Partita IVA, quando non conviene aprirla?

Si parla spesso della convenienza o meno di aprire una partita IVA, ammesso che sia possibile scegliere, visto che intraprendere molte attività di lavoro obbliga i soggetti in questione ad operare con essa. Stavolta, proviamo a rispondere ad un altro quesito, ossia: quando non conviene aprirla? Speriamo che questo articolo possa essere esaustivo.

Partita IVA, quando non conviene aprirla?

Fermo restando la facoltà di poter scegliere di aprire una partita IVA o meno, sappiamo che ciò comporta pro e contro, quindi, vantaggi e svantaggi. Pertanto, chiunque voglia mettersi in proprio, avviando un’attività e sapendo di dover effettuare la scelta più conveniente con riferimento all’apertura di una partita IVA, su quali basi dovrà prendere tale decisione?

E’ risaputo che ciò che preoccupa coloro che vogliono aprire un negozio o avviare un’attività professionale, riguarda gli adempimenti fiscali, le spese da sostenere e se i ricavi possano giustificare gli oneri. Ma ora, è tempo di entrare nello specifico per rispondere alla domanda iniziale. Per farlo, partiamo dalla base, ossia: cos’è una partita IVA, come si apre, chi ha la facoltà di esserne titolare, infine, se è conveniente o meno aprirla.

Partita IVA, cos’è?

Per “IVA”, s’intende imposta sul valore aggiunto. Ad esempio, se ci si avvale di una consulenza legale o ci si sottopone ad una visita medica specialistica, il fruitore del servizio sarà chiamato a pagare l’onorario del professionista con l’aggiunta di una percentuale sul valore complessivo della prestazione (IVA). In cambio, egli dovrà emettere fattura comprensiva d’IVA, in quanto non è altro che un imposta di giro: s’incassa dal cliente per versarla allo Stato.

D’altronde, anche quando andiamo a comprare il pane o un qualsiasi altro alimento in un negozio, pagheremo il suo valore con l’aggiunta dell’IVA, dati che saranno segnalati dal classico scontrino fiscale. In parole semplici, quando un cliente si rivolge a un lavoratore autonomo (in linea di massima), è tenuto al pagamento dell’imposta sul valore aggiunto. Ma chi sono i lavoratori autonomi che operano con la partita IVA?

  • liberi professionisti, quindi, lavoratori che hanno competenze specifiche e le mettono a disposizione dei clienti in cambio di un corrispettivo economico;
  • imprenditori, come gli esercenti che vendono qualcosa o prestano un servizio.

Di cosa si compone la partita IVA

La partita Iva è un codice costituito da 11 cifre che viene associato a ciascun lavoratore autonomo e che l’Agenzia delle Entrate adopera per identificarlo. Ciascun lavoratore autonomo è dotato di una personale partita Iva che può essere richiesta da persone fisiche o persone giuridiche, quindi, singoli individui o società.

Come accennato poc’anzi, non tutti i lavoratori autonomi sono obbligati ad aprire una partita IVA, ma la gran parte di essi lo è. Questo vuol dire che essendo obbligatorio operare in regime di partita IVA, i trasgressori sono chiamati a rispondere da pesanti sanzioni.

La partita Iva serve all’Agenzia delle Entrate per identificare il lavoratore autonomo e per porre a suo carico tutte le imposte da pagare.

Come aprire la partita IVA

La Partita Iva si apre inoltrando una richiesta all’Agenzia delle Entrate entro trenta giorni dall’inizio dell’attività. La richiesta, che si effettua compilando un apposito modulo scaricabile dal sito dell’Agenzia, può essere effettuata in tre modi:

  • recandosi di persona presso l’Agenzia delle Entrate;
  • inviando il modulo a mezzo raccomandata a.r.;
  • per via telematica.

Al momento della richiesta, bisogna scegliere tra due possibili regimi fiscali: la contabilità ordinaria e il regime forfettario. E già questa, non è affatto una scelta scontata come potrebbe apparire superficialmente. Se aprire la partita IVA comporta costi minimi se non nulli, quest’ultimi gravano sul mantenimento dell’attività.

Cos’è il regime forfettario?

Quando si apre la partita IVA si è chiamati a scegliere quale regime adottare. Il forfettario è il regime fiscale sicuramente più vantaggioso, in quanto può essere utilizzato dai lavoratori autonomi che hanno un volume di affari tendente al basso. Nello specifico, possono accedervi quelli che:

  • hanno da poco intrapreso un’attività autonoma e non prevedono di potere percepire un reddito superiore a 65.000 euro annui;
  • oppure se si esercita l’attività già da tempo, ma nell’anno fiscale precedente non si è riusciti mai a raggiungere tale soglia reddituale.

Aderire al regime forfettario presenta numerosi vantaggi. Il maggiore di questi riguarda la tassazione: infatti al reddito si applica un’imposta unica del 15%, che scende addirittura al 5% nei primi cinque anni di attività dell’imprenditore o del professionista. Essa sostituisce l’Irpef, addizionali regionali e comunali e Irap. Inoltre, gli autonomi che l’adottano possono emettere fattura esente da IVA.

Quali sono i costi della partita Iva?

Come ti ho detto, l’apertura di una partita Iva di per sé non costa nulla. Successivamente, però, il lavoratore autonomo si trova a dovere adempiere degli obblighi ben precisi e a sostenere delle spese. Tutto questo deve essere tenuto in considerazione quando si vuole avviare una propria attività.

Ecco quali sono gli obblighi e i costi di cui bisogna tenere conto:

  • la previdenza. I lavoratori dipendenti possono beneficiare di una pensione garantita, in quanti i datori di lavoro versano all’INPS i contributi previdenziali che servono proprio per garantire le pensioni ai dipendenti. I lavoratori autonomi, invece, devono provvedere a costruire la propria pensione, iscrivendosi obbligatoriamente all’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale. I liberi professionisti, nella maggior parte dei casi, non si iscrivono all’Inps ma alle apposite casse previdenziali di categoria. In realtà, cambio poco: anch’essi devono costruire la propria pensione;
  • la Camera di commercio o l’ordine professionale. Appena si inizia l’attività occorre iscriversi alla Camera di commercio. Questo comporta un costo iniziale e un pagamento annuale. I liberi professionisti si iscrivono, invece, agli ordini di appartenenza, pagando annualmente i contributi di iscrizione;
  • il pagamento delle imposte. I titolari della partita IVA devono provvedere al pagamento delle imposte. Come già anticipato, in misura agevolata all’inizio dell’attività e successivamente se ci si tiene sotto i 65.000 euro di reddito annuo, permettendo loro di aderire al regime forfettario.
  • l’onorario del commercialista. Non solo adempimenti fiscali, chi gestisce un’attività autonoma avrà a che fare con un commercialista, al fine di adempiere correttamente agli obblighi fiscali e non rischiando di commettere errori nel calcolare le imposte da pagare, molto più per mancata competenza che per distrazione. Tutto questo, rappresenta un ulteriore costo: la parcella del professionista.
  • la tenuta delle scritture contabili. A seconda del regime fiscale scelto, i lavoratori autonomi sono tenuti alla compilazione e alla conservazione di taluni registri previsti per legge.

Tutti questi adempimenti e il conseguente aumento delle spese da sostenere, potrebbero far desistere il lavoratore autonomo dall’aprire una partita IVA per operare, sempre che possa evitare di farlo per legge.

Quando non conviene aprire la partita Iva?

Dopo aver letto questo articolo, dovrebbe avere le idee abbastanza chiare sulla decisione o meno di aprire una partita IVA. La sua convenienza è legata ai ricavi che dovrebbero superare di gran lunga i costi dell’attività.

Prima di avviare un’attività è necessario effettuare una valutazione obiettiva su quali possano essere i guadagni della medesima. C’è da prendere in considerazione anche quali beni o servizi si vogliono offrire, a quale target ci si rivolge, quali sono i prezzi applicabili e quale sia il bacino d’utenza potenziale, tendendo conto anche della concorrenza, magari territoriale.

Tra le spese da sostenere anche il canone di affitto per l’utilizzo eventuale di un immobile non proprio, il pagamento delle utenze varie e gli eventuali costi derivanti dalla tenuta di dipendenti. In conclusione, dopo aver avuto un quadro chiaro dei costi da sostenere, è necessario prevedere quali possono essere gli incassi. Nel caso quest’ultimi siano anche di poco superiori ai costi, probabilmente sarebbe meglio rinunciare all’apertura di una partita IVA.

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Bonus verde 2021: chi può fruire della detrazione e a quanto ammonta

La legge di bilancio 2021 conferma il bonus verde, cioè la possibilità di usufruire di detrazioni per la realizzazione di aree verdi: ecco come funziona e chi può usufruirne.

Che cos’è il bonus verde

Il verde migliora la vita, questo perché è in grado di fornire una qualità dell’aria migliore, assorbe sostanze nocive e rilascia ossigeno, apporta benefici al decoro urbano, inoltre è dimostrato che i colori del verde e dei fiori migliorano l’umore, infine prendersi cura del verde è un hobby molto rilassante. Proprio per questo il legislatore insieme agli altri bonus e agevolazioni fiscali, ad esempio bonus ristrutturazioni, elettrodomestici, sismabonus e superbonus al 110%, ha previsto anche il bonus verde che anche per il 2021 consente di ottenere detrazioni fiscali, quindi vi è una riduzione dell’imposta da pagare, in particolare dell’IRPEF, coloro che si avvalgono del sostituto d’imposta, cioè i lavoratori dipendenti, avranno una restituzione in seguito alla presentazione della dichiarazione dei redditi. L’Agenzia delle Entrate conferma che trattasi di interventi straordinari di:

  • sistemazione a verde di aree scoperte private di edifici esistenti, unità immobiliari, pertinenze o recinzioni, impianti di irrigazione e realizzazione pozzi;
  • realizzazione di coperture a verde e di giardini pensili.

A quanto ammonta il bonus verde 2021

Il bonus verde entra nel nostro ordinamento per la prima volta  dalla legge di bilancio per il 2018 con l’articolo 1, comma 12 della Legge n. 205 del 2017 ed è stato prorogato di volta in volta ogni anno. E’ destinato a restituire il 36% di quanto effettivamente speso per la cura del verde, l’importo massimo coperto è di 5000 euro, di conseguenza il beneficio fiscale vero e proprio, essendo il 36% è massimo di 1800 euro, che saranno restituiti in rate di uguale importo suddivise in 10 rate. Ogni anno quindi può essere restituito, in forma di agevolazione fiscale, un importo massimo di 180 euro. Le somme sono quindi recuperate in 10 anni.

Per quanto invece riguarda i soggetti ammessi a godere di questo beneficio, si tratta di una platea abbastanza ampia, infatti possono usufruirne tutto coloro che con un valido titolo detengono l’immobile su cui l’intervento viene eseguito e in particolare: i proprietari, titolari di contratti di locazione, comodato d’uso, anche gratuito, uso. Il bonus verde può essere usufruito anche dai condomini, in questo caso il limite di spesa resta di 5.000 euro e le detrazioni sono a vantaggio dei condomini che hanno effettivamente partecipato al pagamento delle spese, infatti la quota deve essere versata prima della data di presentazione della dichiarazione dei redditi.

Dal punto di vista oggettivo invece, la normativa esclude dalla copertura gli interventi su area verde che ricadono su attività commerciali, d’impresa e simili: il beneficio trova applicazione solo per le abitazioni, non rileva però che trattasi di prima o seconda abitazione.

Quali interventi sono coperti dal bonus verde 2021

Gli interventi che possono essere portati in detrazione sono numerosi e spaziano nella cura del verde a 360°. La prima cosa da sottolineare è che tra le spese che possono essere portate in detrazione ci sono quelle per la progettazione delle aree verdi, queste però devono essere antecedenti rispetto alla realizzazione dei lavori stessi. Possono essere portate inoltre in detrazione le spese per:

  • realizzazione e miglioramento di impianti di irrigazione, tra queste possono essere ricomprese anche le spese per la realizzazione di pozzi;
  • sistemazione a verde di aree scoperte e realizzazione di giardini pensili, ad esempio può essere realizzato un giardino pensile su un area condominiale prima incolta;
  • grandi potature;
  • riqualificazione di prati.

Occorre però stare attenti, infatti deve trattarsi di operazioni ritenute straordinarie e non ordinarie, di conseguenza se è già presente un giardino, non si possono ottenere le detrazioni per costi inerenti la sua manutenzione ordinaria, ad esempio per il taglio dell’erba o per piccole potature annuali, mentre se si tratta di un’area incolta, ad esempio un’area pertinenziale di un condominio in cui sono presenti degli alberi, ma gli stessi erano incolti, è possibile portare in detrazione le spese sostenute per ripristinare l’area verde. Non sono ammesse in detrazione neanche le spese per l’acquisto di strumentazioni varie, ad esempio un tagliaerba, un badile o simili. Infine, non si possono ottenere detrazioni fiscali per la realizzazione dei lavori in economia.

Documenti necessari per accedere al bonus verde 2021

Come per tutti i benefici fiscali,  ad esempio il bonus ristrutturazione, anche nel caso del bonus verde 2021 è necessario dimostrare che le spese sono state effettivamente sostenute, di conseguenza devono essere tracciabili.  Devono quindi essere effettuate con carte di credito, bancomat, bonifico bancario o postale, assegno non trasferibile. Questi documenti devono essere conservati in modo da poter essere esibiti in caso di controlli da parte dell’Agenzia Entrate e Riscossioni.

Dalla documentazione deve emergere anche il codice fiscale del beneficiario della detrazione, ricordiamo che può trattarsi anche di un condominio, i dati fiscali del soggetto che riceve il pagamento e la descrizione dell’intervento da eseguire.

 

Pensione con contratto di espansione, per uscita 5 anni prima nel 2021 comunicazione all’Inps entro il 2 settembre

C’è tempo fino al 2 settembre prossimo per l’invio della comunicazione all’Inps per la stipula dell’accordo azienda-lavoratori-sindacati rientrante nelle pensioni del contratto di espansione. La comunicazione è relativa ai prepensionamenti che avverranno entro la fine del 2021, con decorrenza della pensione prevista a partire dal 1° dicembre prossimo. La scadenza, dunque, riguarda le aziende che vogliano utilizzare il meccanismo del prepensionamento, che consente ai lavoratori di uscire anticipatamente di cinque anni.

Contratto di espansione, come uscire 5 anni prima rispetto alla pensione di vecchiaia o anticipata?

Le pensioni previste dal contratto di espansione consentono ai lavoratori di uscire anticipatamente di 5 anni sia rispetto ai 67 anni richiesti per la pensione di vecchiaia che ai 37 anni e 10 mesi di contributi necessari per la pensione anticipata. La misura, già in vigore dal 2019, nel tempo ha subito modifiche soprattutto per quanto riguarda il requisito dimensionale dell’azienda datrice di lavoro. Infatti, inizialmente il meccanismo riguardava solo le aziende con almeno 1.000 unità lavorative. Le successive modifiche normative hanno abbassato il minimo a 250 unità lavorative (legge di Bilancio 2021) fino ad arrivare a 100 addetti con il decreto Sostegni bis di Mario Draghi.

Contratto di espansione, cosa serve per andare in pensione 5 anni prima?

Il contratto di espansione, già in vigore dal 2019, ha visto nel tempo modificare i requisiti di uscita, soprattutto quelli riguardanti l’azienda datrice di lavoro. Inizialmente potevano accedere alla misura le aziende con almeno 1.000 unità lavorative. La legge di Bilancio 2021, ha fissato il requisito dimensionale minimo a 250 unità lavorativa, con ulteriore riduzione a 100 unità del decreto Sostegni bis di Mario Draghi. Serve l’adesione volontaria del lavoratore, l’accordo sindacale e la presentazione della lista dei lavoratori in uscita con la misura all’Inps.

In cosa consiste la comunicazione Inps per le pensioni del contratto di espansione?

Per l’uscita anticipata con il contratto di espansione la legge prevede l’accordo sindacale. Tale accordo è da siglare nella sede territoriale del ministero del Lavoro alla presenza dei rappresentanti dell’azienda e dei sindacati stessi, nazionali o aziendali. La scadenza del 2 settembre delle pensioni rientranti nel contratto di espansione riguarda proprio la firma degli accordi sindacali dei lavoratori da mandare in pensione con relativa comunicazione all’Inps. L’adesione dei lavoratori è volontaria. La scadenza si desume dalla circolare Inps numero 48 del 24 marzo del 2021 e dal messaggio Inps numero 2419 del 2021.

Contratto di espansione e cessazione del lavoro

Infatti, per l’adesione alle pensioni con uscita 5 anni prima, la circolare 48 dell’Inps ha stabilito che la cessazione del rapporto di lavoro, sulla base del consenso dei lavoratori, debba avvenire sempre nell’ultimo giorno del mese. La decorrenza della prestazione pensionistica inizia a partire dal giorno successivo (primo giorno del mese), senza soluzione di continuità.

Contratto di espansione, da quando decorre la pensione nel 2021?

Di conseguenza, relativamente alle uscite del 2021 l’ultima data di recesso del rapporto di lavoro è stata fissata al 30 novembre. L’assegno di pensione, invece, decorre dal 1° dicembre. Tuttavia, la domanda di accesso all’esodo, secondo il messaggio Inps 2491 del giugno scorso, ha come scadenza non oltre i tre mesi precedenti al 1° dicembre. Dunque, calcolando i 90 giorni precedenti, risulta la scadenza per la comunicazione all’Inps dell’accordo entro il 2 settembre prossimo.

Bonus rottamazione Tv: ecco tutti i requisiti per richiederlo

Il Bonus rottamazione TV è partito. Con questo incentivo si potranno acquistare nuove Tv, godendo di un aiuto statale. Ecco come funziona.

Bonus rottamazione Tv: cos’è?

E’ partito il 23 agosto il bonus rottamazione Tv e promette di fare grandi numeri. Così come per norma, sarà effettivamente operativo dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione del decreto attuativo del 7 luglio 2021 Il Bonus rottamazione Tv altro non è che un’agevolazione che può fruttare chi ha comprato un apparecchio prima del 22 dicembre 2018. Questo per mettere il riciclo di Tv in vista del nuovo standard di codifica HEVC MAIN 10. Così facendo le tv obsolete saranno messe da parte, attraverso un corretto smaltimento dei rifiuti elettronici. Infatti, i vecchi apparecchi devono essere lasciati presso i negozi in cui verranno acquistati quelli nuovi. Oppure smaltiti presso le isole ecologiche autorizzate. Ma prima di fare cioè è opportuno fare una breve verifica. Se sui canali 200 e 100 compare la scritta “Test HEVC Main10“, il televisore è abilitato al nuovo segnale.

A chi si rivolge?

La prima buona notizia è che per accedere al bonus non vi sono limiti di ISEE. Da non confondere con il Bonus decoder tv per cui è obbligatorio avere un ISEE non maggiore a 20 mila euro. Invece nel caso del bonus Tv i requisiti necessari sono:

  • essere residenti in Italia;
  • essere in regola con il pagamento del canone rai;
  • rottamare una tv acquistata prima di dicembre 2018.

Non importa se la tv sia più o meno funzionante. Ma è importante sapere che è possibile sono un bonus per nucleo familiare.

In cosa consiste il bonus?

Il bonus consiste in uno sconto pari al 20% del prezzo della nuova tv, fino ad un massimo di 100 euro. Facciamo un esempio se la tv costa 500 euro, il 20% equivale a 100 euro, per cui la Tv costerà 400 euro. Se invce la tv costa 300 cento, il valore dello sconto sarà pari a 60 euro. Ma è bene fare una breve precisazione. Prima di procedere alla rottamazione, e presentarsi in negozio, occorre  scaricare e compilare il modulo di autodichiarazione (pdf) che certifichi il corretto smaltimento. Sarà possibile accedere al bonus fino al 31 dicembre 2022 oppure ad esaurimento delle risorse. I fondi a disposizione sono pari a circa 250 milioni di euro.

Finanziamenti Resto al Sud 2021: come si ottengono?

I Finanziamenti del Resto al sud 2021 sono ancora disponibili. Ecco come richiederli e tutte le novità previste per i nuovi imprenditori.

Finanziamenti Resto al Sud 2021: di cosa si tratta?

La legge finanziaria 2021 ha ampliato la platea di chi può richiedere i finanziamenti previsti dal Bando Resto al Sud. Infatti possono accedere tutti coloro che ne fanno richiesta che abbiano un’età compresa tra i 18 ei 55 anni. Attenzione, il limite è stato ampliato fino a 55 anni. Lo scopo è quello di sostenere la nascita e lo sviluppo di attività imprenditoriali e professionali. Attività che devono avere la loro sede nelle seguenti Regioni italiane: Sicilia, Sardegna, Puglia, Molise, Campania, Calabria, Basilicata ed Abruzzo. Ma anche in quelle regioni colpite da calamità sismiche come Lazio, Marche ed Umbria. I fondi messi a disposizione sono pari a 1 miliardo e 250 milioni di euro. 

Finanziamenti Resto al Sud: come ottenere i contributi

Lo Stato vuole favorire l’apertura di nuove attività commerciali soprattutto al Sud della Penisola. Per far questo si impegna a coprire il 100% delle spese ammissibili. In particolare l’agevolazione è così composta:

  • 50% di contributo a fondo perduto;
  • 50% di finanziamento bancario garantito dal Fondo di Garanzia per le PMI. Il prestito non prevede interessi a carico del richiedente, ma di Invitalia.

Invitalia è l’Agenzia nazionale per lo sviluppo, di proprietà del Ministero dell’Economia. Si occupa di gestire tutti gli incentivi e lo sviluppo a favore di start up innovative o nuove idee imprenditoriali. Infine, offre servizi alla Pubblica Amministrazione per accelerare la spesa dei fondi comunitari e nazionali e per la valorizzazione dei beni culturali. È Centrale di Committenza Stazione Appaltante per la realizzazione di interventi strategici sul territorio.

Quali sono le attività finanziabili

Le attività che possono godere delle agevolazioni del Resto al Sud sono:

  • attività svolte da liberi professionisti;
  • attività produttive nei settori industria, artigianato, trasformazione dei prodotti agricoli, pesca e acquacoltura;
  • turismo;
  • fornitura di servizi alle imprese e alle persone.

Non rientrano le attività di tipo agricolo ed il commercio. Inoltre il finanziamento massimo ottenibile è di 50 mila euro per ogni richiedente. Ma si può arrivare fino a 200 mila in caso di società composte da quattro soci. Mentre per le imprese in forma individuale, il finanziamento massimo ottenibile è pari a 60 mila euro. Infine a supporto del fabbisogno circolante è previsto un ulteriore fondo perduto. Questo è composto da:

  • 15 mila euro per le ditte individuali;
  • fino a 40 mila euro per le società.

Finanziamenti Resto al Sud: Quali sono le spese ammissibili?

Il Progetto Resto al Sud 2021, finanzia e copre le spese relative a:

  • ristrutturazione e manutenzione straordinaria di immobile destinati all’impresa;
  • attrezzature, macchinari ed impianti;
  • la tecnologia, i programmi informatici e la telecomunicazione;
  • spese di gestione per un massimo del 20% del programma.

Non rientrano le spese di promozione, pubblicità, consulenza o personale dipendente. Per questo è bene dire che nelle sedi Invitalia italiane ci sono ottimi consulenti che offrono gratuitamente il loro aiuto.

Entro quanto tempo arrivano i soldi del Resto al sud?

E’ chiaro che tutte le spese sostenute devono essere documentate da ricevute di pagamento, o bonifici o mezzi tracciabili. I tempi di erogazione dovrebbero essere questi: 30 giorni dalla data di ricezione di tutta la documentazione, ma si tratta di un acconto. Mentre ci vogliono 60 giorni per il saldo finale. Ma il saldo finale viene erogato solo dopo un esame della documentazione e a seguito di un sopralluogo per verificare gli investimenti realizzati e le spese sostenute. Invece per quanto riguarda il finanziamento ecco come avviene il rimborso. In base al contratto che si è firmato con l’ente erogatore, ma di solito con il pagamento periodico di rate semestrali costanti posticipate. Gli interessi di pre-ammortamento seguono le stesse scadenze.

Resto al Sud: Quali sono i documenti da presentare

Dal 19 maggio 2021 è possibile presentare domanda di agevolazione con i nuovi criteri introdotti dalla Circolare n. 117378 dell’8 aprile 2021 – e successivamente modificata nella parte relativa all’allegato A –  della Direzione generale per gli incentivi alle imprese – Ministero dello sviluppo economico. Per accedere alla prima fase della valutazione occorre presentare il domanda. Tuttavia è semplice perchè contiene i dati anagrafici o costitutivi di una società, la sede e tutti i dati identificativi. Gli allegati sono vari: la dichiarazione antimafia, la Dichiarazione riepilogativa della società costituita in Italia o all’estero, l’antireciclaggio, i curriculum dell’area manageriale ed imprenditoriale. Tuttavia non può mancare una redazione dettagliata del piano d’impresa comprensiva di budget. Invece nella seconda fase occorre presentare:

  • il piano economico-finanziario;
  • gli approfondimenti economici, tecnici e finanziari.

Tutto viene presentato telematicamente sul sito di Invitalia. Mentre prima del saldo finale sarà effettuato un sopralluogo per valutare la congruità del finanziamento.

Come presentare la domanda:

Ecco alcuni semplici passi, ma obbligatori per la presentazione online:

  1. Registrarsi ai servizi online di Invitalia indicando un indirizzo di posta elettronica ordinario;
  2. Una volta registrati accedere al sito riservato per compilare direttamente online la domanda, caricare il business plan e la documentazione da allegare
  3. assicurarsi di disporre di una firma digitale e di un indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) del legale rappresentante delle società già costituita al momento della presentazione, oppure della persona fisica in qualità di socio o soggetto referente della società costituenda.

Dopo l’invio telematico della domanda e degli allegati, viene assegnato un protocollo elettronico. Non ci sono graduatorie: le domande vengono esaminate in base all’ordine di presentazione.

 

 

 

Pensione 2022: senza una riforma quali modi restano per accedere?

Quali saranno le alternative per andare in pensione nel 2022 in assenza di una riforma e nell’anno della fine della sperimentazione della quota 100? Ecco dunque la descrizione di quelli che sono, ad oggi, le possibilità di uscita del prossimo anno. Oltre alla pensione di vecchiaia, i lavoratori prossimi alla pensione potranno scegliere tra le alternative della pensione anticipata, Ape sociale, quota 41 dei lavoratori precoci, isopensione, opzione donna e contratto di espansione.

Pensione di vecchiaia, i requisiti di uscita del 2022

La classica formula di pensione, quella di vecchiaia, anche nel 2022 manterrà inalterati i requisiti di uscita. Per andare in pensione anche l’anno prossimo servirà l’età anagrafica di 67 anni unitamente ad almeno 20 anni di contributi, sommati anche presso più gestioni previdenziali, Inps e Casse professionali. Quest’ultimo passaggio è possibile grazie a una delle misure adottate negli ultimi anni, ovvero il cumulo contributivo. La pensione di vecchiaia assicura una prestazione della quale beneficiano tutti i lavoratori dipendenti e autonomi iscritti all’Assicurazione generale obbligatoria (Ago), agli aderenti alla Gestione separata Inps e ai lavoratori aderenti ai fondi pensione esclusivi e sostitutivi dell’Assicurazione generale obbligatoria.

Pensione anticipata, anche nel prossimo anno requisiti contributivi invariati

Per chi ha un alto numero di anni di contributi avendo iniziato a lavorare in giovane età, è possibile sperare nella pensione anticipata. Anche per il 2022 i requisiti contributivi rimarranno invariati (e lo saranno fino al 2026). Per l’uscita anticipata occorrono 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Non vi è differenza tra lavoratori dipendenti del settore privato o pubblico e nemmeno per gli autonomi.

Quota 100 nel 2022 solo per chi matura il diritto di pensione entro il 31 dicembre 2021

La quota 100 terminerà la sperimentazione triennale al 31 dicembre 2021. Tuttavia,  i contribuenti che abbiano maturato o matureranno i requisiti entro la fine di quest’anno potranno scegliere di uscire nel 2022 o anche negli anni successivi. Occorre, dunque, maturare l’età minima di 62 anni entro il 31 dicembre prossimo unitamente ad almeno 38 anni di contributi. La possibilità di differire l’uscita anche nel 2022 dipende dal fatto che il diritto al pensionamento anticipato con quota 100 rimane “cristallizzato”.

Quota 100, diritto cristallizzato, ma valgono le finestre mobili di 3 o 6 mesi

Conta dunque il momento in cui si maturano i requisiti della misura. Invariato rimane, invece, il meccanismo delle finestre mobili. L’introduzione della misura nel 2019 ha previsto una finestra di 3 mesi per i lavoratori del settore privato e di 6 mesi per quelli del pubblico. Ciò significa che dal momento in cui si può inoltrare la domanda di pensione a quello in cui effettivamente si inizia a ricevere l’assegno mensile passano 3 o 6 mesi.

Ape sociale, uscita per la pensione dai 63 anni ma attenzione ai requisiti richiesti

Verrà confermato ancora l’anticipo pensionistico Ape sociale, la misura di pensione anticipata che consente ai lavoratori di uscire a partire dai 63 anni. Tuttavia, è necessario prestare attenzione ai requisiti richiesti. La misura, fin dall’inizio, è stata ideata per andare incontro a determinate categorie di lavoratori in condizioni disagiate dal punto di vista economico e sociale. E, pertanto, è necessario rientrare tra i disoccupati, tra gli inabili con almeno il 74% per invalidità o tra i caregivers, ovvero tra coloro che si occupano dell’assistenza di un familiare in condizione di disabilità. Gli anni di contributi minimi sono 30 o 36 a seconda delle condizioni individuali.

Pensioni, l’Ape sociale potrebbe essere potenziata

Proprio la pensione Ape sociale è una delle misure deputate a essere potenziate per il 2022. In particolare, l’uscita a 63 anni per le persone in condizioni lavorative di disagio potrebbe riguardare più categorie rispetto a quelle attuali dei lavoratori impiegati in attività usuranti. Attualmente, le categorie previste sono in numero di 15 e vi rientrano, a titolo di esempio, gli infermieri per la sanità e le maestre e gli educatori per la scuola. Tuttavia, una delle due Commissioni istituite dall’allora ministro del lavoro Nunzia Catalfo, potrebbe procedere a includere nuove categorie lavorative tra gli usuranti, mansioni precedentemente escluse.

Precoci con quota 41, la pensione è una corsa a ostacoli tra i requisiti

Non è una ‘quota 41 per tutti‘ la misura di pensione anticipata prevista dalla normativa attuale per i precoci. Si tratta, piuttosto, di una misura che implica il possesso di specifici requisiti per lasciare prima il lavoro. Innanzitutto occorrono 41 anni di contributi previdenziali, dei quali almeno uno versato prima dei 19 anni. Nel raggiungimento dei requisiti sono validi anche i periodi di lavoro all’estero riscattati e i periodi riscattati per omissioni contributive.

Pensioni precoci, come si calcolano i contributi per la quota 41?

Inoltre, i 41 anni di contributi possono essere stati versati anche in maniera non continuativa, ma è necessario (e anche matematico) che i lavoratori precoci debbano avere l’anzianità contributiva anche prima del 1996. Infine, per andare in pensione è necessario rientrare in una delle categorie tutelate dall’Ape sociale (disoccupazione, caregivers, disabilità). La maturazione di tutti i requisiti permette al contribuente di uscire indipendentemente dall’età anagrafica.

Con l’isopensione si può andare in pensione fino a 7 anni prima

Tra le possibilità di andare in pensione prima dei 67 anni richiesti per la pensione di vecchiaia c’è l’isopensione. Si tratta di una formula di prepensionamento che può essere attivata dai datori di lavoro, con costi unicamente a carico dell’azienda. Il risparmio in anni di uscita da lavoro arriva fino a 7 per gli esodi collocati entro la fine di novembre del 2023 (dal 2024 l’isopensione si potrà fare per un massimo di 4 anni di anticipo). Dunque con l’isopensione si può uscire anche a 60 anni, ma è necessario l’accordo sindacale per favorire l’uscita dei lavoratori aziendali.

Come viene calcolato l’assegno di pensione con l’isopensione?

Con l’isopensione, l’azienda riconosce al lavoratore in uscita un assegno dello stesso importo della pensione maturata fino al momento dell’uscita. Inoltre, il datore di lavoro assicura anche una contribuzione previdenziale piena calcolata sulla media delle retribuzioni degli ultimi due anni di lavoro. Nel periodo di isopensione, quindi fino al raggiungimento della pensione di vecchiaia, è possibile svolgere qualsiasi lavoro da dipendente o da autonomo. Cosa che non è possibile nel periodo di anticipo con la quota 100: è possibile cumulare la pensione con redditi da lavoro purché siano occasionali, non alle dipendenze e dal valore lordo massimo di 5.000 euro annuali.

Pensioni con opzione donna, uscita dai 58 anni anche nel 2022

La misura di pensione anticipata per le lavoratrici nota come “Opzione donna” è stata confermata per tutto il 2021 dalla scorsa legge di Bilancio. Per il 2022 la misura potrebbe registrare una ulteriore proroga. Anzi, è possibile che l’Opzione donna diventi proprio strutturale, almeno da quanto trapela sulle intenzioni del governo Draghi. In ogni modo, i requisiti richiesti sono l’età di 58 anni per le lavoratrici alle dipendenze e 59 per le autonome. Inoltre, sono necessari 35 anni di contributi. Tuttavia, in tema di futuro assegno mensile, è necessario che le lavoratrici accettino il ricalcolo al 100% della pensione con il meccanismo contributivo. Ciò comporta un taglio che, mediamente, si attesta tra il 20 e il 30% e dura per tutta la vita da pensionate.

Pensione anticipata, le possibilità del contratto di espansione

Infine, tra le misure che consentiranno ai lavoratori di andare in pensione anticipata nel 2022 ci sarà anche il contratto di espansione. La formula prevede il prepensionamento con 5 anni di anticipo, sia che si punti a uscire prima rispetto alla pensione di vecchiaia (62 anni anziché 67 anni), sia che l’obiettivo diventi quello di anticipare cinque anni di contributi rispetto alla pensione anticipata. Il meccanismo, dunque, permettere ai lavoratori di andare in pensione con 37 anni e 10 mesi di contributi. Rimane in vigore l’anno di sconto per le donne (36 anni e 10 mesi di contributi).

Contratto di espansione, cosa serve per andare in pensione 5 anni prima?

Il contratto di espansione, già in vigore dal 2019, ha visto nel tempo modificare i requisiti di uscita, soprattutto quelli riguardanti l’azienda datrice di lavoro. Inizialmente potevano accedere alla misura le aziende con almeno 1.000 unità lavorative. Con la legge di Bilancio 2021, il requisito dimensionale minimo è stato abbassato a 250 unità lavorativa, ulteriormente ridotto a 100 unità con il decreto Sostegni bis di Mario Draghi. Serve l’adesione volontaria del lavoratore, l’accordo sindacale e la presentazione della lista dei lavoratori in uscita con la misura all’Inps.

Comunicazione ENEA: obbligo anche per acquisto elettrodomestici

Cos’è l’ENEA (Energia Nucleare ed Energie Alternative)? È un ente pubblico italiano di ricerca che si pone l’obiettivo di supportare le politiche di competitività e di sviluppo sostenibile. Questo ente agisce nei settori ambientali, dell’energia e delle nuove tecnologie.

I compiti svolti dall’ENEA

Tra le attività principali svolte dall’ENEA ci sono quelle della comunicazione e della promozione della ricerca, studi legati allo sviluppo di avanzate tecnologie, alla conduzione di importanti progetti di ricerca, in special modo riguardanti l’ambito dell’ingegneria e della tecnologia. L’ENEA si occupa di collaborare con altri enti ed istituzione esteri, la partecipazione a grandi programmi di ricerca in collaborazione con organizzazioni internazionali. Inoltre, è responsabile del presidio scientifico e tecnologico in ambito di energia nucleare, eccetera.

Obbligo comunicazione ENEA per elettrodomestici

Da tre anni a questa parte, è obbligatorio comunicare all’ENEA gli acquisiti relativi agli elettrodomestici, per i quali è possibile usufruire del bonus mobili. Tale incentivo è molto vantaggioso in quanto consente di effettuare una spesa non superiore ai 10.000 euro usufruendo di una detrazione IRPEF pari al 50%.

Chi decide di acquistare mobili ed elettrodomestici che partono dalla classe A + (A per i forni), per arredare un immobile che deve essere ristrutturato, può beneficiare di un bonus mobile.

Tuttavia, la procedura non è automatica in quanto non tutti gli elettrodomestici rientrano in questa agevolazione fiscale. Pertanto, al fine di godere di tale beneficio è obbligatorio inviare una comunicazione all’ENEA contenente diversi dati, tra cui quelli relativi agli elettrodomestici acquistati.

Quali sono gli elettrodomestici, il cui acquisto è incentivato dalla detrazione fiscale prevista?

E’ necessario premettere che i dispositivi per il cui acquisto è possibile usufruire della detrazione IRPEF pari al 50% del costo sostenuto, devono essere nuovi e appartenenti a determinate tipologie:

  • Apparecchi elettrici di riscaldamento e/o per la cottura e/o per il condizionamento;
  • radiatori e/o ventilatori elettrici;
  • forni a microonde;
  • piastre riscaldanti elettriche;
  • stufe elettriche;
  • frigoriferi, congelatori, lavatrici, asciugatrici, lavastoviglie.

Il tipo di pagamento

Per usufruire dell’agevolazione fiscale del 50% rispetto alla spesa sostenuta per l’acquisto dei sopracitati elettrodomestici, i pagamenti devono avvenire tramite carta di credito e/o di debito o attraverso un bonifico. Il pagamento in contanti è vietato, così come gli assegni bancari o altri metodi di pagamento diversi da quelli poc’anzi indicati.

Comunicazione all’ENEA per elettrodomestici

Comunicare i dettagli sugli elettrodomestici comprati all’ENEA è legato al fatto che i dispositivi acquistati comportino un risparmio energetico e abbiano quindi accesso alle detrazioni fiscali previste per le ristrutturazioni edilizie, così come previsto dall’ecobonus.

E’ indispensabile effettuare una comunicazione all’ENEA soprattutto quando, in relazione a un intervento edilizio, si comprano lavasciuga, lavatrici, frigoriferi, forni, lavastoviglie e piani cottura elettrici. Differentemente dai mobili, le informazioni sugli elettrodomestici devono essere comunicate anche in assenza di un intervento che comporti un risparmio energetico. Ad esempio, quando si rifà la cucina o il bagno.

La comunicazione corretta dei dati sugli elettrodomestici deve avvenire via internet all’indirizzo seguente: https://detrazionifiscali.enea.it inviando l’informazione entro 90 giorni dalla data di ultimazione dei lavori o dal collaudo. Ma viene preso in considerazione nel caso degli elettrodomestici, anche la data di invio del bonifico o di uno degli altri metodi di pagamento previsti.

La procedura d’inserimento dati

Una volta entrati sulla pagina web sopra citata come riferimento, è necessario procedere all’inserimento dei dati. Si tratta di un iter relativamente semplice se seguito alla lettera, ecco gli step:

  1. Scegliere l’opzione “Registrazione utenti”
  2. Cliccare su “Compila dati anagrafici”
  3. “Inserisci l’immobile”
  4. “Selezione Intervento”
  5. Nella barra “Altro” selezionare la voce “elettrodomestici”.

L’ENEA richiede innanzitutto la potenza elettrica (kw) e la classe energetica dell’elettrodomestico. Il secondo dato è spesso obbligatorio, anche se non in tutti i casi, mentre il primo dato è sempre facoltativo.

Dove reperire i dati da inserire?

In generale, la potenza elettrica espressa in kilowatt che l’elettrodomestico utilizza per il suo regolare funzionamento si trova nella scheda tecnica o nel libretto delle istruzioni o sull’etichetta energetica. La classe energetica del dispositivo è obbligatoria per frigoriferi, lavatrici, lavasciuga e asciugatrici. Facoltativa per altri, come forni e piani di cottura.

ATTENZIONE: è bene conservare tutta la documentazione necessaria richiesta e utile per beneficiare del bonus mobili. Ci riferiamo alla ricevuta di pagamento, a quella ricevuta di avvenuta transazione, dell’addebito sul conto corrente e le fatture di acquisto dei beni che indichino la natura dell’acquisto, qualità e quantità dei beni e/o servizi acquistati.

Falsa partita IVA, cosa si rischia?

Il fenomeno delle false partite IVA non è un raro evento, anzi. Ma di una cosa si può essere certi: la legge prevede delle sanzioni talvolta pesanti.

Falsa partita IVA: perché e come?

Spesso, in Italia, si ricorre all’illegale utilizzo della partita IVA. In presenza di una situazione economica poco favorevole, può verificarsi che il committente “costringa” il collaboratore ad aprire una falsa di partita IVA. Ma perché il datore di lavoro si comporta in tal modo nonostante la pratica sia illegale?

Per un’azienda, capita di sovente che il costo del lavoro sostenuto per il dipendente sia troppo alto, spesso, ciò corrisponde a retribuzioni troppo basse. Per sopperire a tale problema, un datore di lavoro tende a ricorrere a un escamotage illecito che consente di ridurre i costi, nonostante l’utilizzo di personale qualificato. E’ questo il caso della falsa partita IVA.

Accade che il datore di lavoro non assume con regolare contratto, avvalendosi della collaborazione del lavoratore a cui richiede di aprire una partita IVA per evitare di assumerlo come lavoratore subordinato. Purtroppo, quest’ultimo viene trattato come tale, pur risultando un lavoratore autonomo che opera con partita IVA agli occhi dell’Agenzia delle Entrate.

Come già anticipato, si tratta di un metodo usato molto diffuso dalle aziende che preferiscono di gran lunga una collaborazione occasionale con apertura di partita IVA, piuttosto che regolarizzare il lavoratore nel modo più adeguato e lecito, visto che la prestazione lavorativa è spesso abituale e non sporadica. La lettura dell’articolo 2222 del Codice civile che tratta del “contratto d’opera” è sicuramente illuminante.

Come si individua una falsa partita IVA?

E’ bene sottolineare che una situazione del genere non è affatto comoda per il lavoratore, in quanto non può gestire in autonomia il proprio lavoro, quindi, è sottoposto al vincolo di subordinazione, pur non essendo tutelato con alcun diritto che spetterebbe a un dipendente (malattia, ferie, permesse retribuiti…) né di tutele contributive, in quanto il datore di lavoro nonostante utilizzi il proprio lavoratore come un dipendente, in virtù della presenza di una falsa partita IVA, non è tenuto a corrispondergli alcun contributo.

Il caso limite è quello della mono committenza: ossia quando la finta partita IVA lavora per lo stesso datore di lavoro. Al fine di evitare che ciò accada, il DL 76/2003 (art. 69/bis), chiarisce che si può parlare di presunzione di subordinazione nel caso si verifichino almeno due delle seguenti tre posizioni:

  • criterio temporale: se la collaborazione di un lavoratore presso la stessa azienda dura oltre otto mesi nell’arco di due anni;
  • criterio del fatturato: quando il fatturato totale del lavoratore con partita IVA sia derivante, negli ultimi due anni, dallo stesso committente o azienda per almeno l’80%;
  • criterio organizzativo: se sussiste una postazione di lavoro fissa all’interno dell’azienda del lavoratore con partita IVA oggetto dell’identificazione.

Allo scopo di evitare finte dimissioni e facili licenziamenti, al fine di modificare il rapporto di lavoro dipendente in una falsa partita IVA agevolata, la legge di Bilancio ha determinato con una modifica a regime forfettario, che non è possibile operare in regime di partita IVA agevolato e fatturare all’ex datore di lavoro.

C’è da dire, che non è affatto un compito semplice “beccare” una falsa partita IVA, in quanto sono i medesimi lavoratori ad accettare le suddette condizioni di lavoro, costretti a farlo per non perdere l’occupazione. Ma è da sottolineare che una volta subentrata la presunzione di subordinazione, è necessario dimostrare l’esistenza di una prova contraria che rende il compito di mascherare un lavoro dipendente tramite l’apertura di una partita IVA da parte del collaboratore, molto arduo.

Sanzioni per falsa partita IVA: chi le subisce?

Qualora venisse accertato l’uso di una falsa partita IVA, dovrà essere dimostrato che il lavoratore sia stato costretto ad accettare tale situazione per poter lavorare, senza alcuna conseguenza per lui.

Il relativo datore di lavoro, invece, viene obbligato ad assumere il lavoratore con un contratto a progetto oppure con un contratto a tempo indeterminato. Quest’ultimo caso, si concretizza quando esiste più di un lavoratore nella stessa azienda a trovarsi nelle medesime condizioni.

In conclusione, il rischio maggiore a livello di sanzioni ricade sul datore di lavoro, mentre alcuna conseguenza colpirà il lavoratore.

Oltretutto, è fondamentale evidenziare che il contratto partirà dalla data di emissione della prima fattura. Ciò vuol dire, che il lavoratore in questione riceverà l’erogazione di tutti gli obblighi contributivi e fiscali. Nella pratica, non si tratta di una vera e propria sanzione a carico del datore di lavoro, ma di una punizione che risulterà molto onerosa nel caso in cui il lavoratore si rende protagonista con l’azienda di una finta collaborazione occasionale che dura da anni.

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Detrazioni familiari a carico 2021: a quanto ammontano e come si calcolano

Il legislatore italiano ha sempre riconosciuto particolare rilevanza sociale alla famiglia e per questo sono previste delle misure volte ad agevolare coloro che hanno un carico familiare. Tra le “agevolazioni” più conosciute vi sono le detrazioni per familiari a carico: ecco a quanto ammontano per il 2021.

Cosa sono le detrazioni familiari a carico

La prima cosa da capire è cosa sono le detrazioni e come funzionano: si tratta di importi che vengono sottratti alle imposte da versare. Per quanto riguarda le detrazioni familiari a carico, si tratta di somme sottratte dall’IRPEF, Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche, quindi contribuiscono a ridurre le somme dovute all’erario e, per coloro che hanno il sostituto d’imposta, cioè quando l’IRPEF viene versata dal datore di lavoro, si materializzano attraverso delle restituzioni successive alla presentazione della dichiarazione dei redditi. Le detrazioni familiari a carico dipendono dalla misura stabilita per legge, questa varia di anno in anno e dipende anche dall’inflazione,  dal reddito prodotto, inoltre dipende dalla situazione concreta del singolo nucleo familiare.

Deve essere inoltre sottolineato che non spettano detrazioni per familiari a carico nel caso in cui il reddito annuale percepito superi i 95.000 euro.  Vedremo ora le diverse ipotesi che possono verificarsi e gli importi delle detrazioni familiari a carico 2021. Sottolineiamo fin da ora che le detrazioni per familiari a carico sono previste anche nel caso in cui i soggetti a carico siano maggiorenni, l’importante è che siano fiscalmente a carico, cioè non superino determinate soglie di reddito percepito. Occorre ricordare anche che nel prosieguo si parlerà di importi teorici, infatti gli stessi possono variare in funzione del reddito e comunque la copertura massima sono le imposte effettivamente dovute.

Detrazioni figli a carico minori di 3 anni

Le normative sulle detrazioni familiari a carico 2021 in linea teorica prevedono che per i figli legittimi, naturali, adottivi, affidatari, di età inferiore ai 3 anni l’importo massimo riconosciuto sia di 1.220 euro.

Detrazioni figli a carico maggiori di 3 anni

Nel caso in cui i figli abbiano un’età superiore a 3 anni, l’ammontare della detrazioni è di 950 euro. In questa sede è opportuno ricordare che, come già anticipato, anche i figli maggiorenni concorrono al maturare del diritto alle detrazioni, in questo caso però vi sono dei limiti. Per ottenere le detrazioni per familiari a carico in presenza di figli maggiori di età questi devono essere fiscalmente a carico del beneficiario (cioè il soggetto che ha un reddito soggetto a tassazione IRPEF e che si occupa di mantenere figli, coniuge e altri familiari)  e per rientrare in questa categoria vi sono dei limiti reddituali.

Il figlio maggiorenne, ma di età inferiore a 24 anni deve avere un reddito personale inferiore a 4.000 euro, mentre per i figli di età superiore a 24 anni, il limite di reddito è di 2.840,51 euro. Nel computo del reddito devono essere inseriti tutti i proventi delle varie attività condotte, ad esempio reddito da lavoro dipendente, collaborazioni, redditi agrari, d’impresa, da lavoro autonomo, reddito da fabbricati derivante da canone di locazione.

 Detrazioni familiari a carico disabile

Gli importi ora visti cambiano nel caso in cui il figlio sia disabile. In questo caso per ogni figlio disabile di età inferiore a 3 anni, le detrazioni familiari a carico 2021 ammontano a 1.620 euro, mentre per disabili di età pari o superiore a 3 anni 1.350 euro.

Detrazioni famiglie numerose

Le detrazioni ora viste sono aumentate di 200 euro per ogni figlio a carico nel caso in cui essi siano più di 3. Si faccia il caso di una famiglia con 4 figli di età superiore a 3 anni e non disabili, per ogni figlio riceverà 1.150 euro.

Detrazioni familiari a carico 2021: coniuge e unioni civili

Si possono ottenere le detrazioni anche per il coniuge fiscalmente a carico, anche in questo caso è previsto lo stesso limite reddituale, cioè il coniuge non deve avere un reddito superiore a 2.840,51 euro. In questo caso gli importi sono diversi rispetto a quelli visti finora. In particolare se il soggetto beneficiario:

  • ha un reddito inferiore a 15.000 euro spetta una detrazione di 800 euro;
  • se il reddito è compreso tra 15.000 euro e 80.000 euro l’importo è di 690 euro.

Quando si parla di detrazione per coniuge fiscalmente a carico deve comunque intendersi esteso anche alle parti dell’unione civile come disciplinata dal nostro ordinamento. Mentre l’estensione non è prevista per le unioni di fatto definite dalla legge Cirinnà “la condizione di due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” . Le detrazioni comunque spettano per il coniuge non legalmente separato. Nel caso in cui il provvedimento di separazione avvenga nel corso dell’anno, ad esempio nel mese di giugno, comunque si può beneficiare della detrazione per familiari a carico per il periodo intercorrente tra l’inizio dell’anno e il momento della separazione.

Deve infine essere sottolineato che la normativa riconosce la possibilità di avere anche altri soggetti a carico fiscalmente, si tratta di genitori, nonni, fratelli e sorelle, nuore, generi, nipoti che però devono convivere con il soggetto che beneficia delle detrazioni, si deve quindi trattare di una situazione di fatto dove il soggetto che non ha redditi propri effettivamente è a carico del beneficiario.

Il calcolo delle detrazioni

Calcolare gli effettivi importi a cui si ha diritto è molto semplice, si può trovare la formula sul sito dell’Agenzia delle Entrate:

La formula è: detrazione teorica  X  (95.000 – reddito complessivo /95.000 euro).

Ad esempio se la detrazione teoria è 1.220 euro e il reddito 30.000 euro, occorre in primo luogo sottrarre 30.000 alla base di 95.000 euro. L’ammontare deve essere diviso per 95.000 e moltiplicato per 1.220. In questo caso l’importo effettivo è di 834,37 euro.

Le detrazioni per figli a carico possono essere usufruite da entrambi i genitori, in misura del 50% ciascuno. In alternativa, e su accordo delle parti, possono essere usufruite da uno solo al 100%.

Cosa succede se l’ammontare dell’IRPEF dovuta è inferiore rispetto alle detrazioni a cui si avrebbe diritto? Semplicemente nulla, le detrazioni sono calcolate sugli importi “maturati”, la parte rimanente è persa. Si faccia il caso di un lavoratore che paga 500 euro di IRPEF e avrebbe diritto a una detrazione di 950 euro, in questo caso otterrà il beneficio della detrazione di 500 euro, restituita nel caso le quote siano già versate dal sostituto d’imposta, mentre le restanti 450 euro restano “scoperte”.

Come si determina il reddito delle società e degli enti non residenti?

In Italia le società e gli enti non residenti possono esercitare la loro attività anche in Italia, se al riguardo non ci sono disposizioni che lo vietano come, ad esempio, il rilascio di una licenza o di una concessione. Ma esercitando la loro attività anche in Italia è chiaro che scattano gli obblighi nei confronti del Fisco. In altre parole, come e quando le società e gli enti non residenti pagano le tasse all’Agenzia delle Entrate? Al riguardo, e di conseguenza, vediamo come si determina il reddito delle società e degli enti non residenti.

Ecco come si determina il reddito delle società e degli enti non residenti

Nel nostro Paese le società e gli enti non residenti pagano le tasse, come soggetti IRES, limitatamente ai redditi prodotti in Italia. Inoltre, su come si determina il reddito delle società e degli enti non residenti, c’è da fare una netta distinzione. Ovverosia, quella tra gli enti non residenti commerciali, e gli enti non residenti non commerciali.

Ed in entrambi i casi queste società e questi enti non residenti, pur avendo prodotto reddito in Italia, non solo non hanno una sede legale o amministrativa nel nostro Paese, ma non hanno in Italia nemmeno l’oggetto principale dell’attività.

La determinazione del reddito per le società e per gli enti commerciali non residenti

Nel dettaglio, per la determinazione del reddito per le società e per gli enti commerciali non residenti, si deve distinguere tra la presenza di una stabile organizzazione sul territorio dello Stato italiano, e l’assenza di tale requisito. Gli enti commerciali non residenti con la stabile organizzazione, sempre limitatamente al reddito prodotto in Italia, pagano infatti le tasse allo stesso modo degli enti commerciali che sono residenti.

Il che significa, tra l’altro, che gli enti commerciali non residenti la con stabile organizzazione, sempre limitatamente al reddito prodotto in Italia, sono chiamati a redigere il conto economico sulla gestione e su tutte le attività che hanno prodotto utili e ricavi nel nostro Paese.

Per gli enti commerciali non residenti senza stabile organizzazione in Italia, invece, il reddito complessivo imponibile si determina andando a sommare i singoli redditi che sono stati prodotti in Italia. I singoli redditi, a loro volta, devono essere determinati dagli enti commerciali non residenti senza stabile organizzazione in base alle regole che sono previste per le singole categorie economiche nelle quali rientrano. In più, ai sensi della normativa fiscale vigente, gli enti commerciali non residenti senza stabile organizzazione in Italia possono portare in deduzione alcuni oneri dal reddito prodotto nel nostro Paese.

La determinazione del reddito per le società e per gli enti non commerciali non residenti

Per le società e per gli enti non commerciali non residenti, la determinazione del reddito segue il principio applicato per gli enti commerciali non residenti senza stabile organizzazione in Italia. Quindi, anche in questo caso il reddito imponibile è dato dalla somma dei singoli redditi. Ed anche per le società e per gli enti non commerciali non residenti, come sopra detto, è ammessa la deducibilità fiscale di alcuni oneri.