Condominio, se il vicino fa rumore non serve la perizia per il risarcimento

Storica sentenza della Corte di Cassazione: se dall’appartamento del vicino arrivano rumori molesti dovuti a lavori di ristrutturazione, non c’è bisogno di una perizia che determini se sono superati i decibel previsti per la tollerabilità, ma basta la testimonianza.

Risarcimento danni se il vicino fa rumore, non serve una consulenza tecnica

L’articolo 659 del codice penale prevede il reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone. L’importante novità che arriva direttamente dalla corte di Cassazione, sentenza 7717 del 22 febbraio 2024, è che per provare il fatto non occorre consulenza tecnica fonometrica. Il giudice può formulare la sentenza sulla base delle testimonianze di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti delle immissioni sonore, percepite come tali da superare il limite della normale tollerabilità.

La sentenza è particolare perché serve semplicemente a fissare questo principio. Il condomino agisce in giudizio perché ritiene che nell’eseguire i lavori edili il vicino avesse arrecato disturbo dovuto ai rumori. Nel caso in oggetto però non vi sono prove del fatto che i lavori fossero portati avanti anche nelle fasce orarie in cui il regolamento condominiale inibisce l’esecuzione dei lavori. Inoltre il vicino di casa, occupante l’appartamento sottostante dichiara che i rumori non sono a lui apparsi molesti o intolleranti.

I principi della Corte di Cassazione: non serve la perizia per provare che i rumori sono molesti

La Corte fissa alcuni principi. In particolare ribadisce che anche la sola prova per testimoni può essere all’origine di una condanna. La Corte di Cassazione ribadisce che primo luogo è necessaria la produzione (da parte dell’imputato) di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte sonora, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio.

In secondo luogo non occorre il rilievo fonografico per verificare se i rumori sono molesti. Specifica la sentenza “l’attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, ma ben può il giudice fondare il suo convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità”.

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Querela contro il datore di lavoro giustifica il licenziamento

Importante pronuncia della Corte di Cassazione, una querela contro il datore di lavoro può essere a base del licenziamento. Ecco in quali casi.

Rischia il licenziamento il lavoratore che presenta una denuncia falsa

La querela è un importante strumento dato al cittadino per denunciare comportamenti illeciti nei propri confronti, ad esempio se Tizio mi picchia io posso presentare denuncia in quanto le percosse sono reato. La querela deve però essere utilizzata in modo consono e può portare anche conseguenze importanti. Ad esempio, nell’ambito del diritto del lavoro se il datore di lavoro ha comportamenti illeciti nei confronti di un dipendente, come nel caso di molestie, è possibile presentare querela e nel caso in cui il giudice riconosca le ragioni del lavoratore non si può licenziare il dipendente, sarebbe una ritorsione.

Cosa succede invece se il giudice riconosce che il datore di lavoro non ha commesso il fatto denunciato dal lavoratore?

Questo è un caso interessante ed è stato trattato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 30866/2023.

Il caso, denuncia falsa giustifica il licenziamento per giusta causa

Nel caso in oggetto il lavoratore presenta querela contro il datore di lavoro per appropriazione indebita delle somme Tfr. Le accuse si rivelano infondate, ma soprattutto emerge dal procedimento che il lavoratore era consapevole del fatto che tali accuse fossero infondate. Scatta quindi il reato di calunnia che il datore di lavoro a sua volta denuncia. In questo caso siamo di fronte alla strumentalizzazione della denuncia in violazione dell’obbligo del dovere di fedeltà previsto dall’articolo 2105 del codice civile e i principi di correttezza e buona fede degli articoli 1175 e 1375 Cc.

A ciò si aggiunge che una denuncia penale infondata rappresenta un abuso nell’uso di strumenti del processo che, come sappiamo, determina delle spese a carico delle casse dello Stato.

Da qui arriva la pronuncia della Corte di Cassazione che può essere considerata storica, infatti, generalmente se anche un lavoratore denuncia il datore di lavoro e risulta soccombente, non vi è il diritto a licenziare da parte del datore di lavoro, ma solo se la parte non ha agito in malafede ma per un errore di fatto o di diritto, cioè senza premeditare di danneggiare il datore di lavoro con accuse false e infondate.

Nel caso in oggetto essendovi stata una calunnia, è legittimo il licenziamento in tronco (licenziamento per giusta causa) in quanto è venuto meno il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore.

Ricordiamo che affinché si possa configurare la calunnia è necessario il dolo, cioè l’aver agito con lo scopo di danneggiare il datore di lavoro, nel caso in cui il giudice dovesse rigettare il ricorso del lavoratore per insufficienza di prove, non scatta il reato di calunnia.

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Parcheggiare nel condominio è reato, ecco cosa si rischia

Quante volte è capitato di arrivare nel parcheggio del proprio condominio e accorgersi che il proprio posto auto è stato occupato? E allora tocca fare il giro del quartiere alla ricerca di un posto temporaneo fino a quando non si libera il proprio. Il fatto diventa ancora più fastidioso se la sosta è molto lunga, ma ora c’è una novità, infatti la Corte di Cassazione in una recente sentenza ha stabilito che parcheggiare nel cortile del condominio è reato, anzi chi lo fa commette due reati. Vediamo cosa si rischia parcheggiando nelle aree condominiali.

Violazione di domicilio se si parcheggia nell’area di sosta del condominio

La sentenza 31700, del 20 luglio 2023 della Sezione Penale della Corte di Cassazione può essere considerata storica, infatti stabilisce che chi parcheggia senza autorizzazione nel cortile condominiale può essere denunciato per due reati: violazione di domicilio e invasione di edifici.

Nel caso in oggetto un professionista, pur avendo ricevuto la revoca dell’autorizzazione a parcheggiare da parte dell’amministratore di condominio, aveva continuato a sostare con l’auto o la moto dell’area condominiale.

La Corte di Cassazione ha sottolineato che l’articolo 614 del codice penale stabilisce che il cortile rientra nella nozione di “appartenenza” dell’abitazione e chiunque vi sosta contro la volontà di coloro che hanno il diritto di escludere qualcuno da tale beneficio, commette reato di violazione di domicilio.

Inoltre, ha sottolineato che vi è violazione dell’articolo 633 del codice penale che prevede il reato di invasione di terreni o edifici, prevede infatti “chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032”.

Nel caso in oggetto le parti avevano allegato foto della sosta e la delibera dell’assemblea che escludeva il diritto per il professionista, che aveva un contratto di locazione del solo studio, all’utilizzo dell’area di sosta pertinenziale all’edificio.

La sentenza va quindi a tutelare i condomini proteggendo il loro diritto ad escludere altri soggetti dall’uso degli spazi comuni.

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Omesso versamento contributi, è reato anche se l’azienda versa in gravi condizioni

La sentenza è di quelle destinate a far discutere molto, infatti la Corte di Cassazione in una recente pronuncia ha evidenziato che l’omesso versamento di contributi previdenziali e assistenziali è reato anche nel caso in cui lo stesso è frutto di una condizione economica aziendale molto grave in cui il datore di lavoro ha dovuto scegliere tra il versamento dello stipendio e quello dei contributi.

Omesso versamento di contributi è sempre reato

La sentenza oggetto di analisi è la 23945 del 5 giugno 2023.

L’omesso versamento di contributi previdenziali e assistenziali è considerato dal nostro ordinamento un reato a dolo generico, affinché si configuri basta che colui che non adempie abbia la consapevolezza del fatto che sta tenendo un comportamento considerato reato.

Nel caso in oggetto il ricorrente impugna una sentenza di secondo grado davanti alla Corte di Cassazione, ultimo grado di giudizio, affermando di non aver effettuato le ritenute e i versamenti relativi ai contributi previdenziali e assistenziali perché l’azienda si è trovata all’improvviso in una grave situazione economica contingente, imprevista e imprevedibile e di avere in tale situazione preferito pagare gli stipendi.

Di conseguenza secondo il ricorrente ha errato il giudice di secondo grado nel momento in cui ha valutato l’omissione del versamento contributivo quale scelta consapevole e quindi ha visto il dolo generico.

Le difficoltà economiche non escludono l’illecito

I giudici hanno sottolineato che tra l’omesso versamento degli stipendi e l’omesso versamento dei contributi è reato maggiormente grave il secondo in quanto assistito da una tutela penalistica attraverso la previsione di una fattispecie incriminatrice.

Secondo il giudice il datore di lavoro era tenuto ad accantonare le somme per i pagamenti dei contributi quindi il richiamo a fatti sopravvenuti non prevedibili non può essere considerata come esimente in quanto il rappresentante legale ha scelto liberamente di destinare le liquidità residue disponibili a finalità diverse rispetto al versamento dei contributi.

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Fermo amministrativo, arriva il risarcimento del danno

Importante pronuncia della Corte di Cassazione, con ordinanza 13173 del 15 maggio 2023 si riconosce il diritto al risarcimento del danno per il fermo amministrativo. Ecco chi può ottenerlo.

Risarcimento del danno per il fermo amministrativo, il caso

L’ordinanza che ora andremo a vedere ha una portata storica, perché sanziona il comportamento illegittimo dell’Agenzia Entrate e Riscossione (Ader) e tutela il contribuente, vittima di una violazione delle norme dettate in materia di fermo amministrativo.

La procedura per il risarcimento del danno da fermo amministrativo prende il via dal ricorso di un professionista avverso l’Agenzia Entrate Riscossione per illegittima sottoposizione a fermo amministrativo di un proprio veicolo in seguito a sospensione del provvedimento da parte dei giudice di pace. Nonostante tale sospensione, il professionista per anni non ha avuto la disponibilità del proprio veicolo.

Secondo la difesa del professionista il danno non sarebbe derivato solo dalla mancata disponibilità del mezzo, ma anche dall’usura causata dal tempo che ha portato il mezzo a perdere valore.

La Corte di appello aveva accolto il ricorso del professionista inerente l’illegittimità del fermo amministrativo, non aveva però accolto le richieste risarcitorie. Il rigetto era fondato sul fatto che, secondo il giudice di secondo grado, il professionista non aveva sufficientemente provato il danno patito, inoltre in dibattimento era mancata la prova del fatto che il professionista nel frattempo aveva dovuto provvedere a procurarsi un altro veicolo sostitutivo attraverso il noleggio o un nuovo acquisto.

Corte di Cassazione: il fermo amministrativo illegittimo deve essere risarcito

Di conseguenza il professionista si rivolge alla Corte di Cassazione. Questa riconosce le ragioni del ricorrente. Sottolinea che il “danno da fermo amministrativo illegittimo coincide con una situazione di materiale indisponibilità del bene, a fronte della quale varie sono le voci di danno delle quali può essere chiesto il risarcimento”.

La Corte ritiene che per questa tipologia di danno, la parte può provare lo stesso anche ricorrendo a presunzioni, non occorre quindi la prova delle spese sostenute per far fronte alla indisponibilità del veicolo, Inoltre, secondo la Corte di Cassazione la parte ha sufficientemente provato la diminuzione del valore del veicolo sottoposto a perdita e di conseguenza anche tale danno deve essere risarcito.

Infatti ha dimostrato il valore del bene al momento del fermo amministrativo illegittimo e il valore successivo, cioè il prezzo di vendita dello stesso al momento in cui il bene è stato liberato dal vincolo, dimostrando così l’entità della perdita.

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Accertamenti fiscali: i movimenti in conto corrente sono ricavi occulti

Il 24 aprile 2023 c’è stata un’importante pronuncia della Corte di Cassazione inerente i movimenti in conto corrente che, secondo gli ermellini, devono essere considerati ricavi e di conseguenza trattati come tali in sede di accertamenti fiscali.

I movimenti in conto corrente sono ricavi occulti oggetto di accertamenti fiscali

L’Ordinanza 10817 della Corte di cassazione del 24 aprile 2023 sottolinea un importante principio previsto dal nostro legislatore e che può avere conseguenze particolarmente rilevanti per i contribuenti.

L’articolo 32 del Dpr 600 del 1973 stabilisce che i prelevamenti e i versamenti in conto corrente devono essere imputati a ricavi. Di conseguenza in fase di accertamenti fiscali l’Agenzia delle entrate può considerare tassabili tali movimenti in quanto considerati ricavi occulti e costi occulti.

Resta la facoltà da parte del contribuente di dimostrare il contrario. Sottolinea l’ordinanza che in assenza di un divieto espresso, resta in questa materia il principio di libertà dei mezzi di prova, questo vuol dire che il contribuente non è obbligato a fornire una prova scritta o testimoniale inerente la natura dei versamenti per dimostrare che non si tratta di ricavi, ma può fornire qualunque mezzo di prova e può avvalersi anche di presunzioni semplici per dimostrare la diversa natura di tali movimenti di denaro.

Spetterà quindi al giudice un’attenta verifica di tutti gli elementi portati dal contribuente al fine di determinare la disciplina a cui sottoporre tali ricavi.

Naturalmente il giudice non può non avere in considerazione il dettato normativo, il quale stabilisce che quando la prova viene data attraverso indizi o presunzioni, tali elementi devono essere gravi, precisi e concordanti.

Nel caso dei movimenti bancari, il giudice deve avere in considerazione il lasso temporale che caratterizza i versamenti, la loro entità e il contesto complessivo. Il contribuente nel fornire la prova non deve limitarsi ad affermazioni apodittiche, generiche e sommarie, ma deve essere in grado di dimostrare la natura delle somme.

Corte costituzionale: non è incostituzionale ritenere i prelievi costi occulti

Sulla costituzionalità dell’articolo 32 del Dpr 600 del 1973 si era già espressa la Corte Costituzionale con la sentenza 10 del 31 gennaio 2023. In questa sentenza si ribadisce che anche i prelievi sono da considerare indice di evasione, infatti per l’imprenditore devono essere considerati costi occulti relativi all’attività stessa.

La Corte ha ribadito che per i prelievi il decreto legge 193 del 2016 ha posto dei limiti, infatti sono considerati costi occulti solo i prelievi di valore compreso tra 1.000 e 5.000 euro. Il contribuente anche in questo caso può fornire prova contraria e di conseguenza è tutelato dalla arbitrarietà della presunzione legale riconosciuta in favore del Fisco.

IMU sui ruderi: ho un immobile inutilizzabile, devo pagare l’IMU?

La questione dell’IMU sui ruderi è sempre aperta, infatti negli anni passati l’Agenzia delle Entrate ha provveduto a notificare avvisi bonari aventi ad oggetto proprio il mancato versamento dell’IMU su ruderi, ciò in contrasto con diverse pronunce della Corte di Cassazione.

IMU sui ruderi: si applica?

La Corte di Cassazione nella sentenza 10122 del 2019 ha stabilito che l’IMU non si paga sulle unità collabenti, sono ritenute tali quegli edifici che per le condizioni fatiscenti in cui si trovano non sono idonei a produrre reddito. Si tratta di edifici da inserire nella categoria catastale F/2 riservata a edifici che versano in condizione di rovina e degrado. Deve trattarsi di edifici che non possono essere ripristinati con una semplice ristrutturazione ma richiedono un intervento di più ampia portata. Sono da considerare ruderi anche le unità con tetto crollato e quindi mancanti di un elemento determinante per essere utile ad un qualunque uso umano.

Come dimostro che non devo pagare l’Imu sui ruderi?

Naturalmente per poter ottenere il beneficio dell’esenzione dell’IMU sui ruderi è necessario che il proprietario faccia attenzione a richiedere il giusto accatastamento, le unità collabenti infatti devono comunque essere censite, sebbene non siano idonee a produrre reddito.

La prima cosa da fare quindi è dimostrare al catasto che l’immobile è in condizioni fatiscenti, questo attraverso una idonea documentazione che può comprendere, anzi, è preferibile che comprenda, un’idonea documentazione fotografica. Ciò è importante soprattutto nel caso in cui l’immobile sia accatastato in una categoria diversa rispetto alla F/2 e quindi ci sia stato un deterioramento successivo rispetto al momento in cui vi era stato il precedente censimento dell’immobile. In questo caso occorre quindi cambiare la categoria catastale.

La documentazione deve essere preferibilmente redatta da un professionista che descriva in modo dettagliato le condizioni dell’immobile. Generalmente un fabbricato fatiscente, non idoneo ad alcun uso, non ha allaccio alle utenze (acqua, elettricità, rete internet).

In base alla sentenza citata, è un errore da parte del Comune applicare l’IMU sui ruderi e lo stesso persiste anche se l’ente ha come punto di riferimento il valore venale del terreno sul quale insiste l’immobile.  Il terreno, infatti, essendo occupato dal rudere comunque non è idoneo a generare reddito. Ciò anche perché il legge d. lgs. 504/92 prevede l’applicazione dell’imposta sui terreni edificabili e non sui terreni edificati. Solo in caso di eventuale demolizione del rudere, potrebbe trovare applicazione l’IMU su terreno edificabile.

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Reddito di cittadinanza: si può avere anche in caso di interdizione dai pubblici uffici

Sappiamo che vi sono reati che precludono la possibilità di ottenere il Reddito di Cittadinanza, ma la Corte di Cassazione, Sezione Penale, con la sentenza 38383 del 2022 ha posto un limite a tale diniego stabilendo che l’interdizione perpetua dai pubblici uffici non preclude la possibilità di accedere a tale agevolazione. Ecco cosa dice la sentenza.

Il caso: interdizione perpetua dai pubblici uffici con sequestro del reddito di cittadinanza

Nell’ambito di un’indagine per truffa finalizzata all’ottenimento di erogazioni pubbliche, una persona ha visto effettuare il sequestro delle somme in quanto 30 anni prima della richiesta del reddito di cittadinanza aveva avuto una condanna, con sentenza definitiva, per aver commesso il reato di rapina e sequestro di persona. Tra le pene accessorie per tale reato vi era l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Sulla base di questa pena accessoria, il tribunale di Vibo Valentia aveva disposto la decadenza dal beneficio del reddito di cittadinanza e il sequestro delle somme erogate. Tale sanzione si commina in applicazione dell’articolo 28 comma 5 del codice penale il quale stabilisce che coloro che sono condannati all’interdizione perpetua dai pubblici uffici non possono percepire stipendi, pensioni e altri assegni che siano a carico dello Stato o di altri enti pubblici.

Il reddito di cittadinanza ha natura ibrida

La Corte di Cassazione è però stata di contrario avviso e in particolare non ha ricompreso il reddito di cittadinanza tra gli emolumenti previsti dall’articolo 28 comma 5 del codice penale. Secondo i giudici della Suprema Corte, il reddito di cittadinanza non può essere parificato agli emolumenti prima visti in quanto viene caricato su Carta Acquisti non utilizzabile liberamente in tutti gli esercizi commerciali.

Trattasi invece di una “prestazione assistenziale finalizzata a soddisfare le proprie esigenze di vita” . In tal senso si è espresso anche il Ministero del Lavoro interpellato sul punto dall’INPS. La Corte di Cassazione sottolinea inoltre la natura ibrida del reddito di cittadinanza, infatti si tratta di una misura che include anche le politiche attive del lavoro con formazione e interventi volti ad evitare l’esclusione sociale. Trattasi di una misura di contrasto alla povertà e alla disuguaglianza e visto che comunque la pena in Italia è volta anche alla rieducazione del condannato, non avrebbe senso escludere una persona che si trova in tale situazione da politiche volte proprio alla rieducazione e reinserimento sociale.

La portata delle norme penali non può essere estesa

A ciò si aggiunge che la disciplina del Reddito di Cittadinanza contiene già dei casi di esclusione e in particolare prevede che per poter ottenere il sussidio è necessario che siano intercorsi 10 anni dalla sentenza di condanna definitiva. Nel caso in oggetto gli anni effettivamente intercorsi sono invece già 30, quindi il soggetto poteva tranquillamente presentare la domanda. Inoltre la natura afflittiva delle sanzioni penali impongono la loro applicazione letterale senza estensione a ipotesi simili ma non uguali. In nessun punto la normativa prevista per il reddito di cittadinanza impedisce l’erogazione del RdC a coloro che sono condannati all’interdizione e di conseguenza non è possibile un’applicazione per analogia.

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Assegno post datato o senza data: nullo ma prova il credito

Succede spesso che si accetti come forma di garanzia di un futuro pagamento un assegno con ammontare coincidente con il debito e senza data oppure post datato. Tale scambio prevede la restituzione dell’assegno al momento del pagamento oppure la riscossione dello stesso in caso di mancato adempimento dell’obbligazione. Naturalmente tale riscossione può essere rischiosa per il debitore nel caso in cui sul conto non siano presenti i fondi utili. Molti però si chiedono: è valido un assegno post datato o senza data?

Assegno post datato o senza data: la disciplina

Questa pratica molto comune in realtà non è la soluzione prevista dalla normativa per raggiungere lo scopo di fornire una garanzia a fronte del ritardo in un pagamento. Infatti per raggiungere tale obiettivo l’ordinamento mette a disposizione altri strumenti come il pegno, l’ipoteca e soprattutto la cambiale.

Generalmente per importi di ammontare piccolo e medio lo strumento ideale è proprio la cambiale, ma questa richiede il pagamento del bollo ed è proprio per sfuggire a questo onere e per maggiore semplicità sono in tanti a preferire l’assegno post datato o senza data.

La prima cosa da sottolineare è che Regio Decreto del 21 dicembre 1933, n. 1736 che regola la materia prevede che l’assegno per essere valido deve presentare una data. Di conseguenza, in teoria, un assegno senza data o post datato non è “regolare”, infatti l’articolo 2 del Regio Decreto prevede che un assegno mancante di uno degli elementi previsti nell’articolo 1 non possa essere fatto valere come assegno bancario.

L’articolo 121 del Regio Decreto invece prevede che nel caso in cui la data apposta sull’assegno differisca rispetto alla data di emissione per un termine non utile al tempo necessario per far recapitare l’assegno al destinatario (4 giorni), debbano essere applicate le norme previste per la cambiale e quindi debba essere pagato il bollo.

Assegno post datato o senza data vale tra le parti come promessa di pagamento

Nonostante questo, la sentenza della Corte di Cassazione 27370 del 2019 stabilisce che, sebbene l’assegno post datato o senza data debba essere considerato nullo e di conseguenza, in teoria, non possa essere riscosso, lo stesso vale però tra le parti, cioè tra il destinatario e colui che lo ha sottoscritto, come promessa di pagamento.

Questo implica che in un eventuale giudizio, colui che detiene tale titolo è liberato dal dover fornire la prova della sussistenza del credito, in quanto lo stesso assegno costituisce prova del credito. Di conseguenza è colui che ha rilasciato l’assegno a dover fornire la prova liberatoria e quindi a dover provare che in realtà quel credito è stato già estinto o non è mai esistito.

A sostegno di questa tesi c’è anche la sentenza della Corte di Cassazione 19051 del 2021. Ricordiamo che in base all’articolo 1988 del codice civile la promessa di pagamento (e abbiamo visto che l’assegno postdatato o senza data ha tale valore) può essere utilizzata per ottenere un decreto ingiuntivo, cioè un provvedimento esecutivo  emesso dal giudice senza sentire l’altra parte ( inaudita altera parte).

Locazione: non è possibile il recesso per fine attività. La decisione della Cassazione

L’articolo 27, ultimo comma, della legge 392 del 1978 prevede la possibilità in caso di locazione di immobili per uso non abitativo di recedere dal contratto prima del termine stabilito per gravi motivi. La Corte di Cassazione ha però sottolineato in una recente pronuncia che la chiusura dell’attività non rientra tra i casi che consentono di recedere in anticipo in quanto trattasi di una scelta soggettiva se non ulteriormente motivata.

Il caso

La vicenda: la SocietàX aveva concesso alla società Y la locazione di immobili ad uso diverso da quello abitativo. Nel luglio 2012 il conduttore aveva comunicato la volontà di recedere dal contratto a causa della cessazione dell’attività in tali locali. Il locatore fin da subito con una missiva aveva contestato le modalità e l’efficacia con cui era stato esercitato il recesso invitando il conduttore ad adempiere alle obbligazioni derivanti dal contratto originariamente stipulato, ricevendo però un diniego in quanto il conduttore adduceva che aveva esperito il recesso in applicazione proprio dell’articolo 27 ultimo comma della legge 392 del 1978.

Testo: Indipendentemente dalle previsioni contrattuali il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi da comunicarsi con lettera raccomandata.

Il locatore con ricorso chiede la dichiarazione di illegittimità e inefficacia del recesso, il tacito rinnovo per ulteriori nove anni con adempimento delle obbligazioni fino alla scadenza naturale del contratto, quindi il pagamento dei canoni di locazione fino alla naturale scadenza del contratto di locazione. Il locatore aveva, infine, chiesto la somma di oltre 200 mila euro per riportare le unità immobiliari in buono stato locativo.

Tribunale 1° grado e appello: il recesso anticipato è giustificato dalla cessazione dell’attività

Il tribunale di primo grado dichiara illegittimo il recesso così come effettuato dal conduttore per il mancato rispetto del termine di preavviso previsto e per non conformità al disposto dell’articolo 27 già citato. Condanna quindi il conduttore al pagamento dei canoni fino a gennaio 2013. la sentenza viene impugnata dal locatore e in via incidentale dal conduttore. La Corte di Appello riconosce i motivi addotti dal conduttore come idonei a integrare le ipotesi previste dall’ultimo comma dell’articolo 27. Siccome però il conduttore non aveva rispettato il termine di preavviso di 6 mesi, condanna al pagamento dei canoni con interessi fino al mese di gennaio 2013.

Corte di Cassazione: non basta la cessazione dell’attività a giustificare il recesso dalla locazione

A questo punto il ricorso in Cassazione è proposto dal locatore che contesta il recesso il quale per consolidata giurisprudenza, ex articolo 27 ultimo comma legge 392/1978, deve essere collegato a fattori obiettivi e indipendenti dalla volontà del conduttore e non a valutazioni soggettive del conduttore. Inoltre nel ricorso il locatore sottolinea che spetta al conduttore provare le circostanze gravi che hanno indotto alla scelta di recedere. Circostanza secondo il locatore non provata con la semplice allegazione del conto economico dell’azienda. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ricorda che in base alla sentenza 12291 del 2014 le motivazioni che possono portare all’applicazione dell’articolo 27 ultimo comma devono essere:

  • sopravvenute rispetto al contratto di locazione dell’immobile;
  • estranee alla volontà del conduttore;
  • imprevedibili;
  • tali da rendere eccessivamente gravosa per il conduttore la continuazione dell’attività;
  • l’onerosità non può risolversi in un’unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine alla convenienza del proseguire o meno l’attività.

La Corte sottolinea anche che tali ragioni devono essere esplicitate già nell’invio della raccomandata con cui si esercita il recesso anticipato in modo che il locatore abbia la possibilità di contestazione.

La Corte sottolinea che indicare nella raccomandata in modo succinto la decisione di recedere in seguito a cessazione dell’attività non integra i requisiti previsti dalla normativa in quanto impedisce la riconduzione a una ragione apprezzabile e idonea a giustificare il recesso anticipato e unilaterale. Inoltre la mera volontà di cessare l’attività è riconducibile a una libera scelta del conduttore e quindi non può giustificare il recesso anticipato.