Il punto della situazione sulla riforma delle pensioni, cosa accade adesso?

Anche se ancora devono ripartite i summit tra sindacati e Governo in materia previdenziale, l’argomento pensioni è sempre al centro del dibattito anche politico. Sono diverse le misure che potrebbero fare capolino l’anno prossimo con la nuova legge di Bilancio. Misure che possono piacere o meno, ma che rispondono senza dubbio alle esigenze di qualcuno che vede nella riforma l’unica via per poter lasciare finalmente e in maniera anticipata il lavoro.

la Quota 41 per tutti prima ipotesi di nuove pensioni

Quello che era il cavallo di battaglia della Lega di Matteo Salvini, oppure dei sindacati, era e resta la quota 41 per tutti. Si tratta della misura principale su cui già all’epoca dell’introduzione di quota 100 nel sistema, la Lega considerava come il passo successivo alla Riforma e alla cancellazione della legge Fornero. Una misura questa con cui, in pratica, si entra nello scenario di una vera e propria nuova pensione anticipata ordinaria. Infatti sarebbe l’alternativa ai 42,10 anni che servono ai maschi oppure ai 40,10 anni che servono alle donne per le attuali pensioni anticipate. Con questa misura aperta a tutti, chiunque senza limiti di età raggiunge i 41 anni di contributi potrebbe lasciare il lavoro. La misura è altamente costosa per le casse dello Stato e sarebbe un autentico colpo di spugna all’attuale pensione anticipata ordinaria. Per questo si cerca di donare alla misura alcune penalizzazioni che la rendano meno appetibile.

Le penalizzazioni di quota 41 per tutti

Una di queste è senza dubbio il ricalcolo contributivo dell’assegno. Per uscire con 41 anni di contributi senza dover attendere i 42 anni 10 mesi nel caso degli uomini, bisognerebbe accettare un ricalcolo della prestazione con il metodo più penalizzante. Dalle ultime buste paga e retribuzioni, si passerebbe ai contributi versati. Questo significa un netto taglio della prestazione, con penalizzazioni che potrebbero superare di gran lunga il 30%. Questo a fronte di un anno e dieci mesi di anticipo per gli uomini o soltanto 10 mesi per le donne. Che sia una penalizzazione utile a scremare la platea dei potenziali beneficiari è evidente.

La flessibilità per le pensioni, si partirebbe dai 62 anni, ma a che costo?

Un altro cavallo di battaglia, questa volta più dei sindacati che della politica è la pensione flessibile dai 62 anni. In questo caso si cercherebbe una soluzione per permettere a quanti raggiungono questa età, di poter lasciare il lavoro a partire dai 20 anni di contributi versati. La misura sarebbe un toccasana soprattutto per quanti si trovano a svolgere un lavoro talmente pesante da rendere problematica la permanenza dello stesso fine 67 anni di età. Anche perché di penalizzazioni in questo senso ne verrebbero introdotte diverse. Non per volere dei sindacati, che vogliono una misura flessibile neutra da penalizzazioni, ma per volere del governo che deve barare anche ai contributi.

La pensione flessibile dai 62 anni

La pensione flessibile a 62 anni infatti, potrebbe essere introdotta con un taglio lineare di assegno per ogni anno di anticipo. In buona sostanza il pensionato dovrebbe accettare un taglio fra il 2% e il 3% dell’assegno per ogni anno dai 62 ai 67. L’alternativa sarebbe anche in questo caso il ricalcolo contributivo della prestazione, che inciderebbe di meno rispetto alla quota 41 per tutti naturalmente, perché si tratta di carriere più corte partendo dai 20 anni.

La conferma delle pensioni dai 64 anni

Altre ipotesi sono quelle di confermare le uscite a 64 anni come la quota 102 di quest’anno- In questo caso potrebbe entrare nel sistema una pensione per tutti e flessibile proprio dai 64 anni. Ed anche in questo caso con taglio lineare di assegno per tutti gli anni di anticipo. L’alternativa sarebbe quella che richiama alla vecchia proposta di Pasquale Tridico, cioè del presidente dell’INPS. In questo caso a 64 anni si otterrebbe soltanto la parte contributiva della pensione, per poi andare a percepire anche la parte retributiva solo a 67 anni. Un taglio che durerebbe quindi solo lo stretto giro dei tre anni che passano dai 64 e 67.

Ape sociale e opzione donna strutturali

Un’altra via sarebbe la conferma, se non in maniera strutturale quantomeno per un altro anno, di opzione donna è dell’Ape sociale. La prima misura potrebbe essere estesa anche a chi i 58 o 59 anni di età e i 35 anni di contributi li ha completati nel 2022. Infatti la vecchia misura è scaduta il 31 dicembre 2021. In pratica nel 2022 potranno lasciare il lavoro con opzione donna solo le lavoratrici che hanno completato entrambi i requisiti entro la fine dell’anno scorso. L’idea sarebbe quindi di estendere questa possibilità anche a chi questi requisiti di completa nel corso del 2022.

Le pensioni con l’APE anche nel 2023

Per l’Ape sociale invece si tratta di confermare una misura che già oggi è la principale misura su cui la politica è sicura di aver fatto una specie di capolavoro. Si tratta di una misura che permette una pensione anticipata soltanto a determinate categorie di soggetti, tutti con alcune problematiche di varia natura. L’idea sarebbe di rendere strutturare la misura, magari estendendo la possibilità a più lavori gravosi possibile, aumentando i codici Ateco che già a gennaio 2022 hanno subito un grosso incremento. In altri termini si potrebbe allargare la platea dei potenziali beneficiari di una misura, che resterebbe temporanea e limitata.

Come funziona la pensione con l’Ape

L’Ape sociale non può andare oltre i 67 anni di età. Ed è un assegno di accompagnamento alla vera e propria pensione di vecchiaia ordinaria. I beneficiari infatti la prenderebbero a partire dai 63 anni e fino ai 67. E resterebbero tutte le penalità oggi presenti, a partire dal fatto che la misura è erogata su 12 e non su 13 mensilità. Resterebbe il divieto di reversibilità della prestazione in caso di morte dei beneficiario. E resterebbe anche il blocco relativo alle maggiorazioni sociali, all’integrazione al minimo e agli assegni familiari.

Nuovi dati Istat: il settore automobilistico non è così inquinante come sembra

Se le ultime decisioni dei governi di tutto il mondo, Europa compresa, dicono una cosa, i nuovi dati Istat ne mettono in luce un’altra. L’argomento è la transizione elettrica per il settore automobilistico. Ormai è chiaro che la mobilità su gomma andrà nella direzione della sostenibilità ecologica. Entro il 2035 le auto a trazione elettrica diventeranno le uniche in commercio, e questo per lo meno per quanto riguarda i nuovi veicoli. Ma è davvero così necessario poi rivoluzionare completamente il settore? È così necessario pensare alla completa eliminazione delle auto tradizionali, le auto a combustione o endotermiche?

Secondo l’Istat produrre auto non pare così inquinante

Stando a quanto dice l’Istat, probabilmente è una esagerazione. E se non dal punto di vista dell’impatto ecologico per la circolazione dei veicoli, quanto meno per i cicli produttivi delle fabbriche di veicoli in generale. È ciò che possiamo benissimo anticipare, giudicando i dati che l’Istat ha appena fornito nel suo consueto rapporto annuale.

Il rapporto annuale Istat 2022 e l’inquinamento del settore automobilistico

In 10 anni, cioè da inizio 2010 a fine 2019, l’impatto del settore automobilistico sull’inquinamento non è stato così grave come sembrerebbe in base alle ultime previsioni sulla mobilità elettrica. E ciò che emerge dal consueto rapporto annuale 2022 da parte dell’Istituto nazionale di statistica. Come si legge sul sito “motor1.com”, sulle circa 300 pagine del rapporto dell’Istituto, spesso esce fuori l’argomento automobile o autoveicoli in genere. Ma il collegamento di questi argomenti con l’inquinamento che sicuramente farà notizia. In effetti, almeno secondo i dati dell’Istat, emerge a chiare lettere che l’industria automobilistica in Italia non sia così inquinante, o per lo meno, lo sia in misura inferiore a tanti altri settori, di cui si parla poco da questo punto di vista. Il fatto è che sul settore Automotive l’attenzione è massimale per via della transizione elettrica che porterà al cambio della trazione delle auto e dei veicoli.

Cosa e come inquina il settore dell’auto rispetto a tanti altri settori

Ciò che va detto però è che l’argomento trattato dal sito prima citato non riguarda la circolazione dei veicoli, che poi è alla base delle operazioni dei governi che puntano alla transizione elettrica. Infatti si parla di inquinamento durante i cicli produttivi delle auto e dei veicoli in genere. Produrre auto non è inquinante come altri cicli produttivi di altri settori. Infatti secondo i dati dell’Istituto, i settori della metallurgia, dell’agricoltura e della navigazione sono i più nocivi a livello ambientale. Come inquinamento dei cicli produttivi il settore automobilistico inquina meno anche di quelli dediti alla produzione di minerali non metalliferi. E pari anche al settore dell’aviazione, del legno e sughero e degli alimenti e bevande.

Cambiare conviene? Tutti i dubbi che molti si pongono

In altri termini il settore automobilistico dal punto di vista dei cicli produttivi ha un basso impatto ambientale, alla pari di altri settori come il tessile, l’abbigliamento e i settori di manifatturieri in genere. Resta il fatto che per i governi la circolazione delle auto a benzina o a gasolio inquina molto e pertanto si cerca di intervenire cambiando. Ma occorrerà cambiare anche il ciclo produttivo. Infatti una cosa è produrre auto a propulsione endotermica, un’altra sarà produrre auto elettriche. Con la speranza che l’impatto ambientale della produzione delle nuove auto elettriche sia lo stesso di quelle delle auto attuali.

La circolazione dei veicoli impatterà di meno, questo è certo

Una cosa tutt’altro che è certa dal momento che in molti mettono in luce il fatto che produrre auto elettriche potrebbe essere più inquinante di produrre auto a propulsione termica, cioè le attuali benzina e gasolio. Senza considerare poi eventuali problematiche relative allo smaltimento delle nuove batterie per auto a trazione elettrica. In altri termini, siamo alla fonte di un grande cambiamento, che potrebbe non essere benefico come si immagina. Resterebbe di fatto solo la diminuzione delle emissioni inquinanti di C02 da circolazione con le auto. Perché sui cicli produttivi sono chi conosce bene la materia oggi è autorizzato a fare previsioni.

Aumento delle spese? Le famiglie cambiano abitudini, ecco cosa tagliano

È davvero da troppi mesi ormai che la vita degli italiani è cambiata drasticamente per via degli aumenti del costo della vita. Tutto è aumentato, dalle bollette per le utenze domestiche di luce, acqua e gas, ai carburanti, dai beni di prima necessità e quindi anche da quelli alimentari, a quelli che possiamo definire hobby. E inevitabilmente sono cambiate le abitudini degli italiani. Infatti ciò che prima si poteva fare adesso per ovvie ragioni economiche non si può fare più. E gli italiani si stanno adeguando al cambiamento.

Per coprire le bollette cambiano le abitudini dei cittadini4

Non c’è momento di crisi in cui una persona non sceglie quali sono le priorità. Inevitabile che anche in questa fase di grave crisi economica partita ormai da oltre due anni con l’inizio della pandemia, gli italiani iniziano a tagliare il superfluo. L’aumento enorme delle bollette dell’energia elettrica, del gas metano e dell’acqua, impatta in maniera evidente sulle finanze di una famiglia. Stesso discorso i può fare anche per l’aumento del carburante che ha reso l’utilizzo della macchina un vero e proprio lusso. Se a questo aggiungiamo l’aumento del costo della vita anche per i beni di prima necessità, perché sono implementati i prezzi anche dei prodotti alimentari, è evidente che dove si può si stringe la cinghia. E le famiglie cambiano le loro classiche abitudini, eliminando il superfluo dal paniere delle spese mensili ed annuali.

Quali sono le spese che le famiglie adesso tagliano alla luce dell’aumento del costo della vita

Inevitabile che si parte dalle vacanze quando si parla di spese superflue. Molti storceranno il naso nel considerare le vacanze una cosa superflua. Infatti il meritato riposo dopo un anno di lavoro da molti era da sempre visto come una priorità. Oggi però alla luce di quello che abbiamo detto prima e quindi per la grave crisi economica, non sono pochi gli italiani che rinunceranno a questi periodi di relax per risparmiare soldi che serviranno per le esigenze primarie di un nucleo familiare. Anche gli hobby rientrano in questa categoria di spese superflue. È la Confcommercio per il tramite del suo ufficio statistico a mettere in luce questo aspetto della vita degli italiani a cui prima nessuno ci aveva pensato. Ormai sull’economia di un nucleo familiare le spese obbligatorie, cibo, bollente e carburante per esempio, incidono quasi per il 43%. Una percentuale enorme del budget complessivo annuale di una famiglia. E si taglia altrove.

I dati dell’allert di Confcommercio su aumento e crisi

Secondo la Confcommercio quindi il primo impatto di questo cambio di abitudini delle famiglie riguarda sicuramente le vacanze estive. Molte le famiglie che hanno già rinunciato al viaggio organizzato in tempi non sospetti. E molte altre ci stanno pensando in questi giorni, con le rinunce e le disdette che fioccano mai come in questa fase. Ma è inevitabile che il cambio di questa esigenza porti molto famiglie anche a rinunciare a hobby che prima facevano parte della quotidianità. Parliamo della palestra per esempio piuttosto che dello sport. Ma se gli hobby e il superfluo che possono essere le vacanze, sono un aspetto del problema, bisogna allargare il campo anche ad altro. Perché una crisi di questo tipo finirà necessariamente con l’incidere anche sulle spese che tanto superflue prima non erano.

Cambiano le necessità e si rinviano acquisti già programmati

Per esempio piuttosto che cambiare auto senza pensarci troppo, non sono poche le famiglie che hanno rimandato a tempi migliori questo acquisto. Si propende a sistemare la vecchia auto piuttosto che comperarne una nuova. Un discorso simile che si può fare per un televisore, un frigorifero, la lavatrice e così via. Figuriamoci chi aveva programmato di cambiare la cucina di casa, oppure di sistemare il box auto e così via. I risvolti della crisi saranno davvero cosa comune in molti settori. Questo perché incideranno molto proprio su tutto il tessuto economico globale della nazione, con le famiglie che andranno ad ingessare interi settori lavorativi che prima erano funzionali e funzionanti. Ma la preoccupazione di molti è che questa grave situazione tenderà sempre ad andare peggio. Soprattutto dal momento che se i soldi non circolano, anche in cose non propriamente di primaria necessità, le ricadute anche a livello occupazionale sugli addetti ai lavori di questi settori saranno enormi e continueranno a far aumentare questo stato di necessità della nazione.

Molte auto in meno si produrranno per la crisi dei microchip, ecco perché

La parola semiconduttori o microchip mai come negli ultimi mesi è diventata di pubblico dominio in Italia come nel resto del Mondo. Infatti dal computer al tablet, dallo smartphone alle moderne auto, sono strumenti questi indispensabili per completare il processo produttivo. Basti pensare che per ogni auto sembra che ce ne vogliono circa 3.000. Sono le componenti elettroniche che fanno girare tutto l’apparecchio tecnologico su cui servono. Per esempio necessitano di molti microchip le centraline delle moderne auto. Perché è balzato agli onori della cronaca questo piccolo componente elettronico? Il motivo è la grave carenza di queste componentistiche che minano la produzione di molte apparecchiature, auto comprese appunto.

La crisi dei microchip e gli operai di Stellantis in Italia, ecco lasituazione

I lavoratori delle fabbriche italiane di Stellantis, cioè del colosso del settore automobilistico nato dalla fusione tra i francesi di Peugeot e gli italiani della Fiat, sanno bene di cosa parliamo. Infatti le ripetute casse integrazioni, le ripetute chiusure degli stabilimenti, e i progetti di riduzione e taglio del personale, partono proprio dalla carenza di queste componentistiche elettroniche. Infatti ogni qualvolta da Mirafiori a Pomigliano, da Melfi a Cassino, la fabbrica chiude, il direttivo aziendale parla di mancanza di componenti. E sono proprio questi microchip (altrimenti detti semiconduttori), di cui le aziende italiane ma anche quelle del resto del Mondo si approvvigionano da Paesi quali Corea, Cina e Taiwan, ad essere al centro di queste carenze.

Stellantis e la crisi dei semiconduttori

Qualche tempo fa perfino il numero 1 di Stellantis, cioè l’amministratore delegato Carlos Tavares ha sottolineato come con le problematiche relative ai microchip si dovranno fare i conti ancora per diversi mesi. La crisi di queste parti elettroniche sottolineata dal CEO Tavares, cioè da quello che una volta era il compianto Sergio Marchionne, riguarda tutti. Infatti la crisi delle materie prime e l’aumento del costo delle stesse ha portato i paesi produttori a chiudere i rubinetti delle forniture. Se a questo colleghiamo anche le problematiche relative alla transizione elettrica che le case costruttrici di auto avranno da qui a qualche anno, è evidente che le problematiche che si abbatteranno anche sui lavoratori nelle varie fabbriche.

I numeri allarmanti sulle produzioni di auto i Europa

Perfino il Fatto Quotidiano ha riportato all’attenzione questa carenza. Sul quotidiano infatti si legge che la crisi di approvvigionamento dei semiconduttori, tutto fa tranne che accennare a diminuire. Infatti si riportano delle previsioni piuttosto negative di cui ha parlato il sito “Autonews.com”, su cui vengono citati i dati di Auto Forecast Solutions. Si tratta di una importanze azienda di analisi che ha affrontato il problema di questa carenza guardando al futuro non tanto prossimo.

Anche in Asia e nel Nord America si pagherà dazio alla crisi dei microchip

In pratica non solo la crisi dei semiconduttori non accenna a diminuire ma anzi, tende ad aumentare in maniera esponenziale. Secondo le previsioni di questi esperti, solo in Europa è solo per il settore Automotive, la carenza dei microchip porterà ad un taglio di 1.152.000 veicoli in meno in produzione. Per USA e Canada saranno  1.067.000 i veicoli in meno. E la crisi si sentirà pure nella stessa Asia, da cui il problema semiconduttori nasce. I Asia infatti saranno circa 950.000 i veicoli in meno prodotti. Circa 3,3 milioni di veicoli in meno in tutto il Mondo. Un segnale drammatico per il settore, che avrà ricadute su tutti i tessuti sociali in ogni parte del Mondo.

Agrivoltaico e pannelli solari, la guida al contributo del 70%

Con la pubblicazione del decreto parte ufficialmente la misura dell’agrivoltaico per installare i pannelli solari o fotovoltaici sui tetti di capannoni, stalle e altre strutture relative all’agricoltura. Un aiuto molto importante e molto atteso per via dell’indubbio vantaggio a livello di risparmio energetico per queste attività. Ma vediamo nello specifico Come funziona la misura in base a ciò che è esposto nel decreto finito in Gazzetta Ufficiale.

Pannelli solari sui capannoni e sulle stalle, in agricoltura arriva l’aiuto

Con un miliardo e mezzo di dotazione parte la misura relativa alle installazione di pannelli fotovoltaici sui tetti di strutture legate al settore agricolo quali capannoni e stalle. Con la pubblicazione del decreto sulla Gazzetta Ufficiale del 28 giugno scorso, la misura è ufficialmente partita. E gli interessati possono sfruttare un aiuto sotto forma di sussidio che può arrivare al 70% della spesa totale sopportata per l’installazione di questi pannelli, ma non solo. È stato direttamente il Ministero per le politiche agricole che ha confermato la pubblicazione del decreto, l’avvio della misura ed ha reso edotti gli interessati per quanto riguarda tutti i criteri e i requisiti utili ad accedere a questo finanziamento per il cosiddetto agrivoltaico.

Cosa ha detto il Ministro delle politiche agricole Stefano Patuanelli

La misura sarà attiva fino al 2024. Infatti le dotazioni prima citate di un miliardo e mezzo di euro potranno essere sfruttate per un intero triennio ovvero dal 2022 al 2024. I soldi disponibili fanno parte del pacchetto complessivo relativo al Piano nazionale di ripresa e resilienza, il cosiddetto Pnrr del Premier Draghi. In altri termini, sono soldi che fanno parte del celebre Recovery Fund europeo. Il ministro delle politiche agricole Stefano Patuanelli a margine della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto ha sottolineato che da adesso si può finalmente iniziare a lavorare per sostenere gli investimenti per la realizzazione degli impianti fotovoltaici sulle coperture delle stalle e dei capannoni delle aziende agricole.

Risparmio per le aziende, ma anche benefici per la filiera e per l’agricoltura green

Anche per il ministro la misura è molto importante. Anche alla luce di questo particolare momento che stanno affrontando le aziende del settore. Per il ministro questi incentivi possono contribuire a ridurre i costi e favorire l’implementazione delle energie rinnovabili per filiere sempre più competitive e al passo con i tempi. Oltre che raggiungere l’obiettivo di sostenere queste imprese dal punto di vista delle spese energetiche, la misura è importantissima pure dal punto di vista della transizione Green. In pratica, anche per il fine di aumentare la sostenibilità delle aziende, oltre che il risparmio in termini di spesa per le energie che servono per le loro attività.

Alcuni chiarimenti sulla misura per i pannelli solari

Quelli interessati a questa misura devono sapere che oltre all’acquisto e alla messa in opera di questi pannelli fotovoltaici sui tetti di capannoni e stalle, tra le spese sostenibili sono anche quelle per la rimozione dello smaltimento dell’amianto dai tetti. Infatti una delle negatività dell’intero settore è proprio la elevata, ancora oggi, presenza del pericoloso materiale a copertura di stalle e capannoni. Inoltre delle spese ammissibili al contributo al 70%, ci sono anche quelle relative all’isolamento termico delle strutture e a tutti i sistemi di areazione dei tetti. Infine va ricordato che la misura è aperta sia a imprenditori agricoli in forma singola che a imprese in forma di società. Disco verde pure alle cooperative agricole e alle imprese agroindustriali come richiamato dai relativi codici Ateco dell’allegato al decreto.

Lavoro part time fasullo? Ecco cosa può fare il lavoratore per i suoi diritti

Sicuramente in un rapporto di lavoro la parte meno tutelata e debole è sicuramente il lavoratore. Sono molto Infatti i lavoratori detenuti in condizioni lavorative non proprio regolari da parte del datore di lavoro. Naturalmente non tutti i datori di lavoro commettono queste cose illecite, ma non si può negare che siano molti i rapporti di lavoro dove il lavoratore è spesso sfruttato o con diritti negati. Una casistica assai importante è quella del contratto di lavoro dichiarato part time ma che invece è full time.

Perché molti datori di lavoro adottano pratiche non propriamente lecite

A volte perché ci sono datori di lavoro che continuano ad operare nell’illecito come scelta. Altre volte perché è il costo del lavoro in Italia che essendo talmente elevato spinge un datore di lavoro ad aggirare le regole cercando di risparmiare a discapito naturalmente del lavoratore dipendente. Sono queste due motivazioni che portano ad una impennata dei casi di lavoro a orario ridotto, solo sulla carta. In pratica un lavoratore viene assunto per lavorare poche ore al giorno, o pochi giorni a settimana, ma nella realtà svolge orario pieno e continuato come un normale dipendente a tempo pieno.

Il part-time fasullo, di cosa si tratta?

Il part-time è un lavoro svolto ad orari inferiori a quello a tempo pieno. Può essere orizzontale o verticale, questa la distinzione principale. Si parla di part-time orizzontale quando un lavoratore è impegnato ogni giorno della settimana lavorativa, ma per orari giornalieri inferiori a quelli ordinari. Il part time verticale invece prevede la giornata di lavoro a orario pieno ma solo per pochi giorni a settimana e non per tutti. In entrambi i casi si tratta di un lavoro che dal punto di vista del salario è più basso per i lavoratori e di conseguenza meno caro per il datore di lavoro l’esborso economico a cui è chiamato, tassazione compresa.

Quando si è nella illegalità

L’illegalità nasce quando nonostante questo genere di contratto, il lavoratore è impegnato comunque per tutte le ore lavorative di tutte le giornate. In pratica l’assunzione per il lavoro part time è soltanto una facciata, perché effettivamente il lavoratore svolge l’attività come se fosse a tempo pieno. Perdendo naturalmente i diritti che il lavoro a tempo pieno da, a partire dal salario. In pratica ci si trova di fronte ad un contratto part time fasullo. Ed è un contratto suscettibile di sanzioni per il datore di lavoro, e da cui il lavoratore può difendersi.

Ecco alcuni esempi di part-time falso

Ci sono casi gravi in cui il lavoro part time è praticamente inesistente, ma entra soltanto nella sfera della retribuzione e della tassazione del lavoro per lavoratore e datore di lavoro. Ci sono casi invece in cui il part time è a metà. In pratica, il lavoro è dichiarato a orario ridotto, svolto ad orario pieno, ma la retribuzione è in linea con quello effettivamente svolto. Solo che la retribuzione aggiuntiva tra quella scritta in busta paga e riferita al part-time e quella effettiva percepita, viene pagata in nero. In questo caso i guai sono meno seri, dal momento che si tratta di emolumenti in nero e di evasione dalle tasse per il datore di lavoro. Il primo caso però è quello che rientra nello sfruttamento del lavoro e che a tutti gli effetti la legge considera un reato grave.

Cosa si può fare per far emergere queste illegalità

L’Ispettorato Territoriale del Lavoro è l’organismo competente a cui si può rivolgere il lavoratore. Infatti è l’ispettorato che dovrebbe convocare i datori di lavoro per verificare le possibilità di una conciliazione o mediazione. In questo caso le vie sono due. O ci si mette d’accordo è il contratto fasullo viene trasformato in un contratto reale quindi si passa dal part time al full time e quindi le rivendicazioni del lavoratore vengono accettate dal datore di lavoro. Oppure si passa alla fase successiva. In mancanza di Intesa l’ispettorato assoggetterà i datori di lavoro alle sanzioni amministrative per la violazione delle norme in materia di lavoro dipendente e dei contributi previdenziali da versare. Il lavoratore può anche trascinare davanti al Tribunale del Lavoro il datore di lavoro, naturalmente appoggiare dal suo legale in modo tale da chiedere anche di arretrati che altro non sono che le differenze retributive percepite durante questi mesi di contratto disallineato alle ore di lavoro effettivamente svolte.

Ecco lo strumento che conta i chilometri della auto inquinanti durante l’anno

In Piemonte e Lombardia è già sperimentato da tempo sulle auto e adesso questo strumento arriverà anche in Emilia Romagna. Parliamo di quel particolare strumento che consente anche ai proprietari di auto datate e piuttosto inquinanti, di avere chiaro come e quando circolare con la propria auto. Uno strumento che ha come principio quello di rendere meno differenti possibile le facoltà di circolazione anche a questi automobilisti. Uno strumento che va nella direzione della equità tra cittadini per limare le disuguaglianze tra chi ha una auto inquinante e chi invece è riuscito a comperare una green.

Come funziona questo strumento per le auto

È vero che ormai anche la viabilità su gomma sta vertendo verso i veicoli meno inquinanti. Lo dimostra il fatto che anche sulle auto ormai si va diretti verso la mobilità elettrica. Sono già molte infatti, le auto in circolazione tra elettriche o plugin cioè ibride. Questo è il segnale che le istituzioni contrastano l’utilizzo di veicoli particolarmente inquinanti. I proprietari di auto datate e non in linea con le nuove tecnologie anti emissioni di CO2, sanno bene di cosa si parla. Infatti soprattutto nelle grandi città è nei periodi di emergenza inquinamento, le limitazioni alla circolazione con dei veicoli non di ultima generazione sono già tante e da tempo. Resta il fatto che non tutti possono permettersi il lusso di cambiare macchina e di sostituire quella vecchia ed inquinante con una di ultima generazione. Comperare una auto a emissioni zero non p certo una cosa facile, soprattutto oggi con la crisi economica. Per questo le istituzioni operano con delle normative di salvaguardia.

Move-In, di cosa si tratta?

Anche in Emilia Romagna quindi arriva Move-In, che significa Monitoraggio dei Veicoli Inquinanti. Si tratta di quel progetto che come dicevamo è già attivo in Lombardia in Piemonte e che permetterà ai proprietari dei veicoli che sono assoggettati a determinate limitazioni in materia di circolazione di essere salvaguardati. In pratica grazie ad una scatola nera sull’auto i proprietari dei veicoli inquinanti riceveranno il chilometraggio annuale che potranno percorrere. Sarà proprio la scatola nera a monitorare questo chilometraggio. Naturalmente salvo i periodi di emergenza inquinamento dove le limitazioni saranno sempre le stesse, negli altri periodi dell’anno è sicuramente un vantaggio per chi monterà questa apparecchiatura.

Cosa hanno deciso in Emilia Romagna

“L’obiettivo è quello di offrire eque condizioni di mobilità ai cittadini al di fuori dei periodi emergenziali, applicando però limitazioni chilometriche alla circolazione dei veicoli più inquinanti”. Con questa dichiarazione Irene Priolo, assessore all’ambiente della giunta della regione Emilia Romagna ha confermato l’avvio della sperimentazione. Come si legge sul sito “teleromagna 24.it”, l’assessore ha spiegato che questo è il mezzo con cui i proprietari di questi veicoli eviteranno tutte quelle limitazioni per fasce orarie o per periodi temporali a cui sono assoggettati comunemente. In base alla classe ambientale del veicolo, al proprietario dell’auto verrà concesso di percorrere in un anno un determinato numero di chilometri.

Un occhio di riguardo a chi usa l’auto in maniera virtuosa

Lo strumento permette anche di premiare la virtuosità dell’automobilista. In pratica adottando uno stile di guida parsimonioso dal punto di vista dell’inquinamento, i chilometri da percorrere possono essere aumentati. Una specie di meccanismo di premialità con cui una volta un automobilista può guadagnare più km di ogni anno. Naturalmente i chilometri percorsi che si scalano dal limite massimo prestabilito, sono quelli nelle aree interessate dalle limitazioni, al di fuori dei periodi di emergenza. Per questo adesso toccherà ai vari Comuni che aderiranno all’iniziativa, adeguarsi. E sono naturalmente quei Comuni dove le limitazioni sono attive, adeguarsi per permettere il giusto conteggio dei chilometri percorsi nelle aree a traffico limitato da parte della scatola nera.

Che fine faranno i meccanici con le nuove auto elettriche? Il problema spesso sottovalutato

C’è un’intera categoria di lavoratori a rischio ma nessuno ne parla. È tutto dipende da quello che ormai è il progetto dello Stato italiano relativo alla mobilità su quattro ruote. L’elettrificazione forzata delle auto, cioè la cosiddetta transizione elettrica che presto porterà ad un cambiamento radicale delle auto in circolazione è un argomento di discussione ormai da mesi. Ma le problematiche dei costruttori e dei clienti che devono andare a comprare queste macchine non sono che la punta dell’iceberg. Si è sempre trascurato un altro lato. Parliamo delle officine, e dei lavoratori di questo settore lavorativo.

La transizione elettrica mina anche i meccanici

Fabbriche, industriali, operai e clienti, ma non solo. Anche i meccanici delle officine subiranno il contraccolpo di questa rivoluzione. Con il passaggio dalla mobilità a combustione a quella elettrica, il settore dell’automobile sarà completamente rivoluzionato. Infatti il governo ha deciso di spingere verso questa mobilità sostenibile, ha impatto zero come misura antinquinamento. E le case costruttrici si stanno adeguando, per arrivare alla data del 2035, con lo stop totale alla produzione e commercializzazione di auto a benzina e diesel. E sono iniziate le polemiche, perché i costruttori si lamentano di un concreto aumento dei costi di produzione, con le spese che inevitabilmente aumenteranno. Questo anche alla luce del fatto che va rivoluzionato completamente il meccanismo industriale.

I problemi occupazionali degli operai ma anche dei meccanici delle piccole officine

D’altro canto gli operai delle fabbriche, a partire dai sindacati che li rappresentano, lamentano un problema in più che è quello occupazionale. Probabilmente, ci sarà bisogno di meno manodopera per produrre un’auto a trazione elettrica rispetto a quella che serviva per le auto tradizionali a benzina e gasolio. Inevitabilmente si parla di tagli di personale e di posti di lavoro a rischio. Lo stesso che si rischia nelle autofficine, piccole e grandi che siano, soprattutto se private e non collegate alle case costruttrici come ufficiali.

Auto elettriche, le problematiche dei clienti

E poi c’era la questione del cliente finale, cioè l’utente che dovrebbe comperare l’auto elettrica. Prima di tutto c’è il costo troppo elevato di queste auto, che non è paragonabile ai prezzi che si trovano oggi sulle auto a benzina e gasolio. Senza considerare il fatto che verrà a mancare una grossa fetta di mercato che è quello delle auto usate. Inoltre sulle auto elettriche oggi si manifesta soprattutto un problema di percorrenza. Sembra infatti che con un pieno di energia elettrica in un’auto di ultima generazione si percorrono meno chilometri rispetto ad un pieno di benzina e gasolio appunto. Inoltre c’è la questione dei punti di ricarica, che ancora oggi sono carenti in Italia. E dai progetti in atto sembra che difficilmente si arriverà ad una diffusione a macchia d’olio di questi distributori come invece oggi esistono quelli di benzina e gasolio. Infine il costo dell’energia elettrica, forse insieme proprio ai carburanti di oggi, il prodotto che più è aumentato in questi lunghi mesi di grave crisi economica.

La questione dei meccanici

Ciò che fino ad oggi era poco considerato, ma che rappresenta una problematica per così dire sottotraccia, è relativa alle tante officine meccaniche in giro per il paese. La transizione elettrica finirà con l’impattare anche su queste tante officine e sui tanti lavoratori di questo settore. I meccanici sono quelli che oggi hanno a che fare con le auto tradizionali e che sono specialisti proprio su questo. Con l’avvento delle auto elettriche, le tante officine private in giro per il paese saranno inevitabilmente penalizzate. Prima di tutto perché occorrerà tempo e investimenti per capire la nuova generazione meccanica e adeguarsi invertendo la tendenza che adesso li vede primeggiare su diesel gasolio. Dovranno prima di tutto dotarsi di nuove tecnologie e nuovi strumenti, idonei alle nuove auto elettriche. E poi occorrerà tempo per capire la nuova generazione di auto. Per capire come sistemarle, come aggiustarle in caso di guasto.

Tutto il processo della transizione finirà con il penalizzare i piccoli meccanici

Va anche detto che sicuramente i costruttori di auto elettriche ai loro clienti, in sede di acquisto di un’auto nuova, pretenderanno la visita periodica (anche per la garanzia), nelle concessionarie autorizzate. Che saranno inevitabilmente le prime a sapere come e quando mettere mano sull’auto. Come si sa le riparazioni presso le officine dirette delle case costruttrici sono più costose. Inevitabile che gli acquirenti delle nuove auto elettriche non troveranno altro da fare che recarsi in queste officine per aggiustare l’auto di ultima generazione. E qui nasce la crisi inevitabile a cui andranno incontro i meccanici e le officine private. Non sarà un settore enorme come occupazione paragonabile a quello delle fabbriche di auto, ma è pur sempre una parte importante del tessuto produttivo ed economico italiano. Anche perché nelle piccole officine crescono i meccanici i romani, con tanti ragazzi che si avvicinano alla professione proprio in questo genere di officine di quartiere.

La CNA grida l’allarme e chiede intervento del governo

È la CNA, associazione dei lavoratori, che grida l’allarme. La CNA sottolinea che con l’arrivo delle auto elettriche, cambierà tutto per migliaia di lavoratori. Cambierà tutto il pacchetto delle competenze e delle strumentazioni necessarie per il lavoro delle auto-riparazioni. Adesso è impossibile che il governo faccia un passo indietro o che si torni ad una meno radicale transizione elettrica. Ma la CNA interviene chiedendo al governo di considerare anche queste problematiche, di questo genere di lavoratori che magari qualcuno non ha considerato. Nelle analisi delle cose che vanno e delle cose che non vanno sulla transizione, anche questo spaccato è rilevante. In sostanza non bastano gli incentivi per l’acquisto delle auto elettriche o una forma di sostegno sotto forma di finanziamenti alla casa costruttrice. Serve scavare a fondo nelle problematiche di un intero settore industriale che rischia davvero di non essere più come oggi, con salvaguardie per tutti gli addetti al settore.

Ancora scontro tra Governo e Casse sugli investimenti

Sembrava tutto finito ma poi all’improvviso sembra di essere ritornati indietro nel tempo. Tra Casse professionali e Governo torna lo scontro, come recita bene anche il quotidiano Repubblica. Sembrava che dopo ben 11 anni il governo con le casse professionali avesse trovato un’intesa con tutte le regole relative ai vari investimenti delle casse previdenziali private. E sono proprio queste ultime che pare, in base a ciò che si legge sul quotidiano prima citato, stiano facendo muro. Questo perché considerano le misure che il governo ha intenzione di varare, come penalizzanti della loro autonomia. E la situazione rischia di ingessarsi.

Le casse previdenziali fanno muro

Parliamo delle casse previdenziali private, che liquidano le pensioni ai liberi professionisti. L’argomento è caldo e riguarda una vasta platea di soggetti. La cosa strana è che sono ben 11 anni da quando fu introdotta una legge che prevedeva un successivo decreto riguardante gli investimenti che questo genere di casse potevano effettuare. Ciò che manca in pratica è la sottoscrizione del decreto da parte del Ministro dell’economia. E non parliamo del titolare del Ministero attuale,  perché essendo passati 11 anni l’evidente ritardo è stato generato da tutti i Ministri dell’economia che sono succeduti negli anni governo dopo governo. Resta il fatto che il decreto è stato già messo nero su bianco e liquidato favorevolmente sia dal Consiglio di Stato che dal Ministero del Lavoro. Adesso tocca al Mef sottoscriverlo.

Il Ministro di Economia e Finanza al lavoro per sbrogliare la matassa

I più ottimisti possono pensare che già il fatto che se ne torni a parlare sia una buona cosa. E dimostra come Daniele Franco, che oggi è titolare del dicastero delle economie e delle finanze, adesso ha intenzione di mettere mani al provvedimento. Come dicevamo sono ben 1,5 milioni i professionisti delle stati da questo provvedimento che attendono novità da leggi varate verso la metà degli anni 90 e che necessitano di novità. Ma sono sui contenuti che Casse e governo paiono distanti.

Anche la Corte Costituzionale intervenne a suo tempo

Perfino la Corte Costituzionale nel 2017 è intervenuto in materia, ribadendo e stabilendo la piena autonomia operativa che hanno queste casse previdenziali private nel determinare dove come quando investire. Adesso è proprio sull’autonomia decisionale che si è arrivati a quello che Repubblica considera un vero e proprio scontro. Sul decreto per gli investimenti infatti il Ministero di economia e delle finanze prima citato, vorrebbe inserire nel testo una clausola che di fatto toglie autonomia queste Casse. Infatti verrebbe stabilito che lo stato ha il potere di andare a sindacare su questi investimenti. Una limitazione evidente che non è digerita quindi.

Poca autonomia alle Casse, questo l’oggetto del contendere

Come si legge su Repubblica “lo Stato ha il diritto di stabilire tutti. Oltre ai principi generali su governance, gestione del rischio e conflitto d’interessi, anche una dettagliata misura. Si parla della misura di impiego nei singoli asset quali azioni, titoli di Stato, Oicr, immobili e così via”. Una diatriba che rischia di essere abbastanza lunga. E che deve trovare la risoluzione il prima possibile visto che parliamo di una platea che da 11 anni cerca soluzioni.

Arrivano questi rimborsi per i lavoratori a luglio, ma non per tutti

Stanno per arrivare i rimborsi per il 730 a milioni di lavoratori italiani e contribuenti. Infatti, il mese di luglio e il primo mese utile per ottenere i rimborsi dal 730. Naturalmente non tutti i contribuenti riusciranno ad ottenere il rimborso nel mese di luglio. Molto dipende dalla celerità con cui hanno presentato la dichiarazione e dalla tipologia di lavoro svolto. Inoltre una differenza sostanziale è anche in base all’entità del rimborso. Infatti non è raro trovarsi innanzi a lavoratori che avendo rimborsi piuttosto rilevanti di importo, dovranno attendere ancora diversi mesi per ottenere ciò che gli spetta. Rinviato il rimborso perché sono finiti a controllo da parte del Fisco.

I rimborsi fiscali iniziano ad arrivare, ma per chi?

Partiamo da chi ha presentato il 730 fin dai primi giorni di apertura della nuova stagione reddituale. Va ricordato infatti che è la dichiarazione dei redditi con il modello 730 relativo all’anno di imposta 2021, si è aperta ufficialmente il 31 maggio 2022. Da quella data i contribuenti italiani hanno cominciato ad avere la possibilità di accedere alla loro dichiarazione precompilata. Allo stesso modo, dopo pochi giorni i contribuenti hanno cominciato a poter inviare la dichiarazione al Fisco. Solo chi ha fatto questo nei primi giorni di giugno probabilmente, avrà la possibilità di ricevere già a luglio il rimborso fiscale. La celerità quindi è il primo fattore fondamentale per poter già da questo mese, incassare questo introito. Un incasso che sopraggiungerà con la mensilità di luglio.

I ritardatari non lo riceveranno a luglio

Chi invece la dichiarazione dei redditi la sta presentando in questi giorni potrebbe avere concrete difficoltà a completare l’operazione di incasso in tempi celeri. Probabilmente dovrà spettare i mesi successivi. Questo perché, le dichiarazioni inviate da soli tramite cassetto fiscale e accesso ai servizi dell’Agenzia delle Entrate o tramite CAF e commercialisti, hanno in ogni caso tutta una procedura particolare di collegamento tra Fisco e datori di lavoro.

Rimborsi prima per gli statali

Detto questo va sottolineato il fatto che il rimborso di luglio spetta a quei contribuenti che a luglio percepiscono la mensilità del corrente mese. Infatti non è raro trovarsi di fronte a lavoratori che nel mese di luglio incassano lo stipendio di giugno. E come evidenza vuole, inutile attendere il rimborso perché verrà percepito il mese di agosto quando effettivamente incasseranno lo stipendio di luglio. Escludendo gli statali, per i quali effettivamente lo stipendio di luglio riguarda proprio il mese di luglio, per tutti gli altri lavoratori è agosto il mese di riferimento per l’incasso di questi rimborsi.

I rimborsi sopra i 4.000 euro

Per chi chiude la dichiarazione con rimborsi superiori ai 4.000 euro, l’Agenzia delle Entrate potrebbe decidere di avviare dei controlli documentali immediati. In questo caso nemmeno il mese di agosto potrebbe essere quello utile ad incassare i rimborsi. Effettivamente in caso di accertamento fiscale dovuto ad un 730 concluso a credito per i contribuenti e per un importo superiore a 4.000 euro, i tempi di incasso sono molto più lunghi. Ma va anche sottolineato il fatto che il controllo formale della dichiarazione dei redditi potrebbe non riguardare soltanto soggetti che hanno ricevuto il credito d’imposta così elevato perché l’Agenzia delle Entrate può in qualsiasi momento avviare dei controlli sulle dichiarazioni dei redditi contribuenti. E questo posticipa i rimborsi fiscali. Come sempre accade, basta anche una piccola anomalia riscontrata per spingere il fisco ad avviare dei controlli a tappeto.

Controlli documentali meno rigidi

Sulle dichiarazioni dei redditi una modifica normativa degli ultimi tempi da una mano ai contribuenti che possono evitare di dover fornire al Fisco di tutta la documentazione di tutta la dichiarazione dei redditi. Una modifica alle normative fiscali rende meno rigido il controllo. I contribuenti che hanno corretto la dichiarazione dei redditi precompilata, producendo una variazione significativa a livello di minor o maggior imposta versata, o producendo una differenza sostanziale nella base imponibile, se finiscono a controllo, dovranno produrre la documentazione.

Quali documenti produrre per i controlli fiscali documentali

Ma sarà da produrre solo la documentazione dei dati corretti e non di quelli che sono stati rimasti invariati rispetto alla precompilata. In questo modo dovrebbero snellirsi anche i meccanismi della procedura di rimborso. Infatti espletando prima la pratica di accertamento e quindi producendo soltanto qui documenti richiesti dal Fisco, è assai probabile che l’Agenzia delle Entrate, soprattutto in questa fase di grave crisi economica che sta vivendo l’Italia, proceda subito ad effettuare i relativi conguagli fiscali.