La guida al rinnovo della malattia dopo il primo certificato medico, tutte le cose che deve conoscere il lavoratore

La malattia indennizzata è un diritto di qualsiasi lavoratore dipendente. Se un lavoratore sta male deve essere retribuito e può restare a casa fino a guarigione avvenuta. Ma sul capo dello stesso lavoratore pendono alcuni adempimenti che possono mettere in pericolo anche il posto di lavoro se disattesi. Parliamo del restare a casa per le eventuali visite fiscali dei medici accertatori. Ma si parla anche dei certificati medici e delle informative da mandare al datore di lavoro.

Come fare per la prosecuzione della malattia per il lavoratore dipendente

In generale il lavoratore dipendente in malattia deve farsi certificare il suo stato dal proprio medico curante che rilascia opportuno certificato medico. Nel certificato, oltre alla patologia c’è la prognosi. In pratica, c’è il tempo di guarigione che secondo il dottore, il lavoratore dovrebbe avere per poter tornare al lavoro. Ma è un termine presunto, perché a volte (ma sono casi rari), una guarigione anticipata può portare ad un rientro al lavoro altrettanto anticipato.

Capita senza dubbio, più di frequente, che sia il lavoratore a non poter rientrare al lavoro decorso il termine previsto nella prima prognosi del medico di base. In ogni caso, per ciascun passaggio relativo allo stato di malattia, il lavoratore deve tenere sempre informato il datore di lavoro. Resta il fatto che il lavoratore assente per malattia, ha la facoltà di prolungare lo stato. In pratica, si può prolungare il periodo di convalescenza, a condizione di darne opportuna comunicazione al proprio datore di lavoro.

La procedura di proroga della malattia

Il meccanismo per prolungare la malattia è abbastanza semplicistico. Infatti non c’è nulla di diverso o differente da quanto occorre fare ad inizio malattia, con il primo certificato medico. Occorre in altri termini, andare dal proprio medico curante che emetterà un nuovo certificato medico con una nuova prognosi. Bisogna però prestare attenzione ad un particolare. Se sul finire della malattia iniziale, a casa arrivano i medici accertatori dell’Inps per l’eventuale visita fiscale di controllo, bisogna sapere cosa fare. In genere questi medici fanno firmare al lavoratore la relata di controllo. Una dichiarazione con cui si attesta che il lavoratore era a casa nel momento della visita e che i medici accertatori hanno prodotto le verifiche del caso. E non è raro che sulla relata i medici di controllo, basandosi sul primo certificato medico, scrivono che il lavoratore è dichiarato di nuovo abile al lavoro dalla data di fine malattia del primo certificato.

In questo caso, la malattia viene interrotta. In pratica, anche recandosi dal medico di base il giorno stesso della chiusura della malattia risultante dal primo certificato, occorrerà provvedere ad una malattia ex novo, con tanto di nuova patologia.

Perché occorre fare le cose per bene per non rischiare di perdere il lavoro

Le operazioni di proroga della malattia devono essere rispettate in toto dai lavoratori. Non si può sbagliare nulla per non rischiare di perdere il posto di lavoro. Infatti se le cose non vengono fatte per bene si rischia una denuncia per assenza ingiustificata. E il mancato pagamento della malattia è l’effetto meno grave che può capitare. Infatti si può incorrere in sanzioni disciplinari, che poi possono sfociare anche nel licenziamento per giusta causa. Per questo occorre fare chiarezza sugli adempimenti da rispettare. Se il lavoratore si ammala e deve assentarsi dal lavoro proprio per via della  malattia, è assolutamente obbligato  a sottoporsi il giorno stesso al massimo il giorno dopo, a visita medica. La comunicazione dell’assenza deve arrivare al datore di lavoro nel più breve tempo possibile. Per questo adempimento occorre fare riferimento esclusivo al Contratto collettivo di settore, che stabilisce le regole da seguire anche nei casi di assenze per malattia. Dal momento che ormai anche nella sanità la digitalizzazione la fa da padrona, bisogna tenere conto che il medico deve essere uno riconosciuto dal Sistema Sanitario Nazionale (SSN), che può redigere certificati telematici ed inserirli nelle opportune piattaforme.

Visite specialistiche, rientro anticipato e termini della prosecuzione della malattia

Naturalmente si parla di assenze per malattia, perché molti confondono queste assenze con quelle relative a visite specialistiche e analisi. n questi casi l’assenza può essere giustificata da un medico diverso dal proprio medico di base, ovvero dal medico del laboratorio dove ci si presenta per le analisi. In questo caso il certificato medico può essere rilasciato anche in forma cartacea. Serve un certificato medico di guarigione anche nel caso assai raro e prima citato, del lavoratore che si sente guarito prima della scadenza della prognosi e che ritenga di poter tornare al lavoro prima. Ed anche in questo caso la procedura è la medesima, come è medesimo l’obbligo di darne preventiva comunicazione al datore di lavoro.

Alcuni chiarimenti importanti per la malattia del lavoratore

Tornando all’ammalato che resta tale dopo la prima prognosi, va sottolineato che  il certificato di prosecuzione della malattia deve essere richiesto al proprio medico curante entro il primo giorno successivo alla scadenza della prognosi precedente. Il meccanismo di trasmissione del certificato è sempre lo steso, con il proprio medico che lo immette in piattaforma e lo rende disponibile all’INPS. Sarà poi l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale italiano (INPS) a trasmettere tale certificazione attestante la malattia al datore di lavoro.

Occhio ai termini e alle date dei certificati

Capita spesso che il lavoratore ammalato si faccia certificare la prosecuzione della malattia quando ancora la prognosi del primo certificato non è finita. Questo perché il medico curante è chiuso nel fine settimana ed una malattia può scadere la domenica sera. In questo caso i giorni della seconda prognosi devono contarsi non dalla scadenza della prognosi precedente, ma dalla data del nuovo certificato medico. Questo aspetto è da tenere in considerazione perché molti non considerano questa situazione e rischiano, come dicevamo, di non presentarsi al lavoro, con tutte le conseguenze del caso. Infine c’è da dire che per la prosecuzione della malattia prodotta in ritardo, i giorni scoperti, cioè tra l’ultimo giorno di prognosi del primo certificato, e la data del nuovo certificato, non sono coperti dalla indennità. In questi casi anche se zelante, il datore di lavoro non dovrebbe avviare le procedure disciplinari contro il lavoratore essendo soltanto una questione di ritardata certificazione inviata.

Malattia ed attività lavorativa: ecco cosa rischia chi è assente ma lavora altrove

La malattia di un lavoratore dipendente è tutelata per legge. Esiste la relativa indennità ma il lavoratore assente non è esente da obblighi. Il più comune è quello di essere reperibile alla visita fiscale nelle fasce orarie prestabilite. Ma c’è anche l’obbligo di non adottare comportamenti ed iniziative che pregiudichino la guarigione dalla patologia da cui è scaturito il periodo di malattia.

Altro lavoro durante le assenze per malattia

Una domanda che molti si pongono è se un lavoratore dipendente in malattia, escluse le ore dedicate all’eventuale reperibilità per visita fiscale, può lavorare. In pratica, la domanda è se un lavoratore può svolgere un’altra attività lavorativa durante i giorni di assenza per malattia dal suo posto di lavoro. La cosa da dire immediatamente è che se uno è ammalato, a tal punto da non poter andare a lavorare come al solito, non potrà svolgere altre attività lavorative differenti, anche se al di fuori dell’orario della visita fiscale. Ma occorre dire anche che non è solo il lavoro ad essere negato. Infatti non si può nemmeno praticare per esempio, uno sport. Il lavoratore assente per malattia non può la sera andare a giocare a calcetto con gli amici per esempio.

Questo perché si tratta di attività che possono mettere a repentaglio la più celere guarigione del lavoratore con tanto di reintegro nella postazione lavorativa. In pratica, che siano attività lavorative o extra-lavorative non cambia nulla. C’è il rischio concreto di essere licenziati.

Alcune sentenze salvaguardano il lavoratore

A dire il vero, anche se la legge appare rigida da questo punto di vista, la sua applicazione in materia di cessazione del rapporto di lavoro per eventi come quelli prima citati, non è altrettanto rigida. Molte volte dei licenziamenti sono stati bocciati da parte dei Tribunali perché mancavano le prove da parte del datore di lavoro. Non le prove che il lavoratore in malattia la sera era andato a giocare a calcetto. Ma le prove secondo le quali il lavoratore aveva messo a repentaglio la guarigione. Il nodo fondamentale è sempre quello della guarigione. Infatti pur se assente per malattia, un lavoratore ha tutto il diritto di svolgere le altre attività che la vita offre, sia ludiche che lavorative.

La malattia può essere tale da impedire al lavoratore di presentarsi al posto di lavoro, ma non tale da permettergli di dare sfogo ad un suo hobby per esempio, o di effettuare altri lavori, anche se in quest’ultimo caso occorre verificarne la fattibilità in base ai contratti collettivi.

La prova è a carico del datore di lavoro

Deve sempre essere il datore di lavoro a provare con assoluta certezza, che l’attività svolta dal lavoratore mentre era in malattia, ha pregiudicato la sua guarigione. Se infatti la partita di calcetto ha provocato il prolungamento della malattia del lavoratore, con pregiudizio nei confronti del datore di lavoro stesso, allora il licenziamento può essere attuabile. Ma è una prova piuttosto difficile da produrre. Anche perché ogni malattia è differente così come sono differenti le mansioni da lavoratore a lavoratore. La presenza sul posto di lavoro può essere ammissibile per un lavoratore adibito a determinate mansioni così come può essere inammissibile per altri. Ed allo stesso modo una attività extra può essere pregiudizievole sulla guarigione di un lavoratore, ma può non esserlo per un altro, perché molto dipende dalla patologia scatenante la malattia stessa.

Malattia: tutti i limiti al licenziamento, anche oltre il periodo di comporto

La malattia del lavoratore è un argomento davvero molto particolare. Le assenze per malattia sono tutelate per legge. Un lavoratore che si ammala ha le coperture da parte dell’Inps. Ma ha anche il diritto alla conservazione del posto di lavoro. Ma non è un diritto privo di scadenza. Non è possibile restare in malattia in eterno. C’è il cosiddetto periodo di comporto, alla scadenza del quale si rischia seriamente di incorrere nel licenziamento. Ma anche questo aspetto non è esente da limitazioni. Infatti il datore di lavoro a volte non può licenziare il lavoratore nonostante sia stato superato il periodo di comporto.

Malattia e periodo di comporto, alcuni chiarimenti

Il periodo di comporto è il periodo massimo che un lavoratore può sfruttare di malattia. Per questo si parla di malattia oltre il periodo di comporto quando il lavoratore rischia il licenziamento. Quando la malattia supera il periodo di comporto, il diritto alla conservazione del posto di lavoro può venire meno. Non sempre però, dal momento che non è raro che il licenziamento per superamento del periodo di comporto risulti illegittimo.

La regola generale però va nella direzione di considerare il superamento del periodo di comporto come determinante in quanto a rischio licenziamento. Quindi, quando le assenze del dipendente in malattia superano il limite massimo fissato, lavoro a rischio. ma chi fissa questo limite? Lo fa il Contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria (CCNL). In base ai dettami dei singoli contratti collettivi, ogni datore di lavoro può licenziare il lavoratore senza dare la giustificazione al licenziamento.

Quando il licenziamento può essere considerato illegittimo

Abbiamo capito che il periodo di comporto altro non è che il numero massimo di assenze per malattia che una lavoratore può effettuare in un determinato periodo di tempo. Il datore di lavoro però, anche se autorizzato dal CCNL, non ha pieni poteri. Ci sono delle sentenze, richiamate dal sito “laleggepertutti.it”, che limitano l’autorità e la libertà di agire del datore di lavoro. Un tipico esempio è quello della malattia derivante da un infortunio sul lavoro che a sua volta deriva da colpa acclarata da parte del datore di lavoro. In questo caso il lavoratore dipendente non può essere licenziato. Il datore di lavoro che non ha messo in sicurezza il dipendente, nell’espletamento delle sue mansioni lavorative, non può licenziare il dipendente. Quindi, determinante la colpa del datore di lavoro.

Se la malattia deriva da un comportamento colposo del datore di lavoro in materia di sicurezza sul lavoro e infortuni professionali, il periodo di comporto non va considerato. Se invece la malattia, anche se deriva da infortunio, non dipende da un comportamento erroneo del datore di lavoro, il periodo di comporto è assolutamente da considerare.

In altri termini se un lavoratore dipendente si fa male sul lavoro se il datore ha colpa, può superare il periodo di comporto senza rischiare il licenziamento. Nel caso opposto invece il posto di lavoro è a rischio.

Come si interrompe il rapporto di lavoro a seguito di superamento del periodo di comporto

Naturalmente non basta il superamento del limite massimo di assenze per malattia per poter essere licenziati. Il rapporto di lavoro non viene interrotto in automatico ma serve una azione del datore di lavoro. Il provvedimento deve essere ufficiale, così come il licenziamento deve seguire la forma classica. Addirittura il datore di lavoro può anche riammettere al lavoro il dipendente, per verificare se dopo la lunga assenza non abbia perduto le capacità minime di svolgere le normali mansioni precedenti. La prova della permanenza delle condizioni utili a lavorare non può durare tanto. Anche perché non si deve indurre il lavoratore a considerare come superato il rischio di licenziamento.

Tornando alla lettera e al provvedimento di licenziamento, il datore di lavoro non è tenuto a indicare nel provvedimento il superamento del comporto con dettaglio dei giorni di assenza. Ma solo se l’assenza è continuativa. Nel caso di assenze frazionate invece, occorre indicare tutti i giorni di assenza a dimostrazione del superamento del limite massimo di assenze.

Assenza per malattia: quando non è obbligatorio per l’ammalato inviare il certificato e conseguenze

Quando un lavoratore si ammala e di conseguenza, si assenta dal lavoro, l’istituto normativo che va utilizzato è quello della malattia. Ma il certificato medico di malattia deve sempre essere inviato al datore di lavoro da parte del dipendente ammalato ed assente? Vediamo cosa prevede la normativa vigente alla luce delle recenti novità ed alla luce del  certificato telematico che ormai ha preso piede per l’istituto della malattia.

Malattia e adempimenti, il datore di lavoro deve essere informato

Il datore di lavoro deve necessariamente essere informato della motivazione relativa ad una assenza di un suo dipendente. Questo è sia un comportamento ineccepibile dal punto di vista morale, che un obbligo stabilito dalla legge.

E deve essere il lavoratore a comunicare l’assenza per malattia ad un datore di lavoro, perché non basta ciò che fa il medico di base. Infatti per la malattia, deve essere il medico di base a certificarla inviando tramite certificato telematico, la comunicazione direttamente all’Inps. Ma nonostante questo, per permettere al datore di lavoro una adeguata sostituzione del lavoratore o una adeguata organizzazione delle attività senza il lavoratore ammalato, informarlo è necessario.

Ciò non vuol dire che occorre spedire il certificato medico per posta, tramite Pec o via email. Per assolvere a questo obbligo di informare il datore di lavoro può essere utilizzato pure un metodo informale. Infatti anche una semplice telefonata on un messaggio può andare bene.  Questo è l’orientamento che tutti i Contratti collettivi nazionali di lavoro prevedono.

E non potrebbe essere altrimenti se si pensa ai tempi tecnici con cui una raccomandata postale arriva al destinatario. Verrebbe meno il fattore della tempestività con cui un datore di lavoro dovrebbe essere avvisato per tutto ciò che abbiamo detto prima in relazione al proseguo dell’attività produttiva.

La malattia: cosa va fatto in sintesi

La comunicazione di malattia è obbligatoria sia per il datore di lavoro che per l’Inps.  Il lavoratore deve innanzi tutto recarsi dal suo medico di base che deve emettere il cosiddetto certificato di malattia. Sarà il medico di base a trasmetterlo all’Inps in formato digitale. A questo punto sarà l’Inps a trasmetterlo al datore di lavoro. Una operazione che non può certo essere in tempo reale quest’ultima. Per questo l’obbligo morale da parte del lavoratore di rendere edotto il datore di lavoro è sacrosanto. E diventa pure legale dal momento che pur non essendone obbligato immediatamente, la sua mancanza può esporre a rischi.

In assenza del certificato telematico, qualora il medico di base fosse impossibilitato, si adotta la vecchia maniera, quella del certificato cartaceo con il lavoratore che deve inviarlo al datore di lavoro e all’Inps, di norma entro due giorni dal suo rilascio. Infatti per ogni giorno di ritardo nell’invio, si perde un giorno di indennità.

Come si orientano i giudici chiamati a sancire su ricorsi e reclami

Non avvisare il datore di lavoro può essere pericoloso. In effetti l’orientamento dei Tribunali, a cui molto spesso i lavoratori o i datori di lavoro si appoggiano per dirimere questioni legate ai rapporti di lavoro, è verso l’assenza ingiustificata. In pratica la mancata comunicazione tempestiva della malattia, a prescindere dal certificato telematico del proprio medico, può far scattare le sanzioni per assenza ingiustificata.

E come si sa, se l’assenza ingiustificata si protrae per più tempo o se viene effettuata più volte, non è raro arrivare a eventi come il licenziamento o la risoluzione del contratto di lavoro.

Certo, può capitare che il lavoratore si trovi nell’impossibilità di fornire questa informazione al datore di lavoro. In questo caso, sempre in base all’orientamento degli ermellini, deve essere il lavoratore a fornire prova della sopraggiunta impossibilità ad adempiere.

In definitiva, siamo di fronte a casi di violazioni disciplinari.

A rischio l’indennità?

Se il non avvisare l’azienda può essere pericoloso e può esporre a sanzioni disciplinari, il certificato medico inviato all’Inps correttamente dal medico non mette a rischio l’indennità. Infatti il lavoratore in malattia ha diritto a percepire una indennità, che spesso è variabile da CCNL a CCNL.

Per grandi linee però, l’indennità di malattia segue determinati parametri. I primi 3 giorni di malattia sono a carico completo del datore di lavoro. I successivi 20 (dal quarto al ventitreesimo) invece prevedono una indennità pari al 50% delle retribuzione media giornaliera del lavoratore. Per quelli ancora successivi e fino ai 180 giorni complessivi, si passa al 66,6% della retribuzione media giornaliera. Ma si tratta di grandi linee, basti pensare al lavoro statale che durante la malattia da diritto ad una fruizione di una indennità fissa e per tutto il periodo, pari all’80% della retribuzione media.

Polizza malattia: che cos’è, come funziona e a chi serve?

Con la polizza malattia si ha a disposizione una copertura assicurativa nel caso in cui si verifichi la malattia. L’obiettivo della polizza è quello di fornire un sostegno economico in particolari situazioni di necessità. La malattia si intende come l’alterazione dello stato di salute che non dipende da un infortunio. Rispetto proprio alla polizza infortuni, la malattia si manifesta come un evento non attribuibile a una causa esterna, violenta e fortuita.

Come può essere una polizza malattia?

La polizza malattia può essere sottoscritta:

  • in maniera individuale. In questo caso il contratto, sottoscritto dal solo beneficiario, risulta a vantaggio del sottoscrittore stesso e dei componenti il suo nucleo familiare;
  • collettivamente. In questo caso il contratto, sottoscritto dal datore di lavoro o da un’associazione, va a garantire i dipendenti e gli associati.

In quali casi risulta utile la polizza malattia?

La polizza malattia diventa utile nel momento in cui occorre coprire un ipotetico futuro periodo di malattia. In questo caso si ottiene il rimborso delle spese sostenute. I casi più frequenti possono essere quelli di un intervento chirurgico. Ma anche in caso di ricovero presso un ospedale o una casa di cura è utile avere una polizza malattia. In questo caso si riceve un indennizzo giornaliero per tutto il periodo di degenza. Infine, diversamente dalla polizza infortuni, con l’assicurazione sulla malattia si può ottenere la liquidazione in caso di invalidità permanente attribuibile alla malattia stessa.

Come avviene la copertura della polizza malattia?

La copertura della polizza malattia può prevedere un’assistenza diretta presso i medici e le strutture convenzionati. L’assistenza, in questo caso, deriva dal fatto che a pagare le prestazioni pensa direttamente l’assicurazione. Diversamente, la copertura può avvenire anche a rimborso. In questo caso, il beneficiario deve presentare la fattura della prestazione ottenuta e l’assicurazione provvede al rimborso delle spese già pagate dall’assicurato.

Polizza malattia, come funziona e quali sono le formule?

Con la polizza malattia si possono scegliere diverse formule. La prima consiste nel rimborso delle spese mediche sostenute per una malattia o per un intervento chirurgico conseguente alla malattia. Con la formula indennitaria, invece, l’assicurazione paga una certa somma per ogni giorno trascorso in un ospedale o in una casa di cura. Per i lavoratori autonomi la copertura viene integrata dal mancato guadagno conseguente al fatto che, a causa della malattia, il professionista non ha potuto svolgere la propria attività. Infine, nel caso di invalidità permanente, la somma viene pagata dall’assicurazione nel momento in cui non si è più nelle condizioni di poter lavorare a causa della malattia. L’invalidità può essere totale o parziale.

Qual è la durata della polizza malattia?

Si può sottoscrivere una polizza malattia annuale o di più anni. In quest’ultimo caso, per i contratti sottoscritti dopo il 15 agosto 2009, l’assicurato può recedere dal contratto a partire dal quinto anno di sottoscrizione dando un preavviso di 60 giorni. Ma devono risultare in regola i pagamenti dei premi precedenti. Dopo la durata della polizza, è necessario comunicare all’assicurazione se si intende porre fine al contratto oppure procedere con la proroga. Se nel contratto c’è la clausola “proroga tacita”, la polizza si rinnova in automatico. Ma la proroga stessa non può essere superiore ai due anni.

Quando si attiva la polizza malattia?

Dopo la firma del contratto, per l’attivazione della polizza malattia deve trascorrere un determinato lasso di tempo. Se durante questo periodo dovesse verificarsi un sinistro, l’assicurato non avrà diritto ad alcuna somma, anche se ha pagato già il premio. Il periodo di mancata copertura dipende dal tipo di formula che l’assicurato ha sottoscritto.

Quanto costa la polizza malattia?

Il costo della polizza malattia (premio) varia a seconda di determinati fattori. Innanzitutto l’età: solitamente le assicurazioni permettono di sottoscrivere polizze fino a 70 anni. Ma è necessario anche verificare l’esito del “questionario sanitario“. Si tratta di un elenco di domande sullo stato di salute dell’assicurato. In base alle risposte fornite dall’assicurato al questionario, l’assicurazione calcola il rischio e da questo dipende anche il premio. L’assicurato deve rispondere correttamente: infatti, nel caso in cui le informazioni non risultino veritiere o complete, l’assicurazione può non pagare l’indennizzo in caso di malattia o determinarne una riduzione.

Cosa è importante fare prima di sottoscrivere una polizza malattia?

Dal lato dell’assicurato, prima di firmare il contratto di polizza malattia, è indispensabile prendere tutte le informazioni sulle spese che l’assicurazione rimborsa in caso di malattia, dei massimali indennizzabili e della presenza di strutture o di medici convenzionati ai quali rivolgersi in caso di malattia. Se l’assicurato si rivolge a medici non convenzionati potrebbe subire la riduzione o l’esclusione del rimborso.

Franchigie e scoperti nelle polizze malattia

La presenza di una franchigia nella polizza malattia va verificata prima di firmare il contratto. Ad esempio, può essere stabilita una franchigia assoluta il cui importo viene detratto dalla somma da indennizzare, o relativa nel caso in cui l’assicurazione non indennizza sotto un certo importo. Possono essere previste cause di esclusione dall’indennizzo. Ad esempio, se l’assicurazione dimostra che l’assicurato non ha fornito le informazioni nel questionario prima di sottoscrivere il contratto di una malattia della quale l’assicurato stesso ne era a conoscenza. Sono normalmente escluse le malattie conseguenti a comportamenti dell’assicurato contrari alla legge o volontari.

A chi è consigliata la polizza malattia?

La polizza malattia è consigliata sicuramente ai lavoratori autonomi e alle partite Iva. Infatti, i professionisti risultano scoperti in caso di malattia e non avrebbero un sostegno economico senza una polizza per l’impossibilità di svolgere la propria attività. In caso di malattia è comunque necessario verificare le spese rimborsabili. Ad esempio, quelle di degenza sono sempre rimborsabili. Altre rimangono a carico dell’assicurato.

Polizza malattia, come scegliere la migliore?

Prima di sottoscrivere il contratto è necessario fare un’attenta valutazione del rischio che si ha di malattia e di quanto la malattia stessa potrebbe compromettere le entrate economiche nel caso in cui non si disponesse di una polizza. La scelta di una compagnia anziché di un’altra deve essere consapevole e alla luce di tutte le informazioni e i confronti tra costi e benefici delle varie offerte presenti sul mercato.

 

Visite fiscali per lavoratore part time: quali regole?

In caso di malattia di un lavoratore, la visita fiscale può essere inviata tutti i giorni e negli orari delle fasce di reperibilità stabiliti per legge. Le regole delle visite fiscali non cambiano a seconda della tipologia di contratto full time o part time, orizzontale o verticale. E rimangono le stesse anche rispetto all’organizzazione dei turni o degli orari di lavoro delle aziende.

Visite fiscali per malattia a lavoratori part time: le regole

Pertanto l’orario della visita fiscale, all’interno delle fasce di reperibilità, è uguale per tutti i dipendenti, sia con contratto di lavoro full time che part time. E la visita può capitare anche nelle giornate in cui il lavoratore non è di servizio. Ad esempio, può essere fissata la visita medica di domenica a un lavoratore con distribuzione del lavoro dal lunedì al venerdì. Analogamente, il lavoratore part time può ricevere una visita fiscale in un giorno in cui non è di servizio.

Orari di reperibilità per le visite fiscali

Dal 1° settembre 2017, con l’istituzione del Polo unico, le visite fiscali sono organizzate dall’Inps sia per i lavoratori dipendenti pubblici che privati. Restano diversificati, invece, gli orari di reperibilità tra i due settori: i lavoratori privati possono ricevere la visita fiscale tra le 10 e le 12 e tra le 17 e le 19. I lavoratori del pubblico impiego, invece, mantengono orari di reperibilità più ampi. Infatti, le fasce previste sono dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18.

Come sono regolati gli orari di reperibilità per i lavoratori part time?

Come devono regolarsi i dipendenti che svolgano lavoro part time in merito agli orari di reperibilità delle visite fiscali? La regola generale è che gli orari valgono per tutti, indipendentemente dal contratto di lavoro a tempo pieno o part time. Pertanto, un lavoratore part time in fascia diurna per un totale di 4 ore di lavoro giornaliere, in caso di malattia è assoggettato alla visita fiscale che potrebbe capitare tra le 10 e le 12 e tra le 17 e le 19. Quindi anche al di fuori della fascia di orario lavorativo prevista.

Reperibilità dei lavoratori part time in caso di malattia

Dunque anche un lavoratore part time ha l’obbligo di essere reperibile all’indirizzo indicato, per tutta la durata della malattia, ogni giorno della settimana comprese le domeniche e i giorni festivi. La reperibilità del lavoratore è finalizzata esclusivamente a consentire il controllo da parte dei medici competenti e incaricati. E il controllo viene effettuate con regole uguali per tutti a prescindere dalle concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro.

Assenza da lavoro per malattia, come funziona?

In caso di malattia, il lavoratore contatta il proprio medico curante e prende nota del numero di protocollo. Da questo momento è obbligato a rispettare le fasce di reperibilità previste per il lavoro privato o per il pubblico. Il medico redige e trasmette il certificato o l’attestato di malattia in via telematica all’Inps. L’attestato indica solo la prognosi, ovvero il giorno di inizio e di presunta fine della malattia. Il certificato, invece, indica anche la diagnosi, ovvero la causa della malattia. Con la ricezione della comunicazione della malattia, sia l’Inps che il datore di lavoro possono richiedere la visita fiscale.

Cosa avviene se il lavoratore è assente durante la visita fiscale?

Nel caso in cui il lavoratore sia assente negli orari di reperibilità della visita fiscale, lo stesso viene invitato a recarsi agli ambulatori delle strutture territoriali dell’Inps. L’invito reca una data specifica. Per evitare azioni disciplinari da parte del datore di lavoro, il lavoratore assente alla visita fiscale deve presentare una giustificazione valida per l’assenza stessa.

I datori di lavoro possono verificare l’assenza alla visita fiscale del lavoratore?

In caso di assenza alla visita fiscale del lavoratore, i datori di lavoro possono esaminare gli esiti delle valutazioni di medici legali incaricati dall’Inps. le valutazioni riguardano i documenti che il lavoratore ha prodotto per giustificare l’assenza alla visita di controllo. I datori di lavoro possono dunque accedere alle valutazioni dei medici tramite il servizio “Richiesta di visite mediche di controllo” del sito istituzionale dell’Inps.

Malattia dipendente e periodo di comporto: come si interrompe con le ferie?

Oggi andremo a scandagliare quella fase di inattività lavorativa, dovuta alla malattia del dipendente, per scoprire come separare le ferie dal comporto quando il lavoratore si ritrova a condividere lo stesso periodo di inattività.

Periodo di comporto, di cosa si tratta

Quando si parla di periodo di comporto ci si riferisce al periodo di tempo massimo concesso al dipendente in malattia per non essere licenziato. Si tratta in sostanza di quel numero massimo dei giorni di assenza accettati prima che possa scattare il licenziamento del dipendente.

Se non viene superato questo tempo limite non si potrà essere licenziati, anche se le assenze del dipendente sono state a macchia di leopardo (come per esempio, un giorno si e due no). Naturalmente, a patto che la malattia sia realmente esistente, ed il dipendente si faccia trovare alle visite fiscali e non ritardi la guarigione con comportamenti colpevoli.

Fatte le dovute eccezioni, ed ulteriori disposizioni in particolari contratti di lavoro, la legge regolamenta la durata del comporto solo per gli impiegati, differenziandola in relazione all’anzianità di servizio del lavoratore

  • 3 mesi, quando l’anzianità di servizio non supera i dieci anni;
  • 6 mesi, quando l’anzianità di servizio supera i dieci anni.

Comporto e ferie, come si interrompe?

La domanda più frequente è se si possono collegare le ferie alla malattia, quindi i giorni di ferie a quelli del comporto.

Secondo la sentenza della Cassazione, la risposta è sì. Difatti il datore di lavoro non può impedire al dipendente di interrompere la malattia con le ferie. 

Ciò va a significare, in termini pratici e sintetici, che il periodo di comporto può essere interrotto dalla richiesta del lavoratore di godere delle ferie già maturate. Quindi, la richiesta dovrà essere scritta, con indicato il momento dal quale si intende convertire l’assenza per malattia in assenza per ferie, ed essere presentata tempestivamente, prima che scada il periodo di comporto.

Avvenuto ciò, il datore di lavoro dovrà tenere in considerazione l’interesse del lavoratore al posto di lavoro, ma non avrà l’obbligo di convertire d’ufficio l’assenza per malattia in ferie. In altre parole, si può ben dire che non è previsto l’automatico prolungamento del periodo di comporto per un tempo corrispondente ai giorni di ferie non goduti se il dipendente non fa una esplicita richiesta e questa non viene accolta. Tuttavia, il rigetto deve essere adeguatamente motivato, cosa non sempre facile per il datore di lavoro.

Ma come si calcolano i giorni di malattia? E cosa accade se si superano?

Premesso che si abbiano 180 giorni di malattia, quindi i tre mesi citati poco sopra, con una anzianità bassa, vediamo come si calcolano.

Il calcolo avviene partendo dal primo giorno di inizio di malattia o comunque cumulando nell’anno solare i periodi di malattia inferiori a 180 giorni. Ai fini del calcolo per la determinazione del periodo di comporto, per anno solare si intende un periodo di 365 giorni partendo a ritroso dell’ultimo evento morboso. Quindi, il calcolo dal primo all’ultimo giorno in cui il dipendente si è dichiarato ammalato (e assente sul lavoro) nell’arco dei 365 giorni dal primo giorno di assenza.

Ma cosa accade, col rischio licenziamento, quando si supera il limite di comporto?

Ecco, tenendo conto dell’alto rischio di licenziamento, la certezza è che scatta l’aspettativa non retribuita.

L’aspettativa non retribuita, detta anche comunemente congedo, non è altro che un periodo di sospensione del rapporto di lavoro durante il quale il datore di lavoro è esonerato dal versamento della retribuzione al dipendente e quest’ultimo non deve recarsi al lavoro. Un periodo in cui il datore può quasi certamente passare alla fase successiva del licenziamento del lavoratore.

Questo, dunque, è quanto di più utile e necessario vi fosse da sapere in merito alla questione del periodo di comporto per un dipendente che si mette in malattia

 

Assenze sul lavoro: i privati battono i lavoratori pubblici

L’Ufficio Studi della Cgia ha effettuato, utilizzando i dati forniti dall’Inps, una ricerca sulle assenze sul posto di lavoro dovute per motivi di salute per quanto riguarda il 2015, che ha interessato il 57% degli occupati nel pubblico impiego e il 38% di quelli che lavorano per aziende private.

La durata media annua dell’assenza per malattia risulta maggiore nel privato (18,4 giorni) rispetto al pubblico (17,6 giorni).
Ma, pur non essendoci una grande differenza, gli eventi di malattia per classe di durata presentano uno scostamento “sospetto” nel primo giorno di assenza.
Se nel pubblico costituiscono il 25,7% delle assenze totali, nel privato si riducono di oltre la metà: 12,1%.
Quelle da 2 a 3 giorni, invece, si avvicinano (32,1% del totale nel privato e 36,5% nel pubblico), mentre tra i 4 e i 5 giorni di assenza avviene il “sorpasso”; 23,4% nel privato contro il 18,% del pubblico.

Per quanto riguarda eventuali divergenze dal punto di vista territoriale, tra il 2012 e il 2015, in tutte le regioni d’Italia sono aumentate le assenze nel pubblico, con punte che superano il 20 per cento in Umbria e Molise. Nel privato, invece, in ben 9 realtà territoriali si registra un calo: in Calabria e in Sicilia addirittura del 6%.
Inoltre, tra i 5 milioni di assenze registrati nel 2015, a libello nazionale nel pubblico impiego, il 62% riguarda i dipendenti del Centro-Sud. Per quanto riguarda il privato, invece, accade esattamente l’opposto: dei quasi 9 milioni di assenze registrate nel 2015, il 57 per cento circa è imputabile agli occupati del Nord.

Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi Cgia, ha commentato così i risultati: “E’ evidente che non abbiamo alcun elemento per affermare che dietro questi numeri si nascondano forme più o meno velate di assenteismo. Tuttavia qualche sospetto c’è. Se in Calabria, ad esempio, tra il 2012 e il 2015 le assenze per malattia nel settore pubblico sono aumentate del 14,6 per cento, mentre nel privato sono scese del 6,2 per cento, è difficile sostenere che ciò si sia verificato perché i dipendenti pubblici di quella regione sono più cagionevoli dei conterranei che lavorano nel privato”.

Renato Mason, segretario della Cgia, ha aggiunto: “Se fosse stato possibile includere anche le assenze ascrivibili alle fattispecie appena elencate probabilmente lo scarto tra pubblico e privato sarebbe aumentato notevolmente, facendo impennare il numero di quelle ascrivibili ai dipendenti pubblici”.

Tra i provvedimenti disciplinari adottati nei confronti dei lavoratori del pubblico si nota un aumento tendenziale delle sospensione dai luoghi di lavoro. Sul fronte dei licenziamenti, invece, si nota che nel 2015 sono saliti a 280: 53 in più rispetto al 2014. Di questi 280, 108 dipendenti sono stati lasciati a casa per assenze ingiustificate o non comunicate, 94 per reati, 57 per negligenza, 20 per doppio lavoro e infine 1 per irreperibilità a vista fiscale.
Per quanto riguarda la malattia dei dipendenti del settore pubblico, la legge prevede che “per gli eventi morbosi di durata inferiore o uguale a dieci giorni di assenza, sarà corrisposto esclusivamente il trattamento economico fondamentale con decurtazione di ogni indennità o emolumento, aventi carattere fisso e continuativo, nonché di ogni altro trattamento economico accessorio”.
La decurtazione retributiva è relativa ai primi dieci giorni di ogni periodo di assenza per malattia e riguarda ogni episodio di assenza e per tutti i dieci giorni anche se l’assenza si protrae per più di dieci giorni.

Nel comparto privato, invece, in caso di assenza di malattia la quota percentuale della retribuzione media giornaliera a carico dell’Inps dipende dalla qualifica contrattuale, dal settore di appartenenza e dalla durata dell’evento. I primi 3 giorni di malattia sono interamente a carico dell’azienda, dal 4° al 20° giorno la retribuzione giornaliera media è coperta al 50 per cento dall’Inps, dal 21° al 180° giorno la quota in capo all’Istituto di previdenza sale al 66,66%.

Vera MORETTI