Come produrre acqua calda gratis, senza gas e elettricità

In un periodo di enorme difficoltà per i rincari in bolletta, andiamo a vedere se sono possibili metodi per produrre acqua calda in modo gratuito o fortemente economico, senza utilizzare gas e scaldabagno elettrico. Vediamo alcuni consigli nella nostra guida in merito.

Acqua calda, come produrne senza grossi consumi elettrici

La soluzione ad un risparmio energetico per ottenere acqua calda sanitaria si chiama pompa di calore.

Lo scaldacqua a pompa di calore, noto anche come pompa di calore per acqua calda sanitaria, è un sistema particolarmente efficiente per produrre acqua calda.

Esso è composto da un boiler alimentato da un circuito in pompa di calore anziché da una resistenza elettrica ed il consumo economico è corposamente inferiore, di circa 3 o 4 volte, rispetto ad un boiler elettrico.

Inoltre, c’è da sapere che si tratta di un sistema che può essere integrato a molti impianti, come ad esempio il proprio riscaldamento a pellet.

Durante l’estate puoi tenere la caldaia spenta utilizzando solo lo scaldacqua a pompa di calore.

Acqua calda, senza uso del gas

In un periodo in cui le traversie legate al gas, non solo per il caro bollette, ma anche per problematiche di guerra che potrebbero vedere chiudere i rubinetti del gas per molti distributori, andiamo a vedere, dunque, come si può produrre acqua calda in casa, senza utilizzare gas.

Ovviamente, il primo sistema per evitare di avere l’acqua calda col gas è quello dello scaldabagno elettrico, ma se si vogliono ancora ottimizzare i costi in bolletta possono esserci altre soluzioni.

Come detto poco sopra, il sistema a pompe di calore è quello più diffuso, nonché il più semplice da installare per avere l’acqua calda senza gas.

L’installazione di una pompa di calore permette sia il raffrescamento che il riscaldamento dell’acqua calda sanitaria evitando di ricorrere all’ utilizzo di gas e puntando su un limitato uso di energia elettrica.

Un altro sistema molto efficiente e più economico ed ecologico, per poter produrre acqua calda senza gas, è l’impianto solare termico.

Esso si ottiene con pannelli solari posizionati o sul tetto dell’abitazione, od anche, ove richiesto, in un punto limitrofo, che sia necessariamente assolato durante la maggior parte dell’anno.

Il funzionamento dei pannelli solari è piuttosto elementare, infatti al loro interno scorre dell’acqua tecnica la quale, riscaldata dal sole, viene fatta passare in un serbatoio di accumulo con scambiatore di calore.

Riscaldare acqua in casa con stufe a pellet idro

Un altro efficiente metodo per riscaldare l’acqua senza uso del gas è usare una stufa a pellet idro, vediamo di cosa si tratta.

Quando si parla di stufe a pellet idro si fa riferimento ad un dispositivo ad inesistente impatto ambientale e ad emissioni quasi pari a zero.

Esistono diverse  tipologie di stufe a pellet idro, il loro ’utilizzo è sostanzialmente assai semplice: la combustione del pellet genera calore, i cui fumi vengono canalizzati all’interno di alcuni tubi dove, grazie a scambiatori di calore che sono posti a ridosso di serbatoi d’accumulo, il fumo di combustione va a cedere energia termica all’acqua sanitaria.

Va aggiunto che le stufe a pellet idro più moderne sono dotate di un sistema di regolazione automatico, attraverso il quale è possibile regolare i consumi evitando sprechi di calore.

Dunque, questi erano alcuni fondamentali e rapidi consigli utili per sopperire all’uso di gas e limitare i consumi di energia elettrica per produrre acqua calda nella vostra casa.

Leggi anche: Riscaldamento: soluzioni ecologiche per risparmiare

Registro delle opposizioni: pubblicato il decreto, si va verso l’attuazione

Arriva la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, dopo tre mesi dall’approvazione, del decreto con il nuovo regolamento del Registro Pubblico delle Opposizioni . A breve sarà possibile avere sotto controllo le chiamate pubblicitarie anche verso i cellulari e inibirle in modo definitivo.

Nuovo Regolamento per il Registro delle Opposizioni: tutti i passi da compiere

Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto contenente il Nuovo Regolamento per il Registro Pubblico delle Opposizioni cade uno dei vincoli che hanno portato al ritardo nell’attuazione del decreto stesso. La legge italiana prevede che gli atti entrino generalmente in vigore dopo 15 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta. Solo nei casi di decretazione d’urgenza è possibile far venir meno tale principio e c’è l’immediata efficacia del provvedimento. Questo vuol dire che dal 13 aprile 2022 in teoria il nuovo decreto sarà in vigore.

Le cose però non stanno esattamente così, infatti la normativa prevede che l’effettività del provvedimento sia ulteriormente rimandata al 31 luglio 2022. Giorno in cui è prevista la deadline per la cessazione della vigenza delle precedenti norme in vigore. Se ne ricava che non è detto che la data effettiva da cui gli italiani potranno inserire il proprio numero nel registro delle opposizioni, corrisponda al 1° agosto, potrebbe ancora essere rimandata.

La gestione del Registro delle Opposizioni sarà a cura del Ministero per lo Sviluppo Economico che potrà anche delegare a terzi soggetti tale attività. Tra i soggetti terzi non potrà però esserci la Fondazione Bordoni che attualmente gestisce il registro per le numerazioni fisse. Questo implica che sarà necessario mettere in moto la procedura per trovare tale soggetto terzo, nel pieno rispetto delle normative. Tra le questioni da affrontare ci sarà anche la redazione del regolamento tecnico, cosa non certo da poco.

Cosa cambia per gli italiani?

In base all’articolo 7 del nuovo Regolamento, con l’entrata in vigore dello stesso, i cittadini/consumatori potranno chiedere al gestore del Registro di inserire la propria numerazione telefonica, tra cui i numeri di cellulare, nell’elenco dei recapiti presso i quali non è possibile inviare materiale pubblicitario, oppure effettuare chiamate di vendita diretta, per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazioni commerciali. Verso i numeri inseriti nel registro non potranno essere effettuate chiamate da call center automatizzati o tramite operatore.

L’iscrizione sul Registro delle Opposizioni è gratuita. Le modalità operative dovranno però essere indicate attraverso il regolamento tecnico che potrà vedere la luce solo dopo aver individuato il gestore del servizio. Molto probabilmente sarà possibile effettuare la registrazione attraverso moduli telematici direttamente dal sito del gestore, oppure telefonicamente. Speriamo a breve di dare ulteriori indicazioni.

Nel frattempo è possibile trovare maggiori informazioni all’articolo Chiamate commerciali sui cellulari: evitarle con il Registro delle Opposizioni.

Il vero problema è dato dal fatto che in qualunque momento sarà possibile revocare il divieto di effettuare chiamate commerciali, attraverso l’autorizzazione fornita ai singoli soggetti. Cosa potrebbe capitare? Nel momento in cui si naviga sul sito si nota spesso la richiesta di un’autorizzazione all’invio di materiale pubblicitario o a fornire i dati raccolti anche a terzi soggetti. Basta dare questa autorizzazione, spesso in modo frettoloso, per consentire l’invio tramite posta elettronica attraverso chiamate al cellulare ( se viene contestualmente fornito il numero) a vanificare l’iscrizione delle Registro delle Opposizioni. Ecco perché chi non vuole essere disturbato dovrà prestare molta attrenzione ogni volta che naviga in rete e viene chiesta un’autorizzazione.

Libretto postale, la tassa annuale che non piace ai consumatori

Libretto postale c’è una tassa che si paga ogni anno sul deposito, e questo non piace proprio ai consumatori, in cosa consiste?

Libretto postale ecco quando si paga la tassa

Il libretto postale è ancora una realtà molto usata dagli italiani. Questo perché i risparmi sono garantiti dallo stato. E non ci sono costi di apertura, chiusura e gestione ad eccezione degli oneri di natura fiscale. Tuttavia com’è noto, Poste italiane offre tanti tipi di libretto postale, ma tutti prevedono il pagamento di una tassa annuale. Sia che si tratta di libretti cartacei che demeterializzati, e anche nella variante dedicata ai minorenni.

Si tratta dell’imposta di bollo che si paga sui libretti postali, Postepay dotata di IBAN, e i titolari di conto corrente Bancoposta. Per tutti e tre i casi l’imposta si paga solo se ha una cifra in deposito, maggiore di 5 mila euro. La tassa è stata introdotta con il governo Monte, nel 2011 e da allora viene applicata tutti gli anni ai contribuenti. Una tassa che comunque non piace agli italiani, visto che ancora una volta si toccano i risparmi degli italiani, per il solo fatto di essere depositati.

Libretto postale, tra tasse ed imposte, ecco quanto si paga

Tra tasse ed imposte sul libretto postale c’è quella del 26% che il risparmiatore deve pagare sull’imposta sostitutiva sugli interessi maturati ogni anno. Inoltre sui libretti postali viene applicata l’imposta di bollo pari a 34.20 euro fino alla misura massima di 1.200 euro, per le persone fisiche. Mentre è di 100 euro per le persone giuridiche. Dunque l’importo si paga in maniera indiscriminata, purché sul conto ci sia una cifra pari o superiore a 5 mila euro. 

Gli interessi maturano dal giorno del versamento e fino alla data dell’estinzione del Libretto, con capitalizzazione annua al 31 dicembre. Il Libretto Ordinario assicura un tasso nominale annuo lordo dello 0,001%, in vigore dal 7 novembre 2019. Infatti basta fare un aggiornamento del proprio libretto è possibile verificare sia gli interessi che sono maturati nel corso dell’anno passato, sia la somma prelevata di 34,20 euro se si ha o si supera il limite previsto dalla legge introdotta dal 2011. Ecco, un semplice controllo annuale per avere sempre contezza dei propri risparmi.

Gli esclusi e i libretti più amati dagli italiani

La misura dell’introduzione dell’imposta di bollo rientra nel Decreto Salva Italia, nel governo Monti. Però tale imposta non si applica sui fondi pensioni e sui fondi sanitari. Tuttavia una cosa è certa, insieme ai buoni fruttiferi postali e i libretti sono la forma di risparmio più amata dagli italiani. Da una parte perché garantiti dallo Stato e dall’altra perché emessi da Cassa Depositi e Prestiti e distribuiti da Poste Italiane.

E se si supera il limite dei 5000 e non si vuole pagare la tassa? Un consiglio potrebbe essere quello di dedicare una somma ad un buono postale, che fanno abbassare il valore del libretto postale. Oppure aprire un altro libretto postale intestato a qualcuno di famiglia. Così nessuno tocca i risparmi, ma non è dovuta l’imposta, fino a che si mantengono i risparmi sono i 5 mila euro.

 

 

Life Coach: cosa fa e come si diventa

Cosa vuol dire Life Coach, di cosa si occupa questa nuova figura professionale e come lo si diventa? A queste e ad altre questioni daremo risposta nella nostra rapida guida, per scoprire come diventare Life Coach.

Life Coach, di cosa si tratta

Noto anche come “esperto motivazionale” o più letteralmente tradotto come “allenatore alla vita”, il life coach è un ruolo professionale molto attenzionato negli ultimi anni, ma di cosa si tratta nello specifico?

Il life coach facilita il percorso di crescita e di miglioramento personale e professionale. Il suo terreno di lavoro sono emozioni quali insicurezza, paura, insoddisfazione, stress e infelicità. Il suo scopo è quello di evidenziare e agevolare l’individuazione di obiettivi realizzabili e fornisce la motivazione per raggiungerli.

Come si diventa Life Coach

Come si diventa una figura professionale di tale calibro, quindi? Vediamo alcuni semplici passi per provare ad affrontare questo cammino per diventare una figura professionale identificabile come Life Coach.

Diventare un esperto motivazionale è possibile seguendo un percorso di formazione unito ad immancabile esperienza pratica. Vediamo, di seguito dieci step utili alla realizzazione:

  1. Iscriversi ad una scuola specializzata in coaching o un professionista/mentore per prepararsi e formarsi e realizzare, quindi un primo Master in Coaching Personalizzato
  2. Seguire uno studio approfondito di testi e materiali proposti dal proprio formatore/coach/mentor
  3. Affrontare sessioni di coaching personalizzate dedicate a se stessi e al proprio percorso
  4. Realizzare concretamente sessioni di coaching guidate con al fianco la supervisione del coach/mentore
  5. Associarsi ad una o più associazioni di categoria nazionali o mondiali, come, ad esempio la CWF (Coaching World Federation), o per l’Italia la APIC (Associazione Professionisti Italiani Coaching)
  6. Conseguire una certificazione almeno a livello Practitioner per l’abilitazione alla professione di Coach Certificato, ancora meglio se frequentando una Scuola di Coaching in abbinamento al proprio percorso professionale condotto con il proprio Coach, Formatore e Mentor (vedi qui le indicazioni relative alla Scuola di Coaching UP STEP)
  7. Approfondire le proprie capacità e seguire casi reali di coaching con supervisione del coach/mentore
  8. Conseguire certificazioni di livelli superiori e acquisire il titolo di Master Trainer o Master Coach
  9. Restare costantemente aggiornati sul percorso professionale con almeno 2 momenti formativi l’anno di weekend dedicati al coaching e alla formazione
  10. Dedicarsi a letture specifiche di approfondimento con almeno 1 libro significativo a semestre inerente il proprio percorso di coaching

Questi sono gli step fondamentali a cui sottoporsi per specializzarsi nel ruolo di Life Coach.

Ma quanto può guadagnare un life Coach

In ultimo, ma non ultimo, volendo valutare il lato economico di una scelta professionale del genere, vediamo quanto può costare la formazione e quanto può guadagnare un life coach.

Per quanto riguarda i costi di un corso di formazione per diventare life coach, possiamo dire che la spesa può variare tra i 3.000 euro e i 5.000 euro. Ma quanto si può guadagnare, per recuperare da tale investimento?

Stando ad una stima media, di questa professione, una singola sessione di coaching può costare intorno ai 50 euro, ma anche di più ed ovviamente il proprio livello e grado di preparazione può portare ad un costo più nutrito della propria sessione motivazionale. Più saranno le sessioni singole, più saranno i clienti e più il guadagno, ovviamente, sarà corposo alla fine del mese. Ma, sta di fatto che molti life coach guadagnano cifre abbastanza sostanziose, a fronte di un percorso di studio intenso e fruttuoso.

Questo dunque è quanto di più utile e necessario vi fosse da sapere in merito a questa figura professionale che da alcuni anni – e ancor più di recente – sta prendendo piede nel settore della libera professione, in un’ epoca in cui in molti cercano motivazioni e stimoli ulteriori per raggiungere i propri obiettivi e superare difficoltà emozionali, relazionali e lavorative.

Anticipo TFS o TFR e 730: la guida completa

I lavoratori al termine del rapporto di lavoro hanno diritto al Trattamento di Fine Rapporto o al Trattamento di Fine Servizio. E possono richiederne un anticipo visto che non sempre gli emolumenti come il TFS o il TFR maturato, vengono erogati perfettamente al termine del rapporto di lavoro. Per esempio se si tratta di chi va in pensione, l’anticipo è assai lieto visto che potrebbero servire soldi per i progetti più disparati.

E l’anticipo spesso viene richiesto ad una banca, che si sostituisce di fatto a quello che dovrebbe erogare il datore di lavoro. Un anticipo sotto forma di finanziamento quindi, con una garanzia che è lo stesso TFR o TFS spettante. La domanda che molti si pongono è se ci sono vantaggi fiscali. Qualcuno sostiene che ci siano vantaggi fiscali non indifferenti nel richiedere questo genere di emolumento anticipato. Ma è vero o è una falsa speranza? Vediamo la guida approfondita alla materia, alla luce delle tante novità introdotte.

Le detrazioni nella dichiarazione dei redditi, come funziona l’anticipo del TFR o del TFS nel modello 730

Sono i dipendenti statali e del pubblico impiego quelli a cui le normative vigenti offrono la possibilità di anticipare il TFR o il TFS. Lo ha previsto una legge del 2019. Si può chiedere una parte del TFS o TFR maturato o anche l’intero trattamento. Il dipendente pubblico ha diritto a ricevere la cosiddetta buonuscita alla fine del rapporto di lavoro. Ciò che viene accantonato mese per mese durante gli anni di servizio, può essere riscosso dopo essere andati in pensione.

Dal momento che per gli statali i tempi di attesa sono piuttosto lunghi per ricevere la liquidazione, ecco che le normative hanno concesso la possibilità di richiedere un anticipo. Anche perché in alcuni casi i tempi di attesa sono biblici. Infatti per chi va in pensione con la quiescenza di vecchiaia, si tratta di 16 mesi di attesa dalla data di uscita dal lavoro. Se invece si esce per collocamento a riposo d’ufficio o per chiusura del rapporto di lavoro per scadenza, si aspettano 15 mesi. Peggio ancora se si lascia il lavoro per dimissioni volontarie o per pensioni diverse da quelle di vecchiaia, cioè con i pensionamenti anticipati. In questo caso l’attesa supera i 2 anni. Sono infatti 27 mesi per chi esce con 41 anni e 10 mesi di contributi.

La banca, il finanziamento, gli interessi e le dichiarazioni dei redditi

Richiedere un finanziamento o un prestito in banca per l’anticipo del TFR o del TFS è una opzione che per quanto detto prima, può tornare piuttosto utile ai più. Proprio alla luce dei lunghissimi tempi di attesa.

È stato il decreto legge n° 4 del 2019, precisamente l’articolo 26 comma 7 che ha introdotto la possibilità di chiedere l’anticipo del versamento del TFR o del TFS tramite prestito bancario. Ed essendo un finanziamento bancario, inevitabile che ci siano interessi da pagare.

Le somme erogate come anticipo del TFS e del TFR non vanno inserite in dichiarazione dei redditi, che sia il modello 730 o il modello Redditi PF poco importa. Infatti gli emolumenti anticipati di Trattamento di Fine Servizio o di Fine Rapporto, non sono assoggettati alle imposte sui redditi non concorrendo alla formazione della base imponibile. Ma nemmeno gli interessi pagati sul prestito vanno inseriti. Infatti non è previsto niente a livello di detrazione fiscale per gli interessi pagati sull’anticipo. Nonostante ciò che si diceva, niente possibilità di scaricare una parte degli interessi dal reddito.

Vendere casa, cosa fare se un erede non vuole fare la successione?

Vendere casa è possibile solo se si è i proprietari del bene. Ma se si diventa co-eredi insieme ad un altro che non vuole fare la successione?

Vendere casa, il concetto la successione ereditaria

Spesso quando si eredita un bene, ci si chiede come destinarlo. A prescindere dal legame affettivo, il cui caso tipico è quello del ricevimento della casa di famiglia, occorre dichiararne l’accoglimento. Quando avviene la morte di un soggetto, gli immobili e i beni in suo possesso passano agli eredi. Per far ciò a prescindere se ci sia un testamento o meno, occorre fare la successione.

La dichiarazione di successione deve essere presentata dagli eredi, dai chiamati all’eredità, dai legali entro 12 mesi dalla dita di apertura della successione. Tale data di solito coincide con la data del decesso del contribuente. La dichiarazione di successione può essere presentata da uno degli eredi, indicando ovviamente tutti gli altri, attraverso:

  • i servizi telematici;
  • tramite un intermediario abilitato;
  • presso l’ufficio competente dell’Agenzia delle entrate.

I costi connessi alla dichiarazione di successione

Se si eredita un immobile, prima di presentare la dichiarazione di successione occorre calcolare e versare le imposte

  • ipotecaria
  • catastale
  • di bollo
  • la tassa ipotecaria e i tributi speciali (per esempio, per le formalità ipotecarie).

Il pagamento delle somme dovute va effettuato con addebito sul conto corrente aperto presso una delle banche convenzionate con l’Agenzia delle entrate o Poste Italiane S.p.a intestato al dichiarante oppure al soggetto incaricato della trasmissione telematica della dichiarazione. Per questo motivo, quando si compila la dichiarazione vanno indicati il codice Iban del conto sul quale addebitare le somme dovute e il codice fiscale dell’intestatario del conto corrente.

Ma cosa succede se un erede non vuole fare la successione?

Quando ci sono più eredi e uno o più non vogliono firmare la successione, una soluzione è quella di rivolgersi al tribunale. Occorre chiedere al giudice di competenza di avviare un procedimento giudiziale dell’eredità. Infatti il codice Civile stabilisce che nel caso in cui un erede non voglia firmare la successione, è possibile chiedere lo scioglimento della comunione.

Nel caso in cui non si riesca a trovare un accordo sulla divisione, ogni erede può presentare una domanda di divisione, indipendentemente della volontà degli altri co-eredi. Ma attenzione, se questo procedimento deve essere fatto prima della vendita di un immobile, proprio perché richiede tempi e costi relativi alla giustizia. Quindi se ci fosse un compratore interessato, spesso, non aspetta la tempistica prevista e vendere casa sarà impossibile.

Vendere casa, altra soluzione se l’erede non vuole firmare

Tuttavia altra soluzione da applicare se un erede non vuole firmare la successione è quella della rinuncia all’eredità. Si tratta di un atto con il quale di chiamato dichiara di non accettare l’eredità e dunque di non subentrare nella posizione giuridica del de cuius. Tale diritto si esercita con espressa dichiarazione scritta da effettuarsi di fronte a un notaio oppure al tribunale della cancelleria.

In questo ultimo caso è necessario portare con se:

È necessario inoltre presentare i seguenti documenti:

  • la carta d’identità e il codice fiscale dei dichiaranti;
  • il codice fiscale del defunto;
  • se ci sono minori, tutelati o amministrati una copia conforme dell’autorizzazione del giudice tutelare;
  • una copia conforme del testamento se presente;
  • l’originale certificato di morte.

E’ un negozio giuridico unilaterale, che ha effetto per tutta la durata della vita di chi ha rifiutato, anche se ci sono alcuni casi in cui è revocabile. Pertanto prima di vendere casa, ricevuta in eredità, è davvero importante individuare gli altri co-eredi. Al momento che tutti partecipano alla successione, e al pagamento delle rispettive tasse, l’immobile può essere compravenduto, almeno dal punto di vista della legittimità dei reali proprietari.

 

 

 

Superbonus 110%, si può utilizzare per sostituire gli impianti di climatizzazione?

Si può utilizzare il superbonus 110% come detrazione fiscale per la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale o termici esistenti? La risposta è positiva in alcuni casi, innanzitutto rispettando il requisito che l’intervento debba risultare come “trainante” e da effettuare nelle parti comuni di un edificio. La sostituzione può avvenire con impianti centralizzati per il rinfrescamento, il riscaldamento e la fornitura di acqua calda sanitaria. Deve inoltre essere raggiunto l’obiettivo del miglioramento della classe energetica arrivando almeno alla classe A. Inoltre, la sostituzione può avvenire con impianti a pompa di calore, inclusi gli impianti geotermici e ibridi o di microgenerazione o a collettori solari.

Quanto tempo richiede la sostituzione di un impianto termico in superbonus 110%?

Rientrano nell’intervento trainante e nel superbonus 110% anche le spese inerenti lo smaltimento e la bonifica dell’impianto che si va a sostituire e l’allaccio ai sistemi di teleriscaldamento efficiente. Quest’ultimo intervento, tuttavia, interessa esclusivamente i comuni montani. Su questi ultimi non devono essere in corso procedure di infrazione. In termini di tempo per eseguire l’intervento di sostituzione degli impianti termici si deve tener presente della valutazione preliminare. In linea di massima si può stimare una durata dei lavori che va da una a quattro settimane. Il tutto dipende dalla grandezza dell’impianto. Se l’intervento implica lavori alla distribuzione o ai terminali di emissione si deve mettere in conto una durata anche di mesi.

Interventi di sostituzione impianti termici sulle parti comuni di un edificio, si può utilizzare il superbonus 110%?

Si può utilizzare il superbonus 110% per interventi di sostituzione degli impianti termici delle parti comuni di un edificio? La risposta è positiva, purché la detrazione fiscale del 110%, da utilizzare in quattro anni a partire dal 2022 (cinque anni in precedenza), abbia come limiti di spesa:

  • 20 mila euro da moltiplicare per le prime otto unità immobiliari componenti l’edificio;
  • 15 mila euro da moltiplicare per il numero delle unità immobiliari componenti l’edificio oltre le prime otto.

Superbonus 110%, quando si possono fare lavori di isolamento termico per i condomini?

È da rilevare che il superbonus 110% spetta anche ai condomini, pure per un numero eccedente le due unità immobiliari (comprese le imprese, i professionisti e le società) che detengano l’unità abitativa componente l’edificio. Le unità immobiliari possono essere abitazioni, seppure secondarie, che rientrino nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9. Può trattarsi anche di unità non abitative purché i condomini abbiano superficie residenziale di oltre il 50%. Per i lavori sulle parti comuni dell’unico proprietario dell’edificio (con due, tre o quattro unità abitative) sono possibili i lavori di sostituzione degli impianti termici, anche per le case a schiera.

Superbonus 110%, si può ottenere per la sostituzione degli impianti termici effettuata dai privati?

I successivi casi di interventi per la sostituzione degli impianti termici riguardano quelli effettuati da persone fisiche non esercenti attività di impresa. Si tratta di lavori fatti da privati, e le unità immobiliari non sono accatastate nelle categorie A/1, A/8 e A/9. Sostituzioni di impianti termici sulle singole unità immobiliari residenziali e pertinenze inerenti all’interno di edifici nei condomini (quale può essere un appartamento al quinto piano di un condominio) non sono possibili con il superbonus 110%. La detrazione fiscale non spetta perché questo lavoro risulta agevolabile solo se riguarda le parti comuni degli edifici.

Superbonus 110% e sostituzione impianti termici su edifici funzionalmente indipendenti o su una sola unità immobiliare

Ulteriore situazione è quella per la quale i lavori di sostituzione degli impianti termici dei privati riguardi unità immobiliari collocate dentro gli edifici plurifamiliari che siano funzionalmente indipendenti. Le unità dispongono di uno o più accessi indipendenti dall’esterno. Si tratta, ad esempio, di villette a schiera orizzontali, bifamiliari o trifamiliari. Simile disciplina riguarda gli interventi di sostituzione dell’impianto termico effettuati da privati su un edificio composto da una sola unità immobiliare non unifamiliare oppure non residenziale. Rientrano in questi casi i capannoni o gli uffici costituenti un edificio.

Superbonus 110% per sostituire gli impianti termici su edifici indipendenti o su una sola unità immobiliare: si può?

In tutti questi casi la detrazione fiscale del superbonus 110% non spetta. Infatti, questi lavori possono essere agevolabili solo se vengono svolti sulle parti comuni di un edificio. Inoltre, le parti comuni devono riguardare solo i condomini, come specificato dall’Agenzia delle entrate con la comunicazione numero 24/E dell’8 agosto 2020.

Dimissioni volontarie: qual è la procedura corretta?

Quando un lavoratore dipendente vuole cessare il rapporto di lavoro con il proprio datore deve procedere alle dimissioni volontarie. La normativa prevede che sia dato un congruo preavviso, inoltre prevede che sia seguita una specifica procedura che è telematica. Ecco la procedura corretta per le dimissioni volontarie.

Come procedere alle dimissioni volontarie telematiche

Può capitare che si riceva un’offerta di lavoro migliore o che semplicemente non si abbia più desiderio di continuare un determinato rapporto di lavoro, oppure di aver voglia di cambiare vita, cosa che è successa a molti nel periodo della crisi pandemica quando sono maturate circa 500.000 casi di dimissioni volontarie. In questo caso per liberarsi dagli obblighi contrattuali tra le parti c’è un unico modo, cioè le dimissioni volontarie. Con l’approvazione del decreto legislativo 151 del 2015, articolo 26, dal 12 marzo 2016 è possibile presentare le dimissioni solo in modalità telematica. Ecco di seguito le procedure che è possibile seguire.

La prima procedura può essere gestita direttamente dal lavoratore, questi deve comunicare al datore di lavoro le proprie dimissioni. Deve quindi andare al sito www.cliclavoro.gov.it , accedere all’area personale attraverso l’uso del codice SPID o con CIE e quindi procedere all’invio telematico delle dimissioni attraverso la compilazione del modulo presente sul sito. Una volta entrati sul sito attraverso le proprie credenziali di identità digitale, si può accedere ai contratti di lavoro in essere e di conseguenza di può compilare il modulo.

Nel caso in cui la lavoratore non sia in grado di procedere in modo autonomo è possibile avvalersi della collaborazione di intermediari come patronati, organizzazioni sindacali, enti bilaterali, consulenti del lavoro, Ispettorato Territoriale del Lavoro e Commissioni di certificazioni. Tali enti, dopo aver valutato l’effettiva volontà del lavoratore di recedere dal contratto, comunque interverranno attraverso il sito www.cliclavoro.gov.it

Come procedere con smartphone o tablet

Dal sito del ministero del lavoro https://www.lavoro.gov.it/strumenti-e-servizi/Dimissioni-volontarie/Pagine/default.aspx è possibile anche scaricare la App che consentirà di compilare il modulo da smartphone o tablet. In questo caso tramite l’App IO si potranno ricevere anche notifiche.

Per conoscere tutte le funzionalità dell’App IO, leggi l’articolo: App IO: cos’è, come scaricarla e quali servizi sono accessibili

L’invio telematico delle dimissioni volontarie è stato inserito nel nostro ordinamento per evitare che le dimissioni siano date dal lavoratore in seguito a forzature e comunque contro la volontà dello stesso lavoratore. Il lavoratore ha la facoltà di revocare le dimissioni entro 7 giorni.

Invio telematico delle dimissioni volontarie: in quali casi non serve?

Ci sono delle eccezioni a questa procedura telematica si tratta di:

  • lavoratori domestici;
  • lavoratori marittimi;
  • dipendenti del settore pubblico
  • dimissioni date durante il periodo di prova;
  • procedure svolte in sedi protette, in particolare nel caso in cui sia intervenuta una commissione di conciliazione presso Ispettorati territoriali del lavoro e le Commissioni di certificazione. Sono parificate a queste le dimissioni date dalle lavoratrici madri nel periodo in cui vige il divieto di licenziamento. In questo caso le dimissioni devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali competente per territorio.

Sanzioni e informazioni finali

Se il datore di lavoro manomette i moduli inviati dal lavoratore può incorrere in pesanti sanzioni: minimo 5.000 euro e massimo 30.000 euro. Infatti i modelli telematici di comunicazione delle dimissioni potranno essere visualizzati in sola lettura anche dai datori di lavoro.

Ricordiamo che le dimissioni devono essere date con un congruo periodo di preavviso, si tratta di un lasso di tempo indicato nel CCNL del settore e che serve al datore di lavoro per cercare un sostituto e dargli un’adeguata formazione al fine di poter ottemperare alle sue mansioni.

Ricordiamo che la disciplina prevista per il contratto di lavoro a tempo determinato è diversa, infatti i n questo caso non sono previste le dimissioni, ma il diritto di recesso per giusta causa e tramite accordo tra datore di lavoro e lavoratore.

Contributi a fondo perduto al commercio al dettaglio: quanto spetta ai negozi?

Aiuti alle imprese del commercio per il caro prezzi dell’energia e per le perdite dovute alla pandemia da Covid arrivano con i contributi a fondo perduto dei negozi al dettaglio e degli ambulanti. La misura assicurerà benefici per 200 milioni di euro nel 2022. Tra i beneficiari figurano, tra gli altri, i venditori, gli ambulanti, i negozi di abbigliamento e di calzature. È necessario aver subito una perdita del fatturato di almeno il 30% rispetto al 2019.

Contributi a fondo perduto per attività al dettaglio, quali negozi possono beneficiarne?

Per i contributi a fondo perduto alle attività commerciali al dettaglio si va dai negozi che vendono prodotti per utilizzo domestico agli articoli ricreativi e culturali, passando per l’abbigliamento e le calzature. Ma sono inclusi anche il commercio al dettaglio di orologi, di gioielli e di cosmetici. I contributi a fondo perduto sono previsti dall’articolo 2 del decreto legge numero 4 del 2022, cosiddetto “Sostegni ter”. Le attività beneficiarie devono essere identificate tramite specifici codici Ateco.

Contributi a fondo perduto negozi: come calcolare le perdite di fatturato del 2021 rispetto al 2019

La legge di conversione del decreto “Sostegni ter” ha apportato qualche modifica, soprattutto di tipo formale. Le attività beneficiarie dei contributi a fondo perduto della vendita al dettaglio devono aver raggiunto ricavi nel 2019 non eccedenti i due milioni di euro. La riduzione dei guadagni deve essere, invece, maggiore del 30% rispetto al 2019. Per la determinazione della riduzione dei fatturati è necessario far riferimento al comma 1, lettere a) e b) dell’articolo 85, del Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir). Gli anni da rapportare sono il 2021 rispetto al 2019.

Calcolo di quanto spetta come contributo per le attività commerciali al dettaglio e ambulanti

La determinazione del contributo a fondo perduto spettante per le attività di vendita al dettaglio e per gli ambulanti passa per tre fasce di ricavi e di perdite. Lo prevede il decreto che determina il contributo spettante in base a una percentuale variabile che scaturisce dalla differenza tra il totale dei ricavi medi mensili del periodo di imposta 2021 e il totale dei ricavi medi mensili riferiti al periodo 2019.

Le tre fasce per determinare i contributi a fondo perduto delle attività commerciali al dettaglio

Sulla base della percentuale variabile dei contributi a fondo perduto spettanti alle attività commerciali al dettaglio, sono state determinate le tre fasce del:

  • 60% della perdita per le attività che nel 2019 non hanno superato i 400 mila euro di ricavi;
  • 50% per le attività che nel 2019 hanno prodotto ricavi tra i 400 mila euro e un milione di euro;
  • 40% per le attività che nel 2019 hanno prodotto ricavi tra uno e due milioni di euro.

Negozi di commercio al dettaglio e ambulanti, come presentare domanda per i contributi a fondo perduto?

Per la presentazione delle domande dei contributi a fondo perduto a favore delle attività e dei negozi al dettaglio, inclusi gli ambulanti, è necessario attendere il provvedimento in uscita del ministero per lo Sviluppo Economico (Mise). Il decreto ministeriale fisserà le modalità di erogazione dei contributi e gli altri parametri occorrenti per beneficiare degli aiuti. In ogni caso, la domanda dovrà essere presentata on line sul sito del Mise.

Requisiti per la presentazione delle domande dei contributi a fondo perduto per il commercio al dettaglio

Ai fini della presentazione delle domande dei contributi a fondo perduto per le attività commerciali al dettaglio e per gli ambulanti è necessario che l’impresa richiedente:

  • abbia sede legale oppure operativa in Italia;
  • risulti costituita, iscritta e attiva nel Registro delle imprese;
  • non sia incorsa in procedure di liquidazione volontaria, concorsuali e non sia già in difficoltà al 31 dicembre 2019, oltre a non avere sanzioni interdittive.

 

Partite IVA e lettera di compliance dell’Agenzia delle Entrate

In questi giorni molti titolari di Partita Iva stanno ricevendo una lettera di compliance dall’Agenzia delle Entrate, ma di cosa si tratta e cosa è necessario fare?

Cos’è la lettera di compliance che sta inviando l’Agenzia delle Entrate?

Le lettere di compliance che in questi giorni l’Agenzia delle Entrate sta inviando ai titolari di partita Iva sono semplici inviti a regolarizzare la posizione con il fisco e questo perché confrontando le dichiarazioni presentate dal contribuente con i dati che l’Agenzia ha ricavato dalla banca dati, emergono delle dissonanze e di conseguenza è necessario regolarizzare la posizione. Dal punto di vista tecnico la lettera di compliance non è un accertamento fiscale, ma una comunicazione che in un certo senso suggerisce di procedere al ravvedimento operoso. Naturalmente nel caso in cui il contribuente non dovesse far fronte a questo onere si procederà ad un vero e proprio accertamento fiscale.

La lettera di compliance non essendo un avviso di accertamento non può essere impugnata, ma si possono fornire chiarimenti al fisco, ad esempio fornendo documenti che possano suffragare le proprie dichiarazioni o comunque la propria posizione. Può essere considerata una sorta di colloquio amichevole con il fisco.

Cosa indica la lettera di compliance dell’Agenzia delle Entrate?

In primo luogo nella lettera di compliance sono indicate le generalità del contribuente con numero di codice fiscale, numero della comunicazione e anno di imposta oggetto della lettera, codice dell’atto.

Molto importante al fine di individuare le discrepanze tra quanto dichiarato e quanto rilevato dall’Agenzia delle Entrate è la differenza tra il totale delle operazioni imponibili dichiarate e quelle che invece risultano tenendo anche in considerazione le fatture elettroniche inviate.

Infine sono indicate al contribuente le modalità attraverso cui può accedere ai dati.

L’accesso ai dati relativi alla propria posizione verso il fisco sono contenuti nel cassetto fiscale, si tratta di un servizio messo a disposizione dall’Agenzia delle Entrate al fine di controllare le proprie fatture e ricevute. Contiene gli atti registrati a partire dal 1986, i rimborsi richiesti dalla dichiarazione dei redditi a partire dal 1994 e le dichiarazioni di imposta dal 1998. Si può accedere all’area privata attraverso i siti fisconline o entratel e con il proprio SPID. In questo caso è possibile inviare comunicazioni solo in formato PDF oppure TIF/TIFF , ogni documento non può avere una dimensione maggiore di 5mb, in caso di documenti di maggiore “peso” è bene suddividerli in più file.

La lettera di compliance è particolarmente dettagliata, infatti sono indicate le operazioni inerenti la dichiarazione oggetto di attenzione con il metodo analitico, in questo modo diventa più facile per il contribuente fornire dichiarazioni e documenti.

Lettera di compliance e ravvedimento operoso

Naturalmente nel momento in cui ci si rende conto che effettivamente l’Agenzia delle Entrate ha “ragione”, il consiglio è quello di operare attraverso il ravvedimento operoso. Questo consente di pagare le maggiori somme accertate con una riduzione delle sanzioni applicate. I nuovi importi saranno così calcolati:

  • maggiore imposta dovuta;
  • interessi legali maturati dal momento in cui si doveva effettuare il pagamento al momento in cui effettivamente lo stesso si esegue;
  • applicazione della sanzione in misura ridotta.

Per compiere le operazioni è necessario utilizzare il modello F24.

Nel caso in cui ci siano dubbi sulla lettera di compliance è possibile chiedere delucidazioni chiamando al numero verde 800.909.696 da telefono fisso oppure allo 06.96668907 da cellulare dal lunedì al venerdì dalle ore 9:00 alle ore 17:00. Oppure recandosi alla direzione provinciale di appartenenza o all’ufficio territoriale di competenza. Naturalmente è possibile comunicare con l’Agenzia delle Entrate anche tramite il proprio commercialista di fiducia.