo l’interruzione del pagamento delle rate, il contribuente può decidere di riprendere i pagamenti con la rideterminazione delle rate.

Cosa succede se si interrompe di pagare il riscatto della laurea?

Nel caso in cui si decida di non pagare la prima rata, oppure l’unica rata se si è scelto di versare quanto dovuto per il riscatto della laurea in un’unica soluzione, la domanda decade. Nel caso in cui, invece, non si pagano le rate successive, sarà l’Inps a interrompere gli effetti della domanda di riscatto laurea. Tuttavia, i periodi per i quali sono stati effettuati i pagamenti rimangono validi ai fini della futura pensione.

Riscatto parziale della laurea, cosa succede alla futura pensione?

La rinuncia a pagare la prima (o unica) rata del riscatto della laurea, o l’interruzione successiva non preclude mai la possibilità di procedere con una nuova domanda di riscatto. Inoltre, è importante ricordare che il riscatto può essere parziale, anche di una sola settimana. E può essere richiesto in più momenti, sempre per la parte residua non ancora saldata.

Coefficienti di trasformazione, come influiscono sull’assegno di pensione?

Il calcolo delle pensioni del meccanismo contributivo implica un equilibrio tra il montante dei contributi che si sono versati durante la vita lavorativa e l’importo della pensione attesa. Questa equivalenza necessita, dunque, dell’applicazione di coefficienti di trasformazione, cioè di parametri che, moltiplicati per il montante dei contributi rivalutati, determinano l’assegno di pensione maturato in corrispondenza dell’età dell’uscita da lavoro.

Prestazione pensionistica e assegno futuro di pensione legato alla speranza di vita

Il coefficiente di trasformazione delle pensioni implica anche una componente aleatoria, dipendente dalla speranza di vita attesa all’età di uscita da lavoro. L’aumento della speranza di vita, e dunque il numero di anni sul quale spalmare la futura pensione, determina una conseguente riduzione della prestazione pensionistica. Viceversa, una speranza di vita in diminuzione implica (come sta avvenendo a causa della Covid) un assegno pensionistico più elevato.

Sistema pensionistico ed equilibrio dei coefficienti di trasformazione

Il sistema previdenziale contributivo si basa essenzialmente sul coefficiente di trasformazione per determinare, in maniera equa, il futuro assegno di pensione. Un aumento o una diminuzione accentuati della speranza di vita determinerebbe uno squilibrio finanziario direttamente proporzionale al numero, rispettivamente maggiore o minore, di assegni mensili. In linea di massima, il sistema previdenziale si può equilibrare agendo su tre fattori:

  • innalzando il valore dei contributi;
  • aumentando l’età di uscita per il pensionamento;
  • diminuendo i coefficienti di trasformazioni e quindi riducendo il valore del mensile di pensione.

Riequilibrio del sistema previdenziale

L’aumento del valore dei contributi è una soluzione impraticabile data la pressione alla quale è sottoposta, al giorno d’oggi, la previdenza italiana. Pertanto, la revisione periodica dei coefficienti di trasformazione, oltre ad agire sull’età del pensionamento, rappresenta il meccanismo tramite il quale il sistema previdenziale provvede al riequilibrio. Ovvero all’equilibrio tra i contributi versati, l’età di uscita per il pensionamento e la rata della prestazione previdenziale.

Coefficienti di trasformazione, più si anticipa la pensione più sono bassi

Analizzando i coefficienti di trasformazione si può notare che, fin dalla loro introduzione nel 1995, i parametri sono più bassi quanto più bassa è l’età di uscita per il pensionamento. Contrariamente, più si esce a un’età avanzata, più i coefficienti sono elevati. Dunque, una prima osservazione porta a concludere che più si beneficia di meccanismi di pensione che fanno abbandonare prima il lavoro e minore sarà l’assegno futuro di pensione. Ciò dipende sia dal minor numero di anni di contributi versati (ad esempio 38 anni, quanti ne richiede la quota 100 rispetto ai circa 43 della pensione anticipata), ma anche dal coefficiente di trasformazione. Che, all’età di 62 anni, quella minima della quota 100, fa corrispondere un indice più basso dei 67 anni richiesti per la pensione di vecchiaia.

Coefficienti di trasformazione, diminuiscono a ogni aggiornamento

La seconda considerazione che si può fare sui coefficienti di trasformazione è quella secondo la quale gli indici sono decrescenti nel tempo. Ovvero, i valori dei coefficienti diminuiscono a ogni revisione che, attualmente, si fa ogni due anni. Considerando l’età di uscita dei 67 anni, quella per la pensione di vecchiaia, nel periodo dal 1995 al 2009 il coefficiente di trasformazione era pari a 6,136%. Da notare che fino al 2009, il coefficiente di trasformazione dai 65 anni in su era sempre lo stesso. Attualmente, l’Inps determina il coefficiente sulla base dei dati demografici Istat dai 57 ai 71 anni di età.

Qual è l’attuale coefficiente di trasformazione per le pensioni di vecchiaia?

Con i valori in vigore dal 1° gennaio 2021, chi va in pensione a 67 anni ha un coefficiente pari a 5,575%, ancora più basso del 5,604% del biennio precedente, ovvero il 2019-2020. Considerando l’età minima per la quota 100, i 62 anni, l’attuale coefficiente è pari a 4,770%, meno del precedente aggiornamento (4,790% del 2019-2020) e infinitamente inferiore a quello del 1995-2009 pari a 5,514%.

Coefficienti di trasformazione, aggiornamento periodico

La costante diminuzione dei coefficienti di trasformazione a ogni aggiornamento può portare i contribuenti a uscire da lavoro alla prima data utile possibile. Da un lato, infatti, è vero che più si esce tardi e più il coefficiente di trasformazione è alto. Ma, dall’altro lato, è altrettanto vero che il coefficiente diminuisce ogni due anni, cioè ad ogni aggiornamento. per ciascuna età di uscita. E i requisiti di uscita, ovvero l’età minima richiesta o i contributi minimi versati, sono sempre più in aumento. La riforma delle pensioni di Elsa Fornero del 2011 aveva previsto il ricalcolo dei coefficienti dapprima ogni tre anni e poi, dal 2019, ogni due. E, di conseguenza, anche una diminuzione del mensile di pensione a una rotazione più elevata.

Esempio di calcolo dei coefficienti di trasformazione

La relazione tra coefficienti di trasformazione, aspettativa di vita e montante contributivo può essere spiegata con un esempio. Ammettiamo un contribuente che, nella vita lavorativa, abbia accumulato 280 mila euro di montante contributivo. È interessante verificare di quanto è diminuita la pensione del contribuente nel tempo a parità di età di uscita, ovvero a 67 anni. Innanzitutto, è indispensabile verificare le variazioni della speranza di vita, mediamente di 77,88 anni nel periodo 1995-2009 e di 83,25 nel 2019-2020 (calcolo pre-Covid). Per continuare a crescere, secondo le stime demografiche, a quasi 86 anni nel 2040 e a quasi 88 anni nel 2060.

Coefficienti di trasformazione, come influiscono sul mensile di pensione

In costante diminuzione risulta il coefficiente di trasformazione a 67 anni per i quattro periodi considerati. Nel 1995-2009 risulta pari a 6,136%, nel 2019-2020 è del 5,604%, nel 2040 corrispondente a 5,202% e nel 2060 pari a 4,994%. Considerando le 13 rate annuali di pensione e il montante di contributi di 280 mila euro per tutti e quattro i periodi considerati, a una pensione di 1.332 euro del 1995-2009 corrisponde un assegno mensile di 1.207 euro del periodo 2019-2020. Nell’esempio, il montante contributivo di 280 mila euro deve essere moltiplicato per il coefficiente di trasformazione corrispondente all’anno e all’età di uscita (6,136% del 1995-2209). Il risultato va diviso per 13 mensilità per ottenere il mensile di pensione (1.332 euro). Ulteriormente in diminuzione la pensione mensile nel 2040 (pari a 1.120 euro) e nel 2060 (1.076 euro).

Quanto incide la speranza di vita sulle pensioni?

Come si può notare dall’esempio, dunque, le pensioni sono mediamente più basse a parità di montante contributivo versato. E, come facilmente intuibile, questo dipende da più fattori. In primo luogo da una speranza di vita sempre crescente e quindi su un numero di anni più elevato per spalmare la vita da pensionato. L’attuale situazione di alta mortalità tra i pensionati per la Covid rappresenta, statisticamente, un evento eccezionale che ha ridotto la speranza di vita anche di anni. Ad esempio, in alcune zone della Lombardia, si sono persi mediamente cinque anni di aspettativa di vita. E nelle altre parti d’Italia, in attesa di dati più aggiornati, la perdita si attesta su uno, due o anche tre anni. Ma, passata l’emergenza, la speranza di vita tornerà a crescere e a ristabilirsi a livelli pre-Covid presumibilmente a partire dal 2025-2026.

Con la speranza di vita in calo si bloccherà l’età di uscita per la pensione?

In secondo luogo, la diminuzione della speranza di vita potrebbe incidere, nei prossimi anni, anche sul mancato aggiornamento dell’età di uscita per la pensione. Presumibilmente, l’età dei 67 anni per la pensione di vecchiaia potrebbe non subire variazioni anche nel prossimo biennio, nel 2022-2023. Anziché aumentare di 3 mesi come avrebbe dovuto essere seguendo le stime demografiche prima della Covid.

Perché le pensioni diminuiscono sempre?

Quanto è presumibile possa avvenire per l’età di uscita delle pensioni, con un blocco per almeno il prossimo biennio, potrebbe succedere anche ai coefficienti di trasformazione. Ovvero che la diminuzione della speranza di vita sulla quale si basa la determinazione dei coefficienti possa subire uno stop nei prossimi anni e per un periodo limitato, in conseguenza di quanto sta avvenendo per l’emergenza Covid. In ogni caso, con il tornare a crescere della speranza di vita anche i coefficienti di trasformazione torneranno a diminuire conseguentemente. E a determinare assegni di pensione sempre più ridotti a parità di anni di contributi versati e di età di uscita.

Contributi INPS e modello F24: : come si possono pagare?

I contributi Inps e modello F24 viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda. Ecco come pagarli utilizzando il modello F24.

Contributi INPS e modello F24: la riscossione unificata dei contributi

Con il decreto legislativo n. 241/97 è stata introdotta la riscossione unica dei tributi e dei contributi. Questa riguarda dei punti importanti che sono:

  • i termini e la modalità di versamento;
  • utilizzo del modello F24 per effettuare il pagamento;
  • la possibiltà di effettuare una compensazione tra i debiti ed i crediti in capo al contribuente.

Tuttavia il modello F24 ha definitivamente scansato il bollettino postale. Ed infatti è possibile pagare moltissimi tributi, anche regionali e comunali. Tra questi non possono mancare anche i contributi INPS.

Contributi INPS e modello F24: quando si pagano i contributi?

Gli artigiani ed i commercianti sono tenuti a pagare i contributi INPS attraverso il modello F24. Questi versamenti si eseguono 4 volte l’anno:

  • 16 maggio;
  • 20 agosto;
  • 16 novembre
  • 16 febbraio dell’anno successivo.

In caso di prima iscrizione, ma solo per il primo anno, è possibile che l’Inps invii una emissione differita. Le scadenze sono previste sono quelle successive al 16 maggio. Inoltre i tributi dovuti sul reddito eccedente il minimale, devono essere versati entro i termini previsti per il pagamento dell’IRPEF. Tuttavia salvo proroghe, il saldo che risulta dal modello Redditi Pf e l’eventuale prima rata di acconto devono essere versati entro il 30 giugno dell‘anno in cui si presenta la dichiarazione. Ma anche entro i successivi 30 giorni pagando una maggiorazione dello 0,40%.

Come si compila la sezione INPS del modello?

La compilazione del modello F24, in materia di contributi INPS, prevede di indicare alcune voci. La prima è il codice sede, presso cui è aperta la posizione contributiva. E’ da indicare la causale di versamento del contributo, secondo la seguente tabella indicata sul sito INPS.

Descrizione causale Causale per artigiani Causale per commercianti
Pagamento contributi dovuti sul minimale di reddito AF CF
Pagamento contributi eccedenti il minimale di reddito (a debito) AP CP
Indicazione dell’importo versato in eccedenza sui contributi eccedenti il minimale di reddito risultanti dalla dichiarazione dei redditi (a credito) AP CP
Pagamenti rateale dei contributi dovuti eccedenti il minimale APR CPR
Contributi richiesti dall’INPS per prima emissione di modello F24 che recupera anche anni precedenti
Descrizione causale Causale per artigiani Causale per commercianti
Contributi dovuti sul minimale di reddito anni pregressi AFP CFP
Contributi dovuti sul reddito eccedente il minimale anni pregressi APP CPP
Contributi scaduti oggetto di regolarizzazione (da avviso di pagamento)
Descrizione causale Causale per artigiani Causale per commercianti
Pagamento per intero dei debiti segnalati con avviso di pagamento AR ARN CR CRN
Pagamento debiti contributivi eccedenti il minimale di reddito a seguito di accertamento con adesione derivante da accertamenti dell’Amministrazione Finanziaria APMF CPMF
Pagamenti rateizzati a seguito di domanda di dilazione in fase amministrativa

Fonte: tabella Inps https://www.inps.it/prestazioni-servizi/f24-per-artigiani-e-commercianti

Le altri voci da compilare

Tra gli altri elementi da indicare vi è il Codice INPS. Si tratta di un codice di 17 caratteri che rappresenta un identificativo personale. Tuttavia consente l’accesso ai servizi online dell’Istituto, in base alle caratteristiche anagrafiche dell’utente. Grazie a questo riconoscimento, ogni utente può usufruire dei servizi a lui dedicati. E’ da non dimenticare il periodo di riferimento “da” e “a” con mese ed anno di inizio e fine contribuzione. Infine gli importi a debito o a credito. Anche in questo caso è però prevista la compensazione tra ciò che si deve versare ed eventualmente ciò che si deve ricevere. Il pagamento può essere effettuato presso gli sportelli bancari convenzionati o postali.

 

 

 

Come pagare contributi Inps in ritardo?

Per svariati motivi, accade di non pagare i contributi INPS dovuti a seguito di un’attività lavorativa svolta che ne prevede il versamento. A questo punto, cosa succede e come provvedere al loro pagamento in ritardo?

Le conseguenze del mancato pagamento dei contributi INPS

Il mancato versamento dei contributi dovuti all’INPS fa scattare una sanzione pecuniaria, anche se la notifica dell’omesso pagamento non viene notificata in breve tempo, in quanto avviene a seguito di un accertamento che non è immediato.

La notifica da parte dell’INPS che segnala il mancato versamento dei contributi è comprensivo dell’importo dovuto con l’aggiunta di una sanzione e di una percentuale di interessi. Quest’ultimi sono ormai assai ridotti, per cui sul pagamento ritardato inciderà davvero solo la sanzione. Nel caso in cui il contribuente, nonostante l’avviso ricevuto non provveda al pagamento delle somme dovute a titolo contributivo, farà scattare l’emissione di una cartella esattoriale con iscrizione a ruolo.

Al fine di evitare il pagamento di una somma di denaro molto più alta dell’ammontare dei contributi non versati, è preferibile provvedere al loro versamento dopo aver ricevuto la prima notifica.

Se il contribuente ha difficoltà economiche può scegliere e ottenere una rateizzazione del debito da parte dell’Istituto di Previdenza Sociale. In caso l’importo da pagare sia inferiore ai 5.000 euro, è possibile versare il dovuto in sei rate, se la cifra da pagare è superiore ai 5.000 euro è possibile suddividerla in venti rate. A prescindere dal tipo di rateizzazione, ci saranno degli interessi da pagare sui contributi arretrati.

Condoni e prescrizione debito INPS

Se si è fortunati, si può usufruire di eventuali condoni previdenziali, i quali, però, vengono concessi da alcuni governi solo in casi rari e particolari. In presenza di tali sanatorie, il debito verso l’INPS non viene cancellato, ma viene depennata la sanzione oppure si concede al contribuente inadempiente la possibilità di saldare l’intero debito in misura ridotta.

Per quanto concerne la prescrizione per il mancato versamento dei contributi INPS, essa scatta una volta decorsi cinque anni ma solo nel caso non sia stata inviata alcuna notifica. Infatti, in caso di avviso o emissione di cartella esattoriale nel corso dei cinque anni, il termine di prescrizione riparte da zero.

Come pagare i contributi INPS in ritardo

Qualora il contribuente che abbia contratto un debito verso l’INPS voglia provvedere in ritardo al pagamento dei contributi non versati, può inoltrare una comunicazione all’Istituto. Tale operazione prende il nome di ravvedimento operoso e prevede l’accollo di una sanzione minore che viene calcolata in base ai giorni di ritardo e all’ammontare dell’omesso versamento. Ma entriamo nel dettaglio, ricordando che la percentuale della sanzione è giornaliera.

  • Il ricorso al ravvedimento operoso prevede una sanzione pari allo 0,1% dei contributi non versati, ma solo se il pagamento avviene entro 14 giorni dalla scadenza fissata;
  • Se il pagamento dei contributi INPS avviene entro un mese dalla scadenza prevista, la sanzione è pari all’1,5% dell’importo dovuto originariamente;
  • Il pagamento che avviene dopo 30 giorni, ma entro 90 giorni dalla scadenza, deve essere comprensivo di una sanzione pari all’1,67% dei contributi non versati;
  • Se sono passati più di 90 giorni dalla scadenza prevista per il pagamento dei contributi, ma comunque entro un anno, la sanzione applicata al versamento è pari al 3,75%;
  • Se il ravvedimento operoso viene effettuato entro due anni dalla scadenza, la sanzione è pari al 4,29%;
  • Trascorsi oltre due anni dalla scadenza dei contributi INPS dovuti, la sanzione raggiunge il 5% dell’importo originario.

Come accennato in precedenza, alla sanzione prevista vanno aggiunti gli interessi legali che attualmente sono pari allo 0,01%.

Sanzioni in caso di mancato ravvedimento operoso

In caso di mancata esecuzione di un ravvedimento operoso, l’importo della multa al momento dell’avviso bonario (primo avviso inoltrato dall’INPS) ammonta al 10% dell’imposta non versata, ma tale sanzione dovrà essere pagata insieme all’importo omesso entro 30 giorni dalla notifica di pagamento.

Nel caso in cui il contribuente non provveda al pagamento entro 30 giorni o non richieda la rateizzazione del mancato pagamento e della sanzione, riceverà una cartella esattoriale con una sanzione pari al 30% dell’importo dovuto.

Tutti i contribuenti, che siano titolari o meno di partita IVA, per il pagamento dei contributi, ma anche di tributi e premi, devono utilizzare il modello F24.

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