In pensione quando decide il lavoratore, la nuova possibilità con 20 anni di contributi

Andare in pensione liberamente, senza attendere la troppo elevata età prevista dalla normativa  vigente. È tra gli obbiettivi programmatici e strategici del governo, nello specifico del Ministero del lavoro. Questa soluzione è definita in gergo tecnico “flessibilità in uscita”. Ne parlano in molti e da tempo, ma la flessibilità in un sistema come il nostro, ormai pressoché totalmente contributivo, non può farne a meno.

Flessibilità in uscita e sistema contributivo devono andare di pari passo. Infatti non esiste al Mondo un sistema che liquida le pensioni in base ai contributi versati, che non dia al lavoratore la libera scelta di quando lasciare l’attività e pensionarsi.

In pensione quando decide il lavoratore

A quale età lasciare il lavoro è argomento centrale sia nelle discussioni da bar che nelle discussioni istituzionali. La riforma delle pensioni è argomento centrale per l’operato dell’esecutivo Draghi. Anche i sindacati più volte hanno richiesto la flessibilità come fattore principale da inserire in una profonda riforma delle pensioni. In pensione quando decide il lavoratore diventa quindi una priorità.

Il sistema contributivo è abbastanza semplice. Un lavoratore durante la carriera versa contributi in una specie di salvadanaio che è il montante contributivo. Detto ciò, al momento della pensione, cioè quando il lavoratore lascia l’attività e diventa pensionato, percepisce un assegno mensile commisurato all’ammontare dei contributi che ha versato.

Decidere liberamente l’età di andare in pensione dovrebbe essere garantito ai lavoratori. Infatti in base a questa scelta il lavoratore deve essere conscio del fatto che percepirà una pensione più bassa uscendo prima ed una più alta uscendo dopo. E non parliamo di coefficienti, di penalizzazioni di assegno o di altri paletti che da troppi anni sono inseriti nel sistema in ogni misura previdenziale in vigore. Parliamo semplicemente di pensione più bassa per un minor numero di anni di contribuzione effettivamente versata.

Cosa ha in serbo il governo

Lasciare liberamente il lavoro a qualsiasi età scegliendo altrettanto liberamente di percepire un assegno più basso o più alto. È il principio cardine della flessibilità nell’uscita dal mercato del lavoro per i lavoratori. E si tratta di un obbiettivo non troppo celato del Ministro del Lavoro Andrea Orlando. Lo si evince da una nuova direttiva dello stesso Ministero del Lavoro.

Una soluzione che eliminerebbe alcuni fattori che rendono la quiescenza nel sistema contributivo troppo legata a paletti e vincoli che determinano poche opzioni per i lavoratori. Basti pensare che un lavoratore con carriera iniziata dopo il 31 dicembre 1995, potrà anticipare la pensione a sua scelta, con 20 anni di contributi almeno, ma solo dai 64 anni di età e solo con una pensione che alla data di decorrenza sia pari o superiore a 2,8 volte l’assegno sociale (oltre 1.300 euro al mese in base all’attuale assegno sociale vigente).

Se viene meno questo fattore della pensione sopra le 2,8 volte l’assegno sociale, si passa a 67 anni, come pensione di vecchiaia prevede, in barba a qualsiasi principio di flessibilità. Ma anche a 67 anni serve che la pensione sia, sempre alla data di decorrenza, pari ad almeno 1,5 volte l’assegno sociale (circa 700 euro al mese). Al venir meno anche di questo fattore, si passa a 71 anni, quando vengono erosi tutti questi vincoli.

Contributi agricoli più cari nel 2022

I contributi a carico delle imprese agricole per i dipendenti impiegati nel settore saranno più cari nel 2022. La percentuale di contribuzione totale è fissata infatti al 46,8465%. L’aumento dei contributi nel 2022 rispetto al 2021 è dovuto a quanto prevede l’articolo 3 del decreto legislativo numero 146 del 1997. Il provvedimento fissa le aliquote dovute dalle aziende agricole per il fondo pensioni dei lavoratori impiegati nell’agricoltura e vengono riviste anno per anno. La revisione delle aliquote contributive, dunque, va a modificare le percentuali fino a raggiungere quella della generalità dei datori di lavoro del settore.

Contributi agricoli del 2022, l’aumento dell’aliquota del fondo pensioni

Pertanto, l’aliquota da versare per i contributi delle pensioni (per invalidità, vecchiaia e superstiti, detta Ivs) aumenta dello 0,20% portandosi al 29,70% rispetto al 29,59 del 2021. Di questa aliquota pensionistica, il 20,86% è a carico dell’azienda e l’8,84% a carico del lavoratore agricolo. Quest’ultima percentuale è l’unica a carico del lavoratore. Le percentuali di aumento dei contributi agricoli sono riportate dalla comunicazione dell’Inps numero 31 del 2022.

Quali altre aliquote contributive sono a carico del datore di lavoro delle aziende agricole?

Le altre percentuali di contributi agricoli dovute dai datori di lavoro consistono:

  • nella quota base dello 0,11% (non è dovuta alcuna percentuale da parte del lavoratore agricolo);
  • nell’assistenza per gli infortuni sul lavoro per una percentuale del 10,1250%. Tale percentuale Inail è rimasta invariata rispetto allo scorso anno;
  • nell’addizionale per gli infortuni sul lavoro del 3,1185%, anche questa invariata e a carico del solo datore di lavoro;
  • nella percentuale per la disoccupazione pari all’1,41%;
  • nelle prestazioni economiche relative alla malattia per una aliquota dello 0,683%;
  • nella cassa integrazione per l’1,5%;
  • nel fondo di garanzia per il Trattamento di fine rapporto (Tfr) per lo 0,20%. Questa quota non è dovuta per gli operai con contratto a tempo determinato per i quali, dunque, l’aliquota complessiva dei contributi dovuti è ridotta al 46,6465%.

Contributi per la disoccupazione Naspi dovuti per gli operai agricoli dovuti anche dalle imprese cooperative

Inoltre, la legge di Bilancio 2022 (legge numero 234 del 30 dicembre 2021), al comma 221 dell’articolo 1, ha modificato e integrato il comma 1 dell’articolo 2, del decreto legislativo numero 22 del 4 marzo 2015. In base alla modifica, a partire dal 1° gennaio 2022, risulta estesa la tutela delle prestazioni di disoccupazione Naspi anche a favore degli operai agricoli a tempo indeterminato (Oti), agli apprendisti e ai soci lavoratori con contratto alle dipendenze delle cooperative e dei loro consorzi inquadrati nel settore dell’agricoltura. Il versamento della contribuzione di finanziamento Naspi è dovuto, pertanto, ai dipendenti, ai soci e agli apprendisti che trasformano, manipolano e commercializzano prodotti agricoli e zootecnici in prevalenza propri oppure conferiti dai loro soci secondo quanto dispone la legge numero 240 del 15 giugno 1984.

Contribuzione dovuta dalle imprese agricole per il finanziamento della Naspi: in cosa consiste?

In base a quanto spiegato dall’Inps, pertanto, dal 1° gennaio 2022 le imprese agricole, le cooperative e i loro consorzi operanti nel settore dell’agricoltura, devono versare la contribuzione di finanziamento Naspi per i lavoratori:

  • assunti a partire dal medesimo giorno a tempo indeterminato con qualifica di operaio agricolo;
  • già assunti in precedenza e ancora in forza alla data del 1° gennaio 2022 (secondo quanto spiegava la circolare Inps numero 2 del 4 gennaio 2022).

Tutti i lavoratori agricoli, per l’applicazione dell’aliquota di finanziamento della Naspi, non devono essere più assoggettati all’aliquota contributiva del 2,75% per la disoccupazione agricola secondo quanto prevedeva l’articolo 11 del decreto legge numero 402 del 29 luglio 1981. Il decreto è stato convertito, con modifiche, dalla legge numero 537 del 26 settembre 1981.

Riduzione dei contributi agricoli per le aziende del settore nell’anno 2022

Anche per l’anno 2022 sono previste le agevolazioni e le riduzioni per le imprese agricole che siano ubicate o che comunque operino in territori montani, classificati come particolarmente svantaggiati. Le stesse agevolazioni sono godute dalle imprese agricole situate nei territori delle aree della ex Cassa del Mezzogiorno. Pertanto, se i contributi agricoli sono dovuti nella misura del 100% dalle imprese del settore operanti in territori non svantaggiati, le riduzioni operano:

  • per le imprese agricole situate in territori particolarmente svantaggiati (ex zone montane) per il 75% con aliquota applicata a carico dell’azienda pari al 25%;
  • per le imprese dei territori classificati come svantaggiati. In questo caso la misura della riduzione è pari al 68%. Rimangono a carico dell’impresa agricola contributi per il 32%.

Limiti al pignoramento della pensione 2022: importi e modalità

La legge stabilisce che in presenza di debiti è possibile pignorare i beni dei debitore presso terzi, tra i beni del debitore presso terzi che possono essere oggetto di pignoramento vi sono lo stipendio e la pensione. In questo caso si parla di pignoramento presso terzi perché il bene viene aggredito prima che entri nella disponibilità del debitore. Naturalmente la legge prevede anche dei limiti e gli stessi corrispondono a quello che viene considerato il minimo vitale per poter vivere. Naturalmente questo minimo viene adeguato al costo della vita e all’inflazione. Vediamo quindi quali saranno i limiti al pignoramento della pensione 2022.

Limiti al pignoramento della pensione: tipologie escluse

La disciplina del pignoramento presso terzi è prevista dall’articolo 543 del codice di procedura civile. Si tratta di una vera e propria espropriazione dei beni del debitore che però avviene prima che lo stesso abbia disponibilità di tali beni. La prima cosa da sottolineare è che non tutte le pensioni possono essere pignorate, in particolare non sono oggetto di pignoramento quelle che sono considerate prestazioni assistenziali e quindi la pensione sociale e la pensione di invalidità civile, mentre può essere sottoposta a pignoramento la pensione di reversibilità, anche conosciuta come pensione superstiti.

Come si calcola il limite pignorabile?

La prima cosa da fare è calcolare il limite impignorabile, la disciplina prevede che la quota di pensione che non si può toccare è pari a 1,5 volte l’assegno sociale. Quindi in primo luogo è necessario conoscere l’importo previsto per l’assegno sociale, lo stesso è fissato per il 2022 in 468,10 euro. Tale importo deve poi essere moltiplicato per 1,5. Risulta quindi che il limite al pignoramento della pensione 2022 è di 702,15 euro.

Questo però non vuol dire che la rimanente parte può essere pignorata al 100%, infatti di questa residua porzione di pensione, può essere pignorato solo il 20%, o meglio 1/5.

Ne consegue che nel caso in cui una persona percepisca 900 euro di pensione, a questa somma deve essere detratto il limite al pignoramento della pensione 2022, quindi 702,15 euro, restano quindi 197,85 euro. Di questo importo il creditore può aggredire il 20%, cioè 39, 57 euro.

Cambiano però gli importi nel caso in cui ci sia più di un creditore. In questo caso restano fermi i limiti al pignoramento della pensione, ma la quota rimanente può essere pignorata al 40%, quindi nel caso già visto, si tratta di una quota pari a 79,14 euro.

Pignoramento pensione già accreditata

In caso di accredito della pensione in conto corrente, è possibile pignorare anche la quota di importi presenti in conto al momento dell’inizio dell’esecuzione forzata. Cosa vuol dire? Semplicemente che se l’esecuzione, ad esempio, viene autorizzata il 15 del mese, sulle somme presenti a tale data sul conto corrente su cui viene accreditata la pensione, si effettua un primo prelievo, lo stesso però può avere un ammontare pari a 1/5 rispetto all’importo dell’assegno sociale moltiplicato per 3. Quindi la quota che non si può toccare giacente in conto è per il 2022 di 1.404,30€ , la rimanente parte può essere accreditata al creditore per un importo pari a 1/5 (20%). Ad esempio se in conto ci sono 2.500 euro, è necessario sottrarre 1.404,40, restano 1.095,70 e su questa quota al creditore spetta il 20%, cioè 219,14 euro. I successivi pignoramenti saranno fatti prima dell’accredito e con i criteri visti in precedenza.

Se il pignoramento è effettuato dall’Agenzia delle Entrate per crediti esattoriali cambiano gli importi. In questo caso il pignoramento ha importo pari al:

  • 1/10 per importi fino a 2.500 euro;
  • 1/7 per importi compresi tra 2.500 euro e 5.000 euro;
  • 1/5 per importi superiori a 5.000 euro.

Questi sono i limiti al pignoramento della pensione 2022.

Pensioni con i fondi di solidarietà bilaterali, cosa sono e quali sono i requisiti di uscita

Per alcuni settori produttivi si può andare in pensione anticipata con i fondi di solidarietà bilaterali, usufruendo di requisiti agevolati e di un’uscita anticipata di cinque anni. Lo strumento previdenziale riguarda, nella maggior parte dei casi, i settori del credito, delle assicurazioni, delle Ferrovie dello stato e del credito cooperativo. Ma anche altri settori possono accedere ai fondi bilaterali consentendo ai datori di lavoro di accompagnare i lavoratori all’uscita anticipata. I meccanismi previdenziali compresi in questa misura contemplano l’erogazione di un assegno straordinario di integrazione al reddito basato sulla contrattazione collettiva.

In pensione con i fondi bilaterali, i riferimenti normativi e le estensioni del 2022

A prevedere la possibilità di pensione anticipata con i fondi di solidarietà bilaterali è stato il decreto legislativo numero 148 del 2015. All’articolo 26 il decreto definisce gli strumenti a sostegno dei redditi dei lavoratori per situazioni di riduzione dell’attività lavorativa o di accompagnamento alla pensione. Novità sono arrivate dalla legge di Bilancio 2022. Infatti, la finanziaria ha esteso la possibilità di ricorrere ai fondi bilaterali anche le imprese con un solo dipendente. Nel contempo, la legge spinge le parti sociali a ricorrere maggiormente alla contrattazione.

Pensioni con i fondi bilaterali, come matura il diritto all’uscita anticipata?

Andare in pensione con i fondi bilaterali comporta l’accordo collettivo delle maggiori sigle sindacali nazionali. Tali accordi sono volti a utilizzare i fondi di solidarietà bilaterali per sostenere il reddito in periodi di difficoltà delle imprese o per procedere all’accompagnamento alla pensione con alcuni anni di anticipo dei lavoratori.

Pensioni con l’assegno straordinario dei fondi di solidarietà bilaterali: di cosa si tratta?

Proprio in questo ambito, uno degli strumenti più diffusi messi a disposizione dai fondi di solidarietà bilaterali è rappresentato dall’assegno straordinario di sostegno al reddito. Si tratta di una indennità finanziata dai datori di lavoro per coinvolgere i lavoratori nell’esodo aziendale. L’indennità accompagna, dunque, i lavoratori negli anni di prepensionamento fino ad arrivare ai requisiti richiesti per la pensione di vecchiaia, attualmente fissata a 67 anni di età.

Quali sono i requisiti richiesti per la maturazione delle pensioni con i fondi di solidarietà bilaterali?

Per poter accedere alla formula di pensione anticipata con i fondi di solidarietà bilaterali i requisiti richiesti al lavoratori sono:

  • maturazione di requisiti per la pensione di vecchiaia entro 5 anni;
  • accompagnamento all’uscita per i lavoratori che si trovino a non più di 5 anni dalla maturazione dei requisiti necessari per la pensione anticipata.

Similmente a quanto avviene per l’isopensione, l’accordo sindacale è necessario per l’accesso alla pensione con i fondi bilaterali. Diventa indispensabile, pertanto, che i lavoratori aderiscano allo scivolo previdenziale. Il passaggio necessario è quello della cessazione del rapporto di lavoro.

Pensione anticipata con i fondi di solidarietà bilaterali o isopensione: quale conviene di più?

Per il lavoratore, la pensione anticipata con i fondi di solidarietà bilaterali è più conveniente, in termini di trattamento economico mensile, rispetto all’isopensione. Lo è perché l’importo dell’assegno straordinario dei fondi bilaterali calcola già i contributi complessivi fino a tutto l’espletamento dello scivolo pensionistico. Ovvero fino alla maturazione della pensione di vecchiaia. Mentre nel caso dell’isopensione, i contributi si fermano a quanto maturato al momento dell’uscita con l’esodo. In entrambi i casi, tuttavia, il datore di lavoro versa la contribuzione fino a quando il lavoratore non maturi il diritto alla pensione di vecchiaia.

In pensione con i fondi di solidarietà bilaterali: si può continuare a lavorare?

Particolari regole vigono per quanto attiene al cumulo dei redditi da lavoro e da pensione. E, dunque, alla possibilità di lavorare durante gli anni di esodo del contribuente accompagnato alla pensione. I singoli fondi bilaterali possono prevedere l’incompatibilità e la non cumulabilità dei redditi, sia parziale che totale. Cosa che non avviene nel caso dei contratti di espansione e nell’isopensione. Pertanto, in alcuni settori come quelli del credito e delle assicurazioni, il contribuente che percepisce l’assegno straordinario non può continuare a lavorare.

Divieto di cumulo redditi da lavoro e da pensione nel caso di fondi di solidarietà bilaterali

E dunque non può cumulare l’assegno stesso con redditi derivanti da lavoro alle dipendenze o autonomo. Il divieto vige specificamente perché il lavoro svolto dal contribuente andrebbe in concorrenza con il datore di lavoro dal quale il soggetto ha ricevuto l’esodo. In base alla normativa, sono vietati anche i susseguenti contratti di consulenza e di collaborazione con lo stesso datore di lavoro che ha utilizzato l’esodo. Se si violano le disposizioni, si decade dal trattamento economico e dalla relativa contribuzione.

Pensione con l’esodo dei fondi di solidarietà, si può lavorare con altri datori di lavoro?

Nel caso in cui si svolga un’altra attività con un datore di lavoro non in concorrenza con l’azienda che ha accompagnato alla pensione con i fondi di solidarietà il lavoratore, l’assegno straordinario si può cumulare con i redditi da lavoro dipendente nel limite dell’ultima retribuzione mensile. Se si supera questa soglia, l’assegno straordinario viene decurtato della parte eccedente. Il lavoratore, pertanto, ha l’obbligo di effettuare la comunicazione per far presente lo svolgimento della nuova attività. Tale comunicazione va fatta sia al fondo tramite al sede Inps competente per territorio, sia allo stesso datore di lavoro.

Pensioni con i fondi di solidarietà, si può usufruire della quota 102 del 2022?

Si può beneficiare delle pensioni a quota 102 con i fondi di solidarietà bilaterali? In altre parole, l’anticipo dei fondi può essere fatto sui requisiti della quota 102? Per rispondere alla domanda è necessario rifarsi alla precedente quota 100. Il decreto legge numero 4 del 2019 stabilì l’impossibilità di accesso alla quota 100 con l’assegno straordinario assicurato dallo scivolo dei fondi bilaterali. Successivamente è stato previsto un assegno ad hoc parallelo alla quota 100, peraltro esteso nel 2022 alla quota 102. Si ritiene, pertanto, che le aziende possano accompagnare i lavoratori alla pensione con riferimento al nuovo strumento previdenziale sperimentale fino al 31 dicembre 2022.

Fondi bilaterali per la pensione, agevolazioni sul riscatto della laurea

Peraltro, alcuni fondi bilaterali hanno previsto alcune agevolazioni a favore dei lavoratori accompagnati allo scivolo previdenziale con l’assegno straordinario. In alcuni settori, infatti, il datore di lavoro ha la possibilità di pagare direttamente al lavoratore l’onere del riscatto della laurea. Oppure l’onere di ricongiunzione. Questa possibilità accorcia i requisiti per accedere allo scivolo previdenziale, permettendo, nei casi di consistenza di requisiti richiesti, di accedere alla pensione senza nemmeno permanere un mese nel fondo di solidarietà.

Riduzione assegno di mantenimento all’ex coniuge: come sapere se percepisce pensione?

Per chi versa l’assegno di mantenimento è determinante conoscere la situazione reddituale dell’ex coniuge. Se, ad esempio, la moglie ha sempre lavorato ma prima del divorzio era disoccupata, l’accesso alla pensione della donna potrebbe determinare la fine dell’obbligo di mantenimento da parte dell’ex marito. In caso di cambiamento dei redditi percepiti, infatti, può essere richiesta la revisione delle condizioni di mantenimento (diminuzione o revoca dell’assegno). E allora come fare a sapere se l’ex coniuge percepisce la pensione? Si può consultare l’archivio dell’Inps per capire se la situazione reddituale dell’altro è mutata? O esistono altri modi?

In questo articolo non solo spiegheremo come richiedere l’accesso all’archivio dell’Inps con le pensioni di tutti i cittadini per capire se l’ex coniuge la percepisce, ma forniremo anche indicazioni su come capire la situazione reddituale senza autorizzazione del tribunale.

Archivio delle pensioni: chi può accedere?

L’Inps, come ogni altro ente previdenziale, ha un archivio in cui sono registrati tutti i nomi dei beneficiari delle prestazioni previdenziali e assistenziali che eroga. Ovviamente, un privato cittadino non può consultarlo liberamente. Ma questo archivio è collegato all’Anagrafe Tributaria (il database che l’Agenzia delle Entrate utilizza per risalire ai redditi dei contribuenti) alla quale, nel rispetto di determinate condizioni, può accedere chiunque.

Per farlo, però, è necessario seguire un preciso iter poiché dall’Anagrafe tributaria non emergerà solo la pensione percepita dall’ex coniuge ma anche tutti i redditi che percepisce a qualsiasi titolo (eventuali redditi da locazioni, eventuali redditi da lavoro, collaborazioni, ecc…). E non tutti, indistintamente, possono accedere all’Anagrafe tributaria. Per i privati l’accesso è previsto solo in determinati casi che sono:

  • necessità di recuperare un credito attestato da una sentenza, una cambiale, un assegno o un decreto ingiuntivo;
  • necessità di accertare il reddito dell’ex coniuge per il riconoscimento o la revisione dell’assegno di mantenimento.

Anagrafe tributaria: come fare se si vanta un credito?

Nel caso si vanti un credito attestato, per poter accedere alla consultazione dell’archivio dell’Anagrafe tributaria è necessario prima presentare al debitore un atto di precetto (una sorta di sollecito al pagamento delle somme dovute) e solo dopo presentare istanza al tribunale per ottenere l’autorizzazione alla consultazione dell’archivio Inps dell’Anagrafe tributaria.

Ottenuta l’autorizzazione dal tribunale a eseguire l’indagine all’interno dell’archivio dell’Inps è l’ufficiale giudiziario che ricerca, in modalità telematica tutte le informazioni rilevanti e tutti i crediti che è possibile pignorare, compresa la pensione. Al termine dell’esplorazione, poi, l’ufficiale giudiziario stilerà un verbale in cui indicherà quali sono tutte le banche dati che ha interrogato e quali sono stati i risultati della ricerca. In questo modo, non sicuramente facile, si può sapere se l’ex coniuge percepisce la pensione.

C’è sempre il diritto di consultare le dichiarazioni dei redditi dell’ex coniuge?

Nella maggior parte dei casi l’indagine viene svolta dall’ex coniuge per sapere se ci sono redditi con i quali chiedere, magari, la revisione dell’assegno di mantenimento. Per procedere con la richiesta di revisione, infatti, è necessario rivolgersi al tribunale e agire in causa ed è sempre meglio farlo quando si hanno prove tangibili in mano (l’ex coniuge percepisce una pensione, ad esempio, che prima non percepiva, ha trovato un lavoro oppure ha ottenuto un aumento di stipendio).

E’ possibile conoscere tutti i redditi dell’ex coniuge senza la necessità di richiedere autorizzazioni e in modo legale. È bene sapere che spiare i redditi dell’ex coniuge non richiede autorizzazioni. Per poter consultare l’archivio del Fisco basta avere un giustificativo meritevole di tutela e nel caso di specie la motivazione è proprio la revisione dell’assegno di mantenimento.

Per avere una riduzione o un aumento dell’assegno di mantenimento, infatti, l’interessato può rivolgersi all’Agenzia delle Entrate, che gestisce l’Anagrafe Tributaria, per richiedere una visione dei redditi dell’ex coniuge. E sapere, in questo modo, anche se percepisce la pensione.

In un primo momento per avere l’accesso veniva richiesta all’ex coniuge l’autorizzazione del tribunale che, però, la rilasciava solo una volta avviata la causa per la revisione dell’assegno di mantenimento. Diverse sentenze del Tar del Lazio, del Tar della Campania, del Tar della Puglia e del Tar della Lombardia però, hanno preso un orientamento diverso stabilendo il diritto della persona separata o divorziata (o in procinto di farlo) di richiedere all’Agenzia delle Entrate la visione della dichiarazione dei redditi dell’ex coniuge per poter avviare una causa di revisione dell’assegno di mantenimento.

Come sapere se l’ex coniuge percepisce la pensione

Non è necessario ottenere l’autorizzazione del giudice per verificare i redditi dell’ex coniuge e l’interessato può richiedere direttamente all’Agenzia delle Entrate di avere accesso alle sue dichiarazioni dei redditi. Il nuovo processo amministrativo, infatti, sancisce un vero e proprio diritto di accesso agli atti amministrati per chi ha un interesse quantificato a visionarli.

Presentata la domanda all’Agenzia delle Entrate si dovrà attendere un tempo massimo di 30 giorni entro i quali l’AdE dovrebbe fornire una risposta. In assenza di un responso o in caso di rigetto della domanda ci si dovrà rivolgere al Tar per presentare ricorso contro il silenzio dell’Agenzia delle Entrate o contro il suo diniego.

Pensioni lavoratori precoci con quota 41, chi può avere lo sconto nel 2022?

Per i lavoratori che abbiano iniziato a lavorare all’età dell’adolescenza, anche per il 2022 si potrà usufruire delle pensioni anticipate a quota 41. La misura dei precoci, infatti, consente ai contribuenti di uscire da lavoro al raggiungimento dei 41 anni di contributi con una finestra mobile di 3 mesi. Tuttavia, non si tratta di una quota 41 per tutti, anche se non esiste un’età minima per andare in pensione. Infatti, i precoci devono soddisfare determinati requisiti per lasciare il lavoro da “precoci”.

Pensioni precoci, quali sono i requisiti richiesti di contributi e condizioni lavorative?

Il primo requisito delle pensioni precoci per agganciare l’uscita con 41 anni di contributi è quello secondo il quale è necessario aver versato un anno di contributi prima del raggiungimento dei 19 anni di età. Si tratta di un requisito di carattere generale che deve essere soddisfatto da chiunque voglia uscire con 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età di pensionamento. Tuttavia, a questo requisito è necessario abbinare, alternativamente, uno dei restanti quattro requisiti. Si tratta dello stato di disoccupazione, dell’assistenza di un familiare con handicap o della non capacità lavorativa e dell’appartenenza a una delle categorie di lavoratori impiegati in mansioni usuranti.

Andare in pensione con la misura per i precoci per chi è senza lavoro

Il primo dei tre requisiti richiesti delle pensioni per i precoci è quello di trovarsi nello stato di disoccupazione. Ovvero il richiedente la pensione deve trovarsi in questo stato in seguito alla cessazione del proprio rapporto di lavoro per licenziamento, risoluzione consensuale o per dimissioni per giusta causa. Il licenziamento può essere avvenuto anche in maniera collettiva. In tutti i casi, per ottenere la pensione è necessario aver già espletato da almeno tre mesi la prestazione prevista per la disoccupazione.

Pensioni con quota 41 per chi assiste convivente con handicap o ha riduzione capacità lavorativa

Ammessi alla pensione dei precoci anche i soggetti che assistano il coniuge o un parente di primo grado convivente in situazione di handicap grave. L’assistenza deve avvenire da almeno 6 mesi e può estendersi anche ai parenti e affini di secondo grado conviventi quando i genitori o il coniuge della persona con handicap abbiano almeno 70 anni, o con patologie invalidanti, o siano mancanti o deceduti. Sono ammessi alle pensioni con quota 41 anche i contribuenti che abbiano subito la riduzione della capacità lavorativa almeno al 74%.

Ammessi alle pensioni precoci anche i lavoratori impiegati in mansioni gravose o usuranti

Sono ammessi alla pensione dei precoci anche i lavoratori impiegati in mansioni gravose o usuranti. L’attività deve essere svolta da non meno di 7 anni rispetto agli ultimi 10. In alternativa il lavoro deve essere stato svolto, al momento del pensionamento, da almeno 6 rispetto agli ultimi 7 anni. Inoltre, a partire dal 1° gennaio 2022 le categorie dei lavoratori ammesse per svolgimento di attività usuranti sono state estese. Le categorie, come i requisiti inerenti i disoccupati, i caregiver e gli invalidi civili, sono le medesime richieste per le pensioni con uscita Ape sociale.

Categorie lavorative ammesse alle pensioni precoci con quota 41 come usuranti nel 2022

Sono ammessi alle pensioni dei lavoratori precoci in quanto facenti parte di attività definite “usuranti” o “gravose” le seguenti categorie lavorative:

  • gli operai dell’industria estrattiva, dell’edilizia e della manutenzione degli edifici;
  • i conduttori delle gru e di macchinari mobili per la perforazione nelle costruzioni;
  • i conciatori di pelli e di pellicce;
  • i conduttori di convogli ferroviari e il personale viaggiante;
  • il personale delle professioni sanitarie infermieristiche e ostetriche ospedaliere, con organizzazione del lavoro su turni;
  • i conduttori di mezzi pesanti e di camion;
  • gli addetti all’assistenza personale di soggetti in condizioni di non autosufficienza;
  • i docenti della scuola dell’infanzia, gli educatori degli asili nido e le professioni assimilate;
  • i facchini, gli addetti allo spostamento delle merci e gli assimilati;
  • il personale non qualificato per i servizi di pulizia;
  • gli operatori ecologici e gli altri raccoglitori e separatori di rifiuti;
  • gli operatori agricoli, della zootecnia e della pesca;
  • i pescatori della pesca costiera, in acque interne, in alto mare sia dipendenti che soci di cooperative;
  • i lavoratori del settore siderurgico di prima e di seconda fusione; i lavoratori del vetro addetti a mansioni ad alte temperature non già rientranti nella normativa del decreto legislativo numero 67 del 2011 degli usuranti;
  • i marittimi imbarcati a bordo e il personale viaggiante dei trasporti marini e delle acque interne.

Pensionati con quota 41 dei lavoratori precoci, possono svolgere altri lavori?

Chi sia andato in pensione come precoce con la quota 41 non può cumulare i redditi relativi allo svolgimento di un lavoro (sia da dipendente che da autonomo) con la pensione. Il divieto vige per tutto il periodo di decorrenza della pensione, fino a raggiungere il diritto al pensionamento se non avessero beneficiato della deroga ai requisiti ordinari di uscita da lavoro. La domanda di pensione con quota 41 deve essere presentata entro il 1° marzo di ciascun anno. La seconda scadenza annuale è fissata al 15 luglio. L’ultima scadenza è relativa al 30 novembre, ma in questo caso è necessario verificare che siano residuate le risorse finanziare per beneficiare della misura.

Trattamento di fine rapporto (Tfr) o di fine servizio (Tfs) nel caso di pensione dei lavoratori precoci

Nel caso di pensione ottenuta con la quota 41 dei lavoratori precoci, il Trattamento di fine servizio (Tfs) dei subordinati del pubblico impiego e il Trattamento di fine rapporto (Tfr) dei lavoratori del settore privato decorreranno dal momento in cui il neopensionato abbia raggiunto i requisiti per andare in pensione con i requisiti ordinari. Alla decorrenza andranno sommati anche gli ordinari termini di differimento, consistenti in un anno per la vecchiaia e in 24 mesi per la pensione anticipata.

Pensione: quando la disoccupazione aiuta: via dal lavoro sue anni prima

Parlare di disoccupati che vanno in pensione sembra una assurdità dettata dal nostro sistema previdenziale che prevede l’obbligo di versare contributi per uscire dal lavoro con la quiescenza. Ma la disoccupazione, intesa come indennità può essere un valido veicolo per consentire a chi non riesce più a trovare le energie e la forza per continuare a lavorare, di lasciare il lavoro.

Pensioni e Naspi, un connubio che anche alcune misure prevedono

La Naspi è l’indennità per disoccupati Inps, quella che l’Istituto eroga a chi perde involontariamente il proprio lavoro. Si tratta di una indennità erogata mensilmente dall’Inps per un periodo massimo di 24 mesi. Infatti si può prendere al Naspi per la metà delle settimane lavorate nel quadriennio precedente la data in cui si perde il lavoro.

Il periodo indennizzato con la Naspi è coperto dal punto di vista contributivo, con la cosiddetta contribuzione figurativa, valida sia per il diritto alla pensione che per la misura. Ma attenzione, ci sono alcune misure pensionistiche che prevedono il raggiungimento di determinate soglie di contributi al netto di eventuali periodi di contribuzione figurativa, come può essere proprio la Naspi.

Quando i contributi da disoccupazione non servono per la pensione

Una di queste per esempio è la pensione anticipata ordinaria, per la quale servono 42 anni e 10 mesi di versamenti per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, ma di questi 35 devono sempre essere effettivi, cioè senza considerare i figurativi da disoccupazione e malattia.

La disoccupazione è stata anche collegata a due misure previdenziali in questi anni. Un collegamento evidente visto che tra i destinatari di Ape sociale e quota 41 ci sono proprio i disoccupati. Per esempio fino allo scorso anno, chi voleva prendere lo scivolo dell’Ape sociale in qualità di disoccupato, doveva aver terminato di percepire la disoccupazione indennizzata (la Naspi) da almeno 3 mesi.

Naspi, quando può diventare un valido accompagnamento alla pensione

Ma lasciando da parte i collegamenti che la Naspi ha con il mondo previdenziale, sia come requisito di accesso alla pensione che come contribuzione figurativa, la disoccupazione può tornare utile per un altro motivo.

Può diventare una sorta di assegno di accompagnamento alla quiescenza. Chi è stanco di lavorare, oppure a chi pesa dover attendere ancora due anni per accedere alla pensione, la Naspi può essere una soluzione.

Parliamo come è evidente, di soggetti che si trovano a due anni dal raggiungimento di una qualsiasi misura pensionistica. Una soluzione, quella di prendere due anni di Naspi e poi di andare in pensione, valida per molti. Infatti, opzione ok per chi compie 65 anni e vede lontana due anni la soglia dei 67 anni per la pensione di vecchiaia. Ma è utile anche per chi ha raggiunto già i 40 anni e 10 mesi di contributi versati, compresi i 35 anni effettivi prima citati (per le donne si parte dai 39 anni e 10 mesi). Come dicevamo, si tratta di una soluzione assolutamente valida per chi non la fa più a continuare a lavorare.

Bisogna prima verificare di avere diritto alla Naspi

In primo luogo va sottolineato che occorre fare bene i conti.  Se si vuole utilizzare questo escamotage, perfettamente legale, per lasciare prima il lavoro., occorre verificare alcune cose. Occorre verificare se si ha diritto alla Naspi, altrimenti si rischia di restare senza lavoro e senza sussidio.

Va detto che 24 mesi di Naspi spettano solo a coloro i quali hanno 4 anni di continuità lavorativa prima di perdere il posto di lavoro. Essendo la durata massima fruibile pari a due anni, è evidente che servono 4 anni pieni di lavoro per poterne passare due in disoccupazione. Inoltre occorre che sia il datore di lavoro a licenziare il lavoratore.

La perdita del lavoro deve essere involontaria, perché salvo che per quelle per giusta causa, le dimissioni volontarie non danno diritto alla Naspi. Occorre chiedere al datore di lavoro di essere licenziati. Solo così si potrà presentare domanda di Naspi all’Inps.

Alcune problematiche da tenere in considerazione, sia per il lavoratore che per il datore di lavoro

Va detto al riguardo che non sempre il datore di lavoro può concedere questa specie di favore al lavoratore. Occorre fare i conti con le esigenze del datore di lavoro e delle attività aziendali, ma anche con il ticket licenziamento che fa pagare al datore di lavoro una parte della Naspi spettante al lavoratore.

Inoltre, occorre fare i conti con altri aspetti, stavolta collegati non al datore di lavoro, ma al lavoratore. Come abbiamo detto prima, meglio verificare se il periodo di Naspi non influisca negativamente sul diritto alla pensione, magari per via del limite dei 35 anni effettivi da centrare. Va sottolineato che basta che manchino pochi mesi a questi 35 anni per rendere non fruibile la pensione anticipata per esempio.

Gli ultimi mesi di Naspi sono nettamente più bassi di importo rispetto ai primi

Da non sottovalutare poi la questione reddituale. La Naspi è pari al 75% dello stipendio medio ai fini contributivi degli ultimi 4 anni. Quindi, già di base si prende meno rispetto allo stipendio. E nel lungo periodo va ancora peggio. Oggi dal sesto mese di fruizione della Naspi, questa cala del 3% progressivo al mese. Infatti il 3% del settimo mese, viene calcolato sull’importo della Naspi del sesto mese, già a sua volta decurtato del suo 3% e così via fino al 24imo mese di fruizione.

Questo significa che alla fine dei 24 mesi la Naspi spettante arriva quasi a ridursi della metà, con gli ultimi 6/7 mesi che sono già drasticamente tagliati. Si tratta di mesi dove occorrerà fare i conti con una netta riduzione di reddito, che si risolverà solo a pensione raggiunta.

Assegno ordinario di invalidità: nella trasformazione in pensione di vecchiaia l’importo cambia?

L’assegno ordinario di invalidità è riconosciuto ai lavoratori che perdano almeno 2/3 della capacità lavorativa, ma cosa succede al momento in cui maturano i requisiti per la pensione? In particolare: cambia l’importo percepito in seguito alla trasformazione?

Cos’è l’assegno ordinario di invalidità?

L’assegno ordinario di invalidità, da non confondere con l’indennità di invalidità civile, è una prestazione economica, non reversibile, riconosciuta ai lavoratori dipendenti e autonomi, sono esclusi i lavoratori del settore pubblico. La disciplina di questo istituto è contenuta nella legge 222 del 1984.

Il diritto a percepirlo è riconosciuto ai lavoratori che abbiano maturato almeno 5 anni di anzianità contributiva, di cui 3 nel quinquennio precedente rispetto al momento in cui si presenta l’istanza. Per ottenere l’assegno ordinario di invalidità è inoltre necessaria la perdita di almeno 2/3 della capacità lavorativa a causa di un’infermità fisica o mentale. La sentenza della Corte di Cassazione 7770/2006 ha sottolineato che la riduzione delle capacità lavorativa non deve essere valutata avendo come riferimento le tabelle utilizzate per l’invalidità civile, ma avendo come punto di riferimento le mansioni generalmente svolte dal soggetto che presenta l’istanza.

Per ottenere l’assegno ordinario di invalidità non sono previsti requisiti anagrafici. Ci sono invece dei limiti inerenti la durata, infatti lo stesso viene corrisposto per 3 anni ed è  prorogabile su richiesta del lavoratore. Naturalmente la proroga avviene solo nel caso in cui persistano i requisiti che hanno portato al riconoscimento dell’assegno. Dopo tre conferme, quindi dopo nove anni, si rinnova automaticamente, infine al raggiungimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia si trasforma automaticamente in tale misura. La differenza è data dal fatto che l’assegno ordinario di invalidità non prevede reversibilità, mentre la pensione di vecchiaia sì, inoltre vi è anche un adeguamento dal punto di vista economico.

Come si calcola l’importo dell’assegno ordinario di invalidità?

L’importo dell’assegno ordinario di invalidità si misura sulla base dei contributi effettivamente versati dal lavoratore.

Se il lavoratore ha maturato dei contributi prima del 1996 si adotta il criterio misto (contributivo e retributivo) per il calcolo dell’ammontare. In questo caso se prima del 1996 il lavoratore aveva maturato almeno 18 anni di contributi, il sistema retributivo si applica fino al 2011, mentre se prima del 1996 i contributi maturati erano meno di 18 anni, il calcolo retributivo si applica fino al 1996.

Per coloro che hanno iniziato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996 il calcolo è interamente contributivo.

Fatta questa premessa, la normativa stabilisce che, se applicando i criteri visti il risultato è una assegno ordinario di invalidità di valore inferiore al minimo previsto dalle singole gestioni, il contributo mensile sarà adeguato al minimo. Vi sono però dei correttivi:

  • per i soggetti coniugati e non separati legalmente l’integrazione ora vista non spetta se il reddito complessivo supera di tre volte il minimo per la gestione a cui appartiene il richiedente;
  • l’integrazione inoltre non spetta a coloro che hanno ulteriori redditi propri di importo superiore a due volte il valore previsto per la pensione sociale.

A questo punto occorre ricordare che coloro che, nonostante il riconoscimento dell’assegno ordinario di invalidità continuano a svolgere attività lavorativa, possono andare incontro a una riduzione degli importi. La stessa è del 25% per coloro che dichiarano redditi compresi tra 4 e 5 volte il minimo dell’assegno sociale e del 50% per coloro che dichiarano redditi superiori a 5 volte il minimo sociale. Per il 2022 il trattamento minimo sociale è 523,83 euro.

Nella trasformazione in pensione di vecchiaia, l’importo cambia?

Maturati i requisiti per la pensione di vecchiaia, l’assegno ordinario di invalidità viene automaticamente trasformato in pensione di vecchiaia. Ciò porta dei vantaggi, infatti se prima del riconoscimento del sostegno economico erano maturati dei contributi, l’assegno viene appunto calcolato su questo, con la possibile integrazione vista prima.

Nel frattempo, visto che residua della capacità lavorativa, il lavoratore può continuare a maturare dei contributi a fini pensionistici. Nel momento della trasformazione dell’assegno dovranno essere considerati anche tali contributi e questo porterà a un aumento dell’assegno riconosciuto.

Non ci sarà aumento nel caso in cui invece il percettore non abbia maturato ulteriori contributi e quindi abbia cessato ogni attività lavorativa.

Con la trasformazione dell’assegno ordinario di invalidità in assegno di pensione viene meno anche un altro svantaggio, avevamo visto in precedenza che vi era una riduzione degli importi nel caso in cui residuava al lavoratore capacità lavorativa e lui riusciva ad ottenere un reddito imponibile. Con la trasformazione non c’è più questa decurtazione quindi l’assegno sarà percepito per intero anche nel caso in cui il soggetto ha altre entrate.

Infine, come già anticipato, una volta trasformato l’assegno ordinario di invalidità in assegno di pensione matura anche il diritto a percepire la pensione superstiti o di reversibilità.

Gestione Separata INPS: come vengono accreditati i contributi?

I professionisti non iscritti a un albo professionale, e quindi a una cassa previdenziale specifica, sono tenuti a versare i contributi alla Gestione Separata INPS, molti si chiedono: come vengono accreditati i contributi alla Gestione Separata INPS?

La disciplina prevista per accreditare i contributi alla Gestione Separata INPS

Sappiamo tutti che per maturare il diritto alla pensione è necessario versare i contributi e che un anno di contributi corrisponde a 52 settimane con contratto full time. Diventa però difficile determinare il valore dei contributi quando si tratta di professionisti che non hanno un contratto che prevede un numero di ore specifico di lavoro. In questo caso occorre tenere in considerazione il reddito prodotto cercando di determinare una sorta di tariffa che faccia maturare diritti mensili. Ricordiamo che i contributi alla Gestione Separata INPS sono pagati in percentuale al reddito prodotto.

La prima norma a cui far riferimento è la legge 335 del 1995 che all’articolo 2 comma 29 prevede che il lavoratore iscritto alla Gestione Separata INPS ha diritto all’accreditamento dei contributi mensili relativi a ciascun anno solare a cui si riferisce il versamento. La  base su cui effettuare il calcolo è la stessa utilizzata per il calcolo delle imposte dul reddito.

Affinché però sia accreditato l’intero mese è necessario che l’importo corrisposto non sia inferiore al minimale di reddito previsto dall’articolo 1 comma 3 della legge 233 del 1990. Il comma stabilisce che “Il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali dovuti alle gestioni di cui al comma 1 da ciascun assicurato e’ fissato nella misura del minimale annuo di retribuzione che si ottiene moltiplicando per 312 il minimale giornaliero stabilito, al 1 gennaio dell’anno cui si riferiscono i contributi”.

Il minimale e il massimale contributivo

Facendo l’esempio concreto, il minimale contributivo previsto per il 2022 è di 15.953 euro, mensilmente 1.329,42 €. Versando i contributi corrispondenti a tale reddito, si ottiene l’accreditamento di un anno di contributi INPS . Tali importi variano di anno in anno in base all’inflazione, le revisioni sono normalmente fatte dall’INPS. Nel caso in cui si maturi un importo inferiore, le somme vengono accreditate in proporzione alla somma versata a partire dall’inizio dell’anno solare. Questo implica che può capitare di lavorare per 12 mesi, ma maturare contributi corrispondenti a un periodo inferiore, ad esempio 10 mesi. Tali 10 mesi vanno poi sommati ai mesi accumulati in precedenza e in futuro ai fini della maturazione dei diritti previdenziali e assistenziali.

La normativa prevede anche che, nel caso in cui il contribuente riceva redditi superiori al minimale, basteranno solo una parte dei mesi dell’anno per maturare il requisito contributivo annuale. Nella Gestione Separata INPS è inoltre previsto un massimale contributivo, lo stesso subisce modifiche di anno in anno, attualmente 103.055 euro. Raggiunta tale somma, il contribuente non è più tenuto al versamento dei contributi alla Gestione Separata INPS.

Se nello stesso anno sono instaurati anche altri rapporti di lavoro subordinato o che danno diritto all’iscrizione in gestioni speciali, i redditi non sono cumulati e gli assicurati hanno massimali distinti.

Quanto occorre versare per avere l’accreditamento di un anno di contributi?

Dobbiamo ricordare che la Gestione Separata INPS prevede diverse aliquote contributive a seconda della situazione del singolo soggetto. Vedremo ora quanto spetta versare come contributi INPS al fine di avere l’accreditamento di un anno di contributi.

Le aliquote sono:

  • 34,23% per i professionisti non assicurati presso altre forme pensionistiche e che hanno diritto a percepire la DIS-COLL. Costoro dovranno versare € 5.460,71 per avere l’accreditamento di un anno di contributi alla Gestione Separata INPS;
  • 33,72% per collaboratori e figure assimilate non iscritti ad altre gestioni pensionistiche e che non versano la maggiorazione DIS-COLL, in questo caso il versamento per veder accreditato un anno di contributi è 5.379,35 ;
  • 25,98% per professionisti non assicurati ad altre forme pensionistiche obbligatorie, in questo caso il contributo minimo è € 4.144,59;
  • 24% per professionisti che siano titolari di pensione o con altra tutela pensionistica obbligatoria. Il contributo previsto è di € 3.828,72.

Se vuoi sapere se devi iscriverti alla Gestione Separata INPS, leggi l’articolo: Gestione Separata INPS: chi deve iscriversi?

Per ulteriori approfondimenti: Pensione Gestione Separata INPS: misure, requisiti e particolarità

 

Aumento pensioni dal 1 gennaio 2023 per rivalutazione retroattiva

L’INPS comunica l’aggiornamento dell’inflazione dell’ISTAT. L’aumento pensioni ci sarà solo dal 1° gennaio 2023 con la rivalutazione retroattiva che consentirà di avere un buon conguaglio.

Aumento pensioni: come si calcola?

Annualmente l’importo della pensione ha un adeguamento in base all’inflazione. La rivalutazione viene fatta in base ai dati ISTAT che rileva l’aumento dei prezzi e determina quindi l’aumento del costo della vita e l’inflazione. L’adeguamento dell’INPS avviene in due fasi. La prima determina un adeguamento provvisorio, basato sulle stime dell’ISTAT provvisorie e applicato dal primo gennaio dell’anno successivo rispetto a quello in cui è stata valutata l’inflazione. Il secondo è definitivo, basato sui dati definitivi e applicato però dopo due anni rispetto a quello a cui l’inflazione si riferisce.

Perché l’aumento delle pensioni ci sarà dal primo gennaio 2023?

Il meccanismo di rivalutazione delle pensioni può effettivamente sembrare macchinoso, in realtà è più semplice di ciò che potrebbe sembrare. Andando nel concreto, nel mese di novembre 2021 l’Istat ha determinato l’inflazione dell’anno 2021 basandosi però sui dati a quel momento disponibili, cioè i primi 9 mesi dell’anno.

L’inflazione in quel momento registrata era all’1,7%, ma l’INPS nell’adeguare gli importi delle pensioni da erogare al primo gennaio 2022 ha applicato l’1,6%.

L’ISTAT ha poi rilevato che in realtà negli ultimi tre mesi del 2021 l’inflazione ha continuato la sua corsa, raggiungendo l’1,9%. L’INPS a questo punto attraverso la Circolare 15/22 ha reso noto che dal primo gennaio 2023 adeguerà gli importi alla reale inflazione del 2021 e di conseguenza verserà ai pensionati i conguagli.

Nel frattempo ha reso noto che invece nei prossimi mesi adeguerà gli importi versati ai pensionati all’iniziale stima dell’ISTAT permettendo così ai pensionati di recuperare lo 0,1%, si tratta di un piccolissimo ritocco.

Cosa succederà con la rivalutazione delle pensioni dal 1° gennaio 2023?

In base a quanto comunicato dall’INPS, dal 1° gennaio 2023 sarà applicato un nuovo aumento. In pratica per un assegno di 1.000 euro l’aumento sarà di circa 2 euro. A questo deve essere aggiunto il conguaglio per i 12 mesi precedenti, questo dovrebbe essere di 2 euro, sempre per una pensione di 1.000 euro  ma calcolato su 13 mensilità.

Chi ora percepisce 1.000 euro, riceverà dal mese di gennaio 2023 1.002 euro a cui si aggiungono ulteriori 26 euro di conguaglio per l’adeguamento all’inflazione definitiva calcolata dall’ISTAT. Nel mese di febbraio 2023 riceverà nuovamente 1.002 euro. Occorre però sottolineare che nel caso in cui i prezzi dovessero continuare a salire, l’importo percepito a gennaio 2023 vedrà anche l’aumento determinato dal tasso di inflazione provvisorio determinato dall’ISTAT sulle stime del 2022.

Naturalmente i calcoli devono essere fatti sul proprio assegno di pensione, ad esempio per chi percepiva 2.000 euro nel 2021, l’aumento ulteriore sarà di 4 euro mensili e il conguaglio sarà di 4 euro per 13 mensilità, cioè 52 euro.

Occorre però sottolineare che l’aggiornamento dell’ISTAT all’1,9% si applica invece fin da subito ai datori di lavoro che vedranno aumentare la spesa contributiva, il minimale giornaliero e le varie tariffe corrisposte ai lavoratori.

Per i pensionati ci sono però ulteriori buone notizie in particolare per coloro che ricevono importi alti, per informazioni c’è l’articolo: Contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro: addio dal 2022