La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro si esprime su diffida accertativa e tirocini formativi

L’istituto della diffida accertativa è contenuto nell’art. 12 del D.lgs. 23 aprile 2004, n. 124, attuativo della Legge delega 14 febbraio 2003, n. 30 (art. 8), volta alla “semplificazione della procedura per la soddisfazione dei crediti di lavoro correlata alla promozione di soluzioni conciliative in sede pubblica”.

Con il D.lgs. n. 124/2004, il legislatore ha attribuito al personale ispettivo il potere di diffidare il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore, entro un termine prefissato, i “crediti patrimoniali” che risultino dovuti qualora nel corso dell’attività di vigilanza “emergano inosservanze della disciplina contrattuale” (art. 12, c. 1).

L’istituto in questione intende quindi ampliare gli strumenti deflattivi del contenzioso giudiziario e amministrativo, rendendo più celere il riconoscimento di diritti di carattere patrimoniale in favore del lavoratore.

Sebbene la norma utilizzi la locuzione “datore di lavoro”, la diffida accertativa è stata ritenuta applicabile anche ai rapporti di lavoro parasubordinato (co.co.co. e co.co.pro.) “almeno in tutte quelle ipotesi in cui l’erogazione dei compensi sia legata a presupposti oggettivi e predeterminati che non richiedano complessi approfondimenti in ordine alla verifica dell’effettivo raggiungimento o meno dei risultati dell’attività” (v. circolare Ministero del Lavoro n. 24/2004).

Il potere di diffidare il datore di lavoro spetta al personale ispettivo del Ministero del Lavoro, in servizio presso le Direzioni provinciali e regionali. Entro 30 giorni dalla notifica della diffida accertativa, il datore di lavoro può tentare di definire in via amministrativa il contenzioso in atto, promuovendo un tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro; in caso di accordo, risultante da verbale sottoscritto dalle parti, il provvedimento di diffida perde efficacia. Decorso inutilmente il termine di cui sopra o in caso di mancato raggiungimento dell’accordo, attestato da apposito verbale, il provvedimento di diffida acquista valore di accertamento tecnico con efficacia di titolo esecutivo.

Avverso la diffida accertativa il datore di lavoro può proporre ricorso all’autorità giudiziaria, oppure tentare la via amministrativa (art. 12, c. 4, D.lgs. n. 124/2004), impugnando “la diffida accertativa, validata dal provvedimento autonomo del direttore della Direzione provinciale del lavoro, entro 30 giorni dalla notificazione, dinanzi al Comitato regionale per i rapporti di lavoro di cui all’art. 17, integrato dalle parti sociali, il quale deciderà il ricorso entro 90 giorni dalla presentazione” (Circolare Ministero del Lavoro n. 24/2004; conf. Circolare Ministeriale del Lavoro n. 10/2006).

Se in ordine al procedimento di cui all’art. 12, D.lgs. 124/2004 non sorgono particolari problemi interpretativi, altrettanto non può dirsi per la definizione di “crediti patrimoniali” assoggettabili a diffida. Rientrano certamente nel novero dei “crediti patrimoniali”, diffidabili ai sensi dell’art. 12, gli emolumenti retributivi di qualunque genere attestati dal prospetto di paga consegnato al lavoratore e non corrisposti (si fa riferimento a tutti quei crediti fondati su prova scritta, che legittimerebbero il lavoratore ad agire con ricorso per decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 633 c.p.c.).

Sulla materia è intervenuta di recente la circolare Ministero del Lavoro n. 1 dell’8 gennaio 2013, la quale – in risposta alle richieste di chiarimenti provenienti dal personale ispettivo e dai Comitati regionali per i rapporti di lavoro – ha compendiato le diverse tipologie di crediti indicando, per ognuna di esse, la assoggettabilità a diffida. In particolare, la circolare ha classificato i crediti retributivi nel seguente modo:

1) “crediti retributivi da omesso pagamento”: in relazione a detta specie di crediti è stata affermata la assoggettabilità a diffida;
2) “crediti di tipo indennitario, da maggiorazioni, TFR, etc.”: anche per tale tipologia di crediti, il cui accertamento non implica valutazioni discrezionali da parte del personale ispettivo, il Ministero ha ammesso l’assoggettabilità a diffida accertativa;
3) “retribuzioni di risultato, premi di produzione”: tale tipologia di crediti, legata a valutazioni discrezionali del datore di lavoro, non è stata ritenuta compatibile con la diffida, fatta eccezione per le ipotesi in cui il diritto al trattamento premiale risulti per tabulas (ad es., da una comunicazione del datore di lavoro, o dalla busta paga);
4) “crediti retributivi derivanti da un non corretto inquadramento della tipologia contrattuale”: per questi crediti, che sorgerebbero per effetto di una riqualificazione del rapporto di lavoro (ad es., da autonomo a subordinato), il Ministero ha escluso l’assoggettabilità a diffida accertativa, ritenuta incompatibile con la complessità dell’analisi necessaria per tale riqualificazione;
5) infine, per i “crediti legati al demansionamento ovvero alla mancata applicazione dei livelli minimi retributivi richiesti esplicitamente dal Legislatore in osservanza dell’art. 36 Cost.”, il Ministero ha giustificato l’assoggettabilità a diffida accertativa sulla scorta dell’art. 8 della Legge delega, il quale finalizza l’istituto alla “prevenzione e promozione dell’osservanza della disciplina degli obblighi del rapporto di lavoro, del trattamento economico e normativo minimo e dei limiti essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.

In senso parzialmente difforme a quanto disposto dalla circolare n. 1/2013, si era espressa la circolare n. 24 del 19 settembre 2011, la quale aveva, però, ad oggetto la sola materia dei tirocini formativi di cui all’art. 11, D.L. n. 138/2011 (norma dichiarata incostituzionale con sentenza 11-19 dicembre 2012, n. 287).

In particolare, la circolare n. 24/2011 aveva esteso l’applicabilità della diffida accertativa all’ipotesi di illegittimità dei tirocini formativi che mascheravano ordinari rapporti di lavoro subordinato (mentre la circolare 1/2013, come visto, non consente la diffida in ipotesi di “non corretto inquadramento della tipologia contrattuale”). Tuttavia, il contrasto tra le due circolari deve ritenersi ormai superato nel senso della prevalenza della circolare n. 1/2013 sulla precedente circolare n. 24/2011, e ciò in ossequio al criterio cronologico (lex posterior derogat legi priori) che regola anche le fonti del diritto di secondo livello (né si Può ritenere la seconda fonte speciale rispetto alla prima, che tratta esclusivamente l’istituto della diffida accertativa).

Nel merito, si può osservare che la qualificazione di un rapporto di lavoro presuppone un’istruttoria approfondita (testimoniale e documentale) che non appare compatibile con l’accertamento tecnico dell’ispettore di cui all’art. 12, D.lgs. n. 124/2004. Pertanto, si comprendono le ragioni di opportunità sottese alla scelta del Ministero, il quale – pur affermando che l’istituto in esame non deve essere relegato in “una sorta di presa d’atto della situazione di fatto, ad una fotografia di quello che era già materialmente e in un certo senso documentalmente esistente” – ha però indicato chiaramente i limiti entro cui detto strumento può essere legittimamente utilizzato.

Via libera ai lavoratori stagionali extra Ue

E’ stato firmato il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per l’ingresso dei lavoratori non comunitari stagionali.
Una nota del Ministero del Lavoro ha dato il via all’invio delle richieste di nulla osta, utilizzando l’applicativo per la compilazione dei moduli di domanda.

La misura riguarda 30mila cittadini stranieri residenti all’estero che potranno venire in Italia per svolgere lavori subordinati stagionali per l’anno 2013.
Circa 5mila di questi lavoratori sono stati già in Italia come lavoratori stagionali impiegati per almeno due anni consecutivi e autorizzati tramite richiesta di nulla osta pluriennale presentato direttamente dal datore di lavoro.

I Paesi stranieri coinvolti sono: Albania, Algeria, Bosnia-Herzegovina, Croazia, Egitto, Repubblica delle Filippine, Gambia, Ghana, India, Kosovo, Repubblica ex Jugoslava di Macedonia, Marocco, Mauritius, Moldavia, Montenegro, Niger, Nigeria, Pakistan, Senegal, Serbia, Sri Lanka, Ucraina, Tunisia.

La richiesta di nulla osta può essere inviata dai datori di lavoro fino al 31 dicembre 2013.
Stesse modalità anche per la presentazione dei lavoratori stagionali già entrati in Italia nel 2012 anche se non appartenenti alle nazionalità sopra indicate.

Vera MORETTI

DURC in concordato preventivo per le aziende in difficoltà

Poiché la crisi ha messo in difficoltà molte aziende, il Ministero del Lavoro ha deciso che le imprese che versano in situazioni critiche possono ottenere il rilascio del DURC, Documento unico di regolarità contributiva, in concordato preventivo.

La decisione è stata presa per favorire una ripresa lavorativa alle imprese duramente colpite alla crisi e, senza il rilascio del DURC, non potrebbero partecipare a nessuna gara di appalto.
Ma, per recuperare le liquidità che oggi scarseggiano, è fondamentale rimettersi in pista e il concordato preventivo permette alle imprese di evitare il fallimento e trovare un accordo con i creditori sui tempi per il pagamento dei debiti.

E’ bene ricordare, però, che la moratoria, che può essere richiesta dalle imprese che non presentano condizioni di crisi strutturale e può includere i contributi previdenziali e assistenziali, potrà durare al massimo un anno.
Durante questo tempo l’azienda può ottenere il DURC e continuare la propria attività. Trascorso un anno però se non salda i debiti l’azienda diventa irregolare.

Vera MORETTI

Problemi per gli ammortizzatori sociali 2012

L’Inps ha sbloccato, su indicazione del Ministero del Lavoro, i pagamenti degli ammortizzatori sociali in deroga per il 2013 e anche per parte degli arretrati dell’anno passato, destinati ai lavoratori rimasti scoperti a causa dei ritardi nella procedura.

La buona notizia è che i sussidi 2013 saranno erogati per l’intero anno, mentre le cattive notizie riguardano il 2012, poichè si tratterà di un massimo di due mensilità per prestazioni decretate successivamente al 31 dicembre 2012.
Per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali in deroga per il 2013, i verbali delle Regioni consentiranno all’Inps di procedere ai pagamenti normalmente, in base alla risorse individuate dai relativi accordi.

Ciò che impensierisce le Regioni è, ovviamente, la copertura 2012, poiché i 200 milioni sbloccati potrebbero non essere sufficienti a coprire l’intera platea dei lavoratori rimasti senza ammortizzatori. Per farlo, servirebbe quasi il doppio, ovvero 380 milioni.

Ciò è accaduto perché alcune amministrazioni hanno richiesto gli ammortizzatori in ritardo, con il conseguente blocco della pratica da Inps. Per questo, molti lavoratori in cassa integrazione o in mobilità non hanno ricevuto i relativi assegni per gli ultimi mesi 2012.
Ad essere rimasti senza assegno sono 15mila dipendenti in Piemonte, 9mila in Veneto, addirittura 40mila in Emilia Romagna.
Non ci sono dati precisi, ma si stima che i lavoratori ad essere rimasti “ a secco” siano ben 100mila.

Per questo motivo, la Conferenza Stato Regioni ha chiesto di trovare le risorse necessarie per pagare i trattamenti a tutti i lavoratori rimasti scoperti.

Vera MORETTI

Chiarimenti sull’ASPI da parte del Ministero del Lavoro

La Riforma del Lavoro ha introdotto, come ben sappiamo, l’ASPI, ovvero la nuova assicurazione per l’impiego che ha preso il posto dell’indennità di disoccupazione, ma forse non tutti sono al corrente che riguarda le sole imprese e non tutti i datori di lavoro.

Per fare un esempio concreto, in caso di licenziamento di collaboratori domestici, non è dovuto.
Il dubbio era nato con l’applicazione del versamento della nuova tassa all’INPS: il contributo prevede un versamento la cui somma viene calcolata in modo indipendente dalle ore di lavoro effettivamente previste dal contratto.
Un collaboratore domestico, che sia badante, colf o baby sitter, che lavora poche ore alla settimana costerebbe al proprio datore di lavoro la stessa cifra delle imprese con dipendenti impiegati per 40 ore settimanali.

Se però l’Inps chiedeva un decreto che modificasse la norma a seconda dei casi, il Ministero ha preferito chiarire semplicemente che i datori di lavoro che licenziano collaboratori domestici sono esonerati dal contributo ASPI.

Con riferimento all’introduzione di ASPI e Mini-ASPI, occorre dire che in caso di contratto a tempo indeterminato la tassa dovuta da parte del datore di lavoro che licenzia è pari al 41% del massimale mensile ASPI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni, come previsto dall’articolo 2 comma 31 della Riforma Fornero.

La tassa va pagata solo in caso di licenziamento e non quando il lavoratore dà le dimissioni o se il rapporto del lavoro viene interrotto consensualmente.

Vera MORETTI

Nuove norme per i tirocini

Sono state rese note dal Ministro del Lavoro le Linee guida in materia di tirocini previste dalla Riforma del Lavoro a seguito dell’accordo siglato tra Governo, Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano lo scorso 24 gennaio.

Gli enti locali dovranno quindi adeguare la normativa a quelli che sono stati indicati come gli standard minimi entro sei mesi dalla data dell’accordo.

Si tratta di indennità di partecipazione non inferiore a 300 euro; ricorso al tirocinio solo per attività che necessitano un periodo formativo; divieto di sostituzione, con tirocinanti, di lavoratori a termine in periodi di picco o di quelli assenti per malattia, maternità o ferie.
La possibilità di attivare tirocini è interdetta alle imprese che hanno effettuato licenziamenti nei 12 mesi precedenti o che hanno avviato procedure di cassa integrazione.

Mentre è permesso alle:

  • pmi fino a 5 dipendenti: massimo 1 tirocinante o stagista
  • pmi da 6 a 20 dipendenti: massimo 2 tirocinanti o stagisti
  • pmi oltre i 20 addetti: massimo pari il 10% dei lavoratori assunti a tempo indeterminato.

Per quanto riguarda la durata dei tirocini, dipende dalla tipologia:

  • Formativi e di orientamento, attivati nel periodo di transizione tra scuola e lavoro per giovani che abbiano conseguito un titolo entro e non oltre i 12 mesi: massimo 6 mesi.
  • Inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro di inoccupati e disoccupati, anche in mobilità, o beneficiari di ammortizzatori sociali: massimo 12 mesi.
  • Orientamento, formazione, inserimento o reinserimento di disabili (di durata fino a 24 mesi), lavoratori svantaggiati e richiedenti asilo politico o titolari di protezione internazionale (durata non superiore ai 12 mesi).

Le Regioni e le Province autonome avranno la facoltà di disciplinare misure di agevolazione e deroghe alla durata e ripetibilità.
La normativa ha reso noto che: “il tirocinante ha diritto ad una sospensione del tirocinio per maternità o malattia lunga, intendendosi per tale quella che si protrae per una durata pari o superiore ad un terzo del tirocinio. Il periodo di sospensione non concorre al computo della durata complessiva del tirocinio“.

Le parti che hanno siglato l’accordo dovranno poi definire le politiche di avviamento al lavoro e le misure di incentivazione nel privato per la trasformazione del tirocinio in contratti di lavoro. Pur non configurandosi come un rapporto di lavoro, il tirocinio è infatti finalizzato all’acquisizione di competenze professionali ed all’inserimento e reinserimento lavorativo.

Vera MORETTI

Chiarimenti sul sussidio di disoccupazione per la madre lavoratrice

A fronte di alcuni dubbi difficili da districare, il Ministero del Lavoro ha deciso di fare chiarezza sul diritto al sussidio di disoccupazione nei confronti della madre lavoratrice.

Tale sussidio spetta anche quando è la madre stessa a dimettersi, anche nel periodo in cui vige il divieto di licenziamento.
Infatti, l’indennità spetta anche in caso di licenziamento volontario, ma solo se la richiesta è inoltrata prima che il figlio compia un anno di vita.

Le perplessità sulle modalità di applicazione della legge derivavano dal fatto che la L. n. 92/2012 (art. 55, comma 4) estende il diritto all’ammortizzatore sociale ai primi tre anni di età del bambino, mentre prima il sussidio era garantito sono per il suo primo anno di vita.

La domanda, legittima, riguardava dunque l’arco di tempo e la sua validità in caso di genitore dimissionario.
La risposta è chiara: l’arco temporale viene equiparato in caso di dimissioni volontarie a quello del licenziamento volontario.

Ciò significa che anche in caso di licenziamento volontario, alla lavoratrice madre o al lavoratore padre spetta di diritto la percezione di tutte le indennità, compresa quella di disoccupazione involontaria, previste in caso di licenziamento: il requisito è che la richiesta di dimissioni o il licenziamento avvenga entro l’anno di vita del bambino.

Occorre inoltre ricordare che il periodo in cui il datore di lavoro non può licenziare la lavoratrice va dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro e fino al compimento di un anno di età del bambino.

In questo arco temporale la lavoratrice non può neanche essere sospesa dal lavoro, a meno che non sia stata sospesa l’attività dell’azienda o di un reparto di essa, o essere collocata in mobilità, a meno che non venga attivata per cessazione dell’attività imprenditoriale.
Sempre nello stesso arco temporale il lavoratore/lavoratrice ha diritto all’indennità erogata a seguito di dimissioni volontarie.

Vera MORETTI

Cerchi un termoidraulico? Auguri…

Cara azienda, vuoi un tecnico termoidraulico? Auguri… Ti serve un consulente di software? Prova a giocare al Superenalotto, vincere è più facile che trovarlo… Insomma, siamo alle solite: in un Paese alle prese con una crisi che più bastarda non si può e nel quale sembra che trovare lavoro sia un’impresa disperata, arrivano studi e ricerche che ci dicono che mancano profili professionali?

Proprio così. Ci ha pensato il Sistema informativo Excelsior di Unioncamere ministero del Lavoro con la sua analisi annuale, presentata a Verona in occasione di Job&Orienta, mostra convegno su orientamento, scuola, formazione e lavoro. Ebbene, dagli approfondimenti di Excelsior risulta che sul mercato del lavoro italiano sono circa 65mila, per il sistema produttivo, i professionisti “introvabili”, pari al 16,1% delle assunzioni non stagionali che annualmente vengono previste dalle imprese.

Rispetto al 2011, il numero di assunzioni non stagionali che le imprese intendevano effettuare entro l’anno è drasticamente calato (da 600mila a 400mila), facendo scendere, anche se non proporzionalmente, il numero degli introvabili dai 117mila dello scorso anno ai 65mila del 2012. Tuttavia, all’interno di questo numero, la mancanza di alcuni profili professionali resta critica ed elevata.

Qualche esempio? In Lombardia 9 progettisti informatici su 10 sono difficili da reperire, nel Lazio le mosche bianche sono i termoidraulici, in Trentino Alto Adige i camerieri non stagionali. I profili di laureati sono i più complicati da reperire. Dei quasi 59mila che le imprese prevedono di assumere nel 2012 con un contratto non stagionale, uno su 5 ricade tra gli introvabili (circa 12mila unità). Rispetto al 2011, quando le imprese avevano previsto 74mila assunzioni, la quota della difficoltà di reperimento si è ridotta di circa 6 punti percentuali (dal 26,1% al 20%).

Tra questi, le figure professionali “missing” sono soprattutto quelle di ambito informatico. Dal progettista di sistemi informatici (900 delle circa 1000 assunzioni previste per il 2012 sono difficili da reperire, l’85% del totale) al consulente di software (circa 100 gli introvabili, pari al 30% delle assunzioni), dall’analista programmatore (circa 150 mosche bianche) al programmatore informatico (più di 300 gli introvabili). Chiude la lista lo sviluppatore di software, con oltre 300 introvabili pari a circa il 22% della richiesta. Una strage.

Stesso scenario tra i diplomati dove, tra le 166mila le assunzioni non stagionali previste nel 2012, le difficoltà si concentrano su circa 27mila unità (il 16,2%), in discesa, così come per i laureati, sia in valore assoluto (erano oltre 45mila nel 2011), sia in termini di quota sul totale delle relative assunzioni (da 18,7% a 16,2%).

Dati che fanno riflettere e che spingono a fare una considerazione di base. Se, in linea di massima, vale ancora il modo di dire secondo cui il lavoro c’è, basta cercarlo, è sempre più vero che per sperare in un ingresso “mirato” e quasi certo nel mondo occupazionale è necessario “mirare” il campo di studi e formazione. Va bene la soddisfazione personale, ma cosa ce ne facciamo di economisti o filosofi se servono soprattutto informatici?

Call center e nuovi contratti a progetto: cosa cambia secondo i Consulenti del lavoro

Uno dei settori lavorativi in cui spesso si usufruisce di contratti a progetto è quello dei call center, soprattutto quando si tratta di out bound, ovvero di contattare per un arco di tempo determinato, da parte del collaboratore, l’utenza di un prodotto o servizio riconducibile ad un solo committente.

Dal 18 luglio, da quando è entrata in vigore la legge n. 92/2012, questo tipo di contratto ha subito profonde modifiche, che ovviamente si sono fatte sentire anche nelle aziende di call center.
La novità sicuramente più saliente riguarda lo svolgimento dei compiti previsti da questo contratto, che non possono essere “meramente esecutivi o ripetitivi“, come invece avviene per gli operatori telefonici.

A questo punto, è lecito chiedersi: qual è la differenza tra out bound e in bound, (che prevede, invece, la gestione di telefonate in entrata)? Il Ministero del Lavoro l’ha individuata nel comportamento attivo del lavoratore, “che da solo è sufficiente a qualificare la prestazione come obbligazione di risultato (appunto il progetto del servizio out bound) e non come obbligazione di mezzi (la disponibilità resa dal lavoratore per un determinato periodo a ricevere le telefonate da parte della clientela – servizio in bound)”.

Per quanto riguarda i campi di applicazione della nuova legge, se prima si pensava che fossero riferiti esclusivamente alle attività di call center con almeno 20 dipendenti, in realtà si estendono a tutte le aziende, indipendentemente dal numero dei lavoratori.

Inoltre, la legge ha ridefinito il significato di contratto a progetto, vediamo come: “Ferma restando la disciplina degli agenti e rappresentanti di commercio, nonché delle attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso call center out bound per le quali il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione (di cui all’articolo 409, numero 3), del codice di procedura civile, devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore”.

Le modifiche sono applicabili anche all’attività di call center perché, in primo luogo, una eventuale esclusione dal lavoro a progetto degli operatori di call center determinerebbe un inspiegabile abbassamento delle tutele per questa tipologia di lavoratori.

Inoltre, la norma espressamente stabilisce che per le attività di out bound “il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito…” sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva.
Se, comunque, le aziende del settore decidono di ricorrere al contratto a progetto per i propri collaboratori, devono sapere che alcuni requisiti previsti per la generalità dei lavoratori autonomi non troverebbero applicazione.

La determinazione del compenso deve tenere conto della qualità e della quantità del lavoro svolto e, in ogni caso, non può “essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività, eventualmente articolati per i relativi profili professionali tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati”.

Per il contratto di collaborazione svolto in out bound, il lavoro a progetto “è consentito sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento“.

Pertanto, non è richiesta una valutazione temporale o professionale della prestazione, come nel caso della generalità dei lavoratori a progetto, ma è necessario che la contrattazione collettiva stabilisca in modo puntuale come deve essere determinato il compenso per questa prestazione che, sostanzialmente, assume sempre le stesse modalità di esecuzione della prestazione indipendentemente dal committente o dalla campagna economica da svolgere.

Considerando l’entrata in vigore della legge dal 12 agosto, resta il dubbio su come comportarsi con i contratti avviati nel periodo tra il 18 luglio e l’11 agosto. A questo proposito, è stato deciso che ai contratti a progetto sottoscritti in questo ambito temporale verranno applicate le presunzioni introdotte dalla legge 92/2012.

Vera MORETTI

Per essere artigiani bisogna prestare opera a più committenti

Con la diffusione della circolare n. 16/2012, il Ministero del Lavoro, ha fornito un importante chiarimento. Viene precisato infatti che non è considerato un artigiano il muratore che, non possedendo ponteggi o pale meccaniche, presta la propria opera esclusivamente ad un unico committente. Ne deriva, disconosciuta l’autonomia, che il rapporto di lavoro è qualificabile come subordinato.