Pignoramento TFS pubblico impiego, ecco quando e come

In questa rapida guida andremo a scoprire se e quando è possibile il pignoramento del TFS. Scopriamolo assieme nei prossimi paragrafi.

TFS, di cosa si tratta

Innanzitutto, partiamo col definire cosa si intende quando si parla di TFS.

In maniera molto rapida ed esaustiva, possiamo dire che il TFS (ovvero, Trattamento di Fine Servizio) è un’indennità corrisposta, alla fine del rapporto di lavoro, a quei dipendenti pubblici statali assunti prima del 1° gennaio 2001.

Inoltre, è necessario che tali dipendenti non abbiano optato per il Fondo Pensione Complementare di categoria Espero per Scuola e AFAM e Perseo Sirio per tutti gli altri.

In sostanza, possiamo dire che Il TFS dei dipendenti statali, così come il TFR dei dipendenti del settore privato, altro non è che una somma che dovrebbe garantire al lavoratore che cessa il rapporto di lavoro una certa elasticità economica.

Il TFS del lavoratore del pubblico impiego viene liquidato più o meno 15 mesi dopo la cessazione dal servizio se quest’ultima è avvenuta per accedere alla pensione di vecchiaia, per scadenza contratto a termine o per pensionamento d’ufficio

Pignoramento TFS, quando è possibile

Ma, quindi, quando è possibile correre il rischio di ottenere un pignoramento di TFS?

In principio, stando all’art 21 del DPR, il Trattamento di Fine Servizio per i dipendenti pubblici era ritenuto impignorabile, salvo in caso di danni di risarcimento del lavoratore nei confronti dell’amministrazione pubblica. Tuttavia a seguito della sentenza n. 99 del 1993 e n. 225 del 1997, la norma è stata dichiarata anticostituzionale.

Successivamente, però, la Corte Costituzionale ha equiparato il regime di pignorabilità tra TFR e TFS, andando così ad estendere le regole imposte ai dipendenti privati anche per i lavoratori del pubblico impiego:

  • TFR e TFS possono essere pignorati anche prima di essere versati al dipendente.
  • TFR e TFS possono essere oggetto di pignoramento nella misura massima di un quinto.

Pignoramento TFS, cos’ altro c’è da sapere

Il TFS, ovvero Trattamento di Fine Servizio così come il Trattamento di Fine Rapporto, ovvero TFR, costituisce un credito certo e liquidabile, maturato dal lavoratore già in costanza di rapporto e per questo motivo pignorabile.

Ma chi è che può pignorare il TFS, quindi?

La risposta a questa ultima domanda è presto data.

Qualunque creditore che sia munito di un titolo esecutivo quale che sia una sentenza (anche non definitiva) od anche un decreto ingiuntivo non opposto e quindi esecutivo, può pignorare il TFS di un lavoratore pubblico (o privato) nei limiti e nelle modalità precedentemente descritte.

Il TFR e il TFS possono essere pignorati solamente quando sono diventati esigibili da parte del debitore e sono quindi pronti per essere erogati allo stesso ovvero in due momenti: nel momento in cui il rapporto di lavoro cessa e si conclude per licenziamento o dimissioni; nel momento in cui il rapporto di lavoro cessa e si conclude per pensionamento del debitore.

E come si può risolvere un pignoramento?

  1. pagando il proprio debito;
  2. raggiungendo un accordo con il creditore;
  3. opponendosi al pignoramento.

Queste sono, ovviamente le tre opzioni più quotate, e ciascuna da valutare in singoli casi, per cercare la via di risoluzione di un pignoramento.

Questo è quanto vi fosse, dunque, di più utile e necessario da sapere in merito alle possibilità e ai rischi di pignoramento di TFS.

Cambia la scadenza del Green Pass: l’avviso per email

Sono sempre più numerosi gli italiani che negli ultimi giorni stanno ricevendo tramite e-mail una comunicazione in cui si sottolinea che cambia la scadenza del Green Pass. Ma cosa sta realmente cambiando e chi deve affrettarsi a prenotare una nuova dose di vaccino?

Cambia la scadenza del Green Pass

Dal 1° febbraio entrano in vigore nuove norme inerenti il Green Pass. Chi ne ha già uno ricevuto in seguito all’esecuzione del piano vaccinale primario (le prime due dosi) o in seguito a guarigione da Covid 19, avrà sicuramente notato che in esso è scritto che la validità è di 9 mesi. Ora però tutto cambia infatti dal primo febbraio la scadenza è a 6 mesi.

Proprio per questo il Ministero della Salute si sta affrettando ad avvisare i cittadini del fatto che cambia la scadenza del Green Pass. Non mancano però polemiche, infatti molti medici di famiglia stanno sottolineando che il messaggio è fuorviante. Il testo afferma: “dal 1° febbraio la certificazione verde Covid-19 non sarà più valida in Italia a seguito del passaggio da 9 a 6 mesi della durata di validità della certificazione per vaccinazione oppure per guarigione post vaccinazione”. Segue l’invito a prenotare un’ulteriore dose booster.

Per i medici di famiglia l’email è poco chiara

Secondo molti medici di famiglia il messaggio è fuorviante in quanto non sono in scadenza tutti i Green Pass. E’ necessario in primo luogo calcolare se quello a propria disposizione è stato rilasciato da più di sei mesi, ad esempio una persona che ha ricevuto la seconda dose dopo il 1° agosto, al primo febbraio avrà ancora una certificazione valida, naturalmente vicina alla scadenza. Lo stesso principio vale per chi è guarito dal Covid dopo il 1° agosto.

La confusione sulla scadenza è generata anche dal fatto che vi è stata una comunicazione spesso frenetica con molti giornali che riportavano delle indiscrezioni come vere notizie. Molti infatti erroneamente pensano che il green pass scada a 5 mesi dal rilascio, questo perché in realtà dopo 5 mesi dal rilascio è possibile sottoporsi alla terza dose.

Cambia la scadenza del Green Pass: cosa cambia dal primo febbraio?

Ricordiamo che ora il Green Pass è necessario per accedere in molti negozi tra cui anche per andare a ritirare la pensione, per andare dal tabaccaio, per entrare nelle varie attività commerciali. Si può entrare senza green pass nei negozi di articoli alimentari, farmacie e studi veterinari. Ricordiamo che come alternativa al green pass rafforzato si può utilizzare il green pass base, cioè un tampone, con esito negativo, eseguito da meno di 48 ore. Infine, il Governo dopo aver reso obbligatorio il vaccino per gli over 50, stabilendo anche la sanzione per chi non si sottopone al piano vaccinale, e di fatto aver molto limitato la libertà di circolazione per chi non ne ha uno, ha istituito il fondo per gli indennizzi per danni da vaccino anti Covid.

Resta da sottolineare che le nuove norme sul Green Pass stanno avendo effetti positivi, infatti sono numerose le persone che si sono sottoposte alla prima dose di vaccino anti Sars-Cov 19.

Pensioni a 63 anni: tutte le professioni interessate, per gli agricoli 32 anni di contributi

A partire dal 18 gennaio 2022 si possono presentare le domande per le pensioni Ape sociale, la misura previdenziale prorogata per tutto l’anno dalla recente legge di Bilancio. Sull’invio delle istanze, l’Inps è intervenuta con il messaggio numero 274 del 20 gennaio 2022 con il quale l’Istituto previdenziale ha anticipato le novità dell’anticipo pensionistico sociale, in attesa di ulteriori istruzioni. Tra le novità di quest’anno, l’allargamento delle categorie lavorativa addette a mansioni gravose e l’eliminazione, per i disoccupati, dei tre mesi di attesa per chi ha perso il lavoro.

Pensioni anticipate Ape sociale, quali sono i requisiti di uscita nel 2022?

La pensione anticipata Ape sociale si consegue all’età minima di 63 anni. Oltre al requisito anagrafico, è necessario appartenere a una delle categorie indicate di seguito:

  • essere disoccuparti;
  • prestare assistenza da almeno 6 mesi del coniuge o di un parente con handicap grave (i caregiver);
  • avere una percentuale di invalidità di almeno il 74%;
  • svolgere una mansione cosiddetta “gravosa”.

Pensioni anticipate Ape sociale, quanti anni di contributi servono?

Le prime tre categorie necessitano di 30 anni di contributi per la formula di pensione anticipata.  Gli addetti alle mansioni gravose, salvo delle eccezioni, devono aver versato almeno 36 anni di contributi. La misura previdenziale permette di ottenere un assegno di accompagnamento alla pensione dall’uscita fino al compimento dei 67 anni di età, allorquando sopraggiunge la pensione di vecchiaia. L’assegno temporaneo può arrivare a 1.500 euro al mese.

Pensioni con uscita a 63 anni: le novità della legge di Bilancio 2022 e l’abbassamento requisiti a edili e agricoli

Come è successo negli scorsi anni, anche per il 2022 le pensioni con anticipo pensionistico Ape sociale sono state prorogate per tutto l’anno in corso. Con alcune novità. Innanzitutto l’estensione ad altre categorie di lavoratori impiegate in mansioni gravose come risultato della Commissione tecnica istituita ad hoc con presidente Cesare Damiano. Una seconda novità riguarda l’abbassamento dei requisiti contributivi agli operai edili a 32 anni di contributi. Inoltre, per gli operai agricoli del gruppo 6 del Codice Ateco e per i ceramisti del gruppo 6.3.1.2 e “conduttori di impianti per la fornitura di articoli in ceramica e terracotta” (codice Ateco 7.1.3.3) gli anni di contributi da possedere sono 32 anziché 36.

Pensioni Ape sociale, ecco tutte le categorie dei lavoratori impiegati in mansioni gravose per il 2022

Tra i lavoratori impiegati in mansioni gravose, che possono andare in pensione a 63 anni con l’Ape sociale unitamente a 36 anni di contributi, troviamo:

  • i professori della scuola primaria, pre-primaria e le professioni assimilate, codice Ateco 2.6.4;
  • i tecnici della salute, codice Ateco 3.2.1;
  • gli addetti alla gestione dei magazzino e le professioni assimilate (codice Ateco 4.3.1.2);
  • le professioni qualificate nei servizi sanitari e sociali (codice Ateco 5.3.1.1);
  • gli operatori della cura estetica (5.4.3);
  • le professioni qualificate nei servizi personali e assimilati (5.4.4);
  • gli artigiani, gli operai specializzati e gli agricoltori (codice Ateco 6);
  • i conduttori di impianti e macchinari per l’estrazione e per il primo trattamento dei minerali (7.1.1).

Pensioni gravosi, le altre attività che fanno uscire da lavoro a 63 anni

Tra le altre attività, soprattutto di operai, artigiani e conduttori di veicoli e di impianti, possono andare in pensione a 63 anni in presenza di 36 anni di contributi:

  • gli operatori di impianti per la trasformazione e la lavorazione a caldo dei metalli (codice Ateco 7.1.2);
  • i conduttori di forni e degli altri impianti per la lavorazione del vetro, della ceramica e dei metalli assimilati (codice Ateco 7.1.3, 32 anni di contributi);
  • conduttori di impianti per trasformare il legno e per fabbricare la carta (7.1.4);
  • gli operatori di macchinari e di impianti per raffinare il gas e i prodotti petroliferi, per la chimica di base e la chimica fine e per la fabbricazione dei prodotti derivati dalla chimica (7.1.5);
  • i conduttori degli impianti per la produzione di energia termica e di vapore, per recuperare i rifiuti e per trattare e distribuire le acque (7.1.6);
  • conduttori di mulini e di impastatrici (7.1.8.1);
  • i conduttori dei forni e degli analoghi impianti per il trattamento termico dei minerali (7.1.8.2);
  • gli operai semigualificati su macchinari fissi per lavorare in serie e gli operai addetti ai montaggi (7.2):
  • gli operatori di macchinari fissi in agricoltura e nell’industria alimentare (7.3);
  • conduttori di veicoli, di macchinari mobili e di sollevamento (7.4).

Pensioni Ape sociale, quali sono le altre professioni di lavori gravosi per uscire a 63 anni?

Le ulteriori mansioni gravose delle pensioni con uscita a 63 anni dell’Ape sociale riguardano:

  • il personale non qualificato addetto a spostare e a consegnare le merci (codice Ateco 8.1.3);
  • personale non qualificato nei servizi di pulizia degli uffici, degli alberghi, delle navi, della aree pubbliche, dei ristoranti e dei veicoli (8.1.4);
  • i portantini e le professioni assimilate (8.1.5.2);
  • le professioni non qualificate nell’agricoltura, nella manutenzione del verde, nell’allevamento, nella silvicoltura e nella pesca (codice Ateco 8.3);
  • professioni non qualificate nella manifattura, nella estrazione dei minerali e nelle costruzioni (8.4).

Presentazione domanda Inps per le pensioni con Ape sociale nell’anno 2022: come si fa?

Per presentare la domanda di pensione anticipata con Ape sociale è necessario utilizzare i servizi on line del portale dell’Inps. In particolare, a partire dallo scorso 18 gennaio, è possibile inoltrare l’istanza per il riconoscimento delle condizioni di accesso (i requisiti) per la formula di accompagnamento alla pensione. In “Prestazioni e servizi” della sezione “Moduli” del sito dell’Inps sono disponibili i modelli che devono essere dati al datore di lavoro per accertare i requisiti di accesso alla pensione. I modelli sono differenti a seconda della categoria di lavoratori interessati: si tratta di moduli per i lavoratori del settore privato, del settore pubblico oppure dei lavoratori domestici.

Controlli sulle partite IVA, ecco a cosa fare attenzione

Tra i contribuenti, in Italia i titolari di partita IVA sono tra quelli con la maggiore pressione fiscale, ma anche quelli maggiormente oggetto di controlli e di verifiche da parte dell’Agenzia delle Entrate. Ed allora, proprio in merito ai controlli sulle partite IVA, vediamo a cosa un professionista o un lavoratore autonomo deve fare attenzione. Proprio al fine di evitare controlli e accertamenti che poi, inesorabilmente, possono portare il Fisco all’emissione di cartelle di pagamento.

Controlli fiscali sulle partite IVA, ecco quali sono

Al pari degli altri contribuenti, i controlli del Fisco sulle partite IVA sono finalizzati a rilevare eventuali omissioni, anomalie ed irregolarità. Nel dettaglio, i controlli fiscali possono essere sia automatizzati, sia formali nell’ottica di contrastare a monte i fenomeni evasivi ed anche elusivi.

Di conseguenza, i controlli fiscali sulle partite IVA partono dalla verifica sul pagamento delle tasse, in base alle dichiarazioni annuali, ed arrivano all’eventuale emersione di anomalie come ad esempio quelle legate ad un basso fatturato che è associato, invece, ad elevati livelli di spesa. Con le verifiche che, in tal caso, possono andare a riguardare pure i conti correnti di appoggio del professionista o del lavoratore autonomo.

Leggi anche: Obbligo fattura elettronica, i forfettari titolari di partita IVA sono in fibrillazione

A cosa fare attenzione quando a carico di un titolare di partita IVA c’è un controllo fiscale

Il controllo del Fisco, a carico di un titolare di partita IVA, può sfociare come sopra accennato nell’inoltro di un avviso di accertamento. In tal caso, il titolare di partita IVA dovrà attivarsi per dimostrare che la pretesa del Fisco non è legittima. E questo inviando dati e documentazione tale da far valere le proprie ragioni.

Se invece la pretesa del Fisco è legittima, allora al titolare di partita IVA non resterà che aderire spontaneamente all’accertamento e pagare il dovuto. Beneficiando in tal caso anche in una riduzione delle sanzioni. Ed evitando, inoltre, l’avvio di un contenzioso.

Assunzione clandestino, cosa si rischia?

E’ sempre più frequente la tratta dei “nuovi schiavi”, nel mondo del lavoro. Ovvero assumere persone clandestine, immigrati irregolari, spesso per lavori in nero. Ma cosa si rischia assumendo un clandestino per un lavoro di manovalanza, in un cantiere, ad esempio? Scopriamolo assieme.

Assunzione clandestino, cosa si rischia

Innanzitutto, partiamo col dire che commette il reato di immigrazione clandestina colui che non rispetta determinati requisiti e va in contro ad una contravvenzione punibile con una ammenda da 5.000 a 10.000 euro: vale a dire che, chi fa ingresso in Italia senza sottoporsi ai controlli, non rischia il carcere.

Corre il rischio di carcere il datore che fa lavorare in nero uno straniero non regolarizzato: oltre alle sanzioni economiche molto alte (fino a 36mila euro), può incorrere anche nel carcere.

Come stabilito dalla Cassazione, prevedere sia una sanzione penale sia una amministrativa per chi assume in nero uno straniero irregolare non va a costituire alcuna violazione del divieto del ne bis in idem, sarebbe a dire il principio per cui il giudice non può esprimersi due volte sulla stessa azione qualora si sia già formata la cosa in giudicato, dal momento che la condotta del datore di lavoro va a ledere due diversi istituti giuridici.

In sostanza, chi assume un lavoratore clandestino, viola sia le norme sull’ immigrazione e commette anche reato verso gli obblighi contributivi.

Sanzioni penali per chi assume clandestini

Quali sono, quindi le sanzioni penali per quei datori di lavoro che assumono lavoratori non in regola con la legge, sul piano dell’immigrazione nel nostro paese?

Stando al Testo unico sull’immigrazione, «il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato».

Va anche aggiunto, sempre per citare il suddetto testo, «chi viola le norme sull’immigrazione facendo lavorare per conto della propria impresa uno straniero irregolare viene punito con una reclusione che va dai sei mesi ai tre anni, oltre ad una multa di 5.000 euro».

Ci si ritrova ad un ulteriore aumento delle pene nei seguenti casi in cui:

  • i lavoratori irregolari occupati siano un numero maggiore di 3;
  • tra i lavoratori irregolari vi siano presenti dei minori;
  • i lavoratori vengano sottoposti a condizioni lavorative di particolare sfruttamento.

Sanzioni amministrative per chi assume clandestini

In base al decreto sul lavoro del Jobs Act bisogna tenere in conto i seguenti punti:

  • per ciascun lavoratore non in regola, entro i 30 giorni di impiego effettivo è prevista una sanzione che va dai 1.500 ai 9.000 euro;
  • la sanzione sale da 3.000 a 18.000 euro per ciascun lavoratore irregolare con impiego effettivo tra i 31 e i 60 giorni;
  • la sanzione va da un minimo di 6.000 ad un massimo di 36.000 euro per ogni lavoratore irregolare con impiego effettivo superiore ai 60 giorni;

Questo, dunque è quanto vi fosse di più utile e necessario da sapere in merito ai rischi di un lavoratore che assume un operaio clandestino per svolgere qualsivoglia attività.

Ecobonus auto e moto in arrivo: a chi andranno i nuovi incentivi?

Oltre ai contributi a fondo perduto a favore delle attività produttive, dal governo potrebbero arrivare i nuovi ecobonus auto e moto. Il ministero per lo Sviluppo Economico (Mise) ha chiesto al governo l’emanazione dei nuovi ecobonus in aggiunta al decreto per gli aiuti alle attività economiche.

Incentivi acquisto auto e moto a basse emissioni, quante sono le risorse?

La dote complessiva degli ecobonus sarebbe di 450 milioni di euro per l’acquisto di auto e moto nuove a basse emissioni. Il nuovo incentivo dovrebbe arrivare con un nuovo ecobonus e avrebbe il favore anche del governo. Alle risorse andrebbero ad aggiungere anche i fondi che non sono stati utilizzati, per le stesse finalità, durante l’anno 2021.

Nuovi incentivi ecobonus auto a basse emissioni: come funziona?

Sugli incentivi ecobonus per auto e moto a basse emissioni, i contributi avrebbero il funzionamento dei precedenti incentivi. Gli acquisti dovrebbero essere effettuati entro tutto l’anno 2022. L’ecobonus spetterebbe a chi acquista e immatricola in Italia auto di categoria M1 (autovetture) con emissioni che non eccedano i 135 g/km di CO2. Il prezzo massimo della vettura non dovrebbe superare i 40 mila euro, esclusa l’Iva.

Ecobonus acquisto moto a basse emissioni, quali rientrano negli incentivi?

Il nuovo ecobonus prevede incentivi per l’acquisto anche delle due ruote. In particolare, rientrerebbero negli incentivi i veicoli a 2, 3 o 4 ruote inclusi nelle categorie L1 E, L2 E, L3 E, L4 E, L5 E, L6 E ed L7 E. I veicoli oggetto di agevolazioni riguarderebbero anche il parco di quelli commerciali: in particolare i mezzi N1 o quelli speciali M1. Come per i precedenti incentivi, lo gli ecobonus necessitano della collaborazione delle concessionaria. Infatti, oltre all’incentivo, la concessionaria dovrebbe concedere lo sconto aggiuntivo.

 

 

Riforma pensioni: come si uscirebbe nel 2023

C’è una finestra che potrebbe tornare utile per riuscire finalmente a mettere mano al sistema pensioni italiano. È quella del mese di aprile, in cui il governo dovrebbe presentare il Documento di Economia e Finanze (DEF).

Questa almeno è la speranza, cioè l’obbiettivo che forse hanno i sindacati. Esperienza però ci dice che probabilmente se ne riparlerà a fine anno, come al solito, con la nuova legge di Bilancio. Infatti dopo il nulla di fatto o quasi dell’ultima manovra finanziaria, si guarda al futuro. L’ultima manovra ha prodotto solo una piccola novità rappresentata da quota 102.  Ecco perché quest’anno si cercherà di intervenire in maniera più profonda su quella riforma delle pensioni che sembra sempre più necessaria.

Tra l’altro la quota 102 è stata varata solo per 12 mesi, perché si tratta di uno strumento previdenziale che verrà utilizzato fino al 31 dicembre 2022, per poi sparire, salvo proroghe. Un indizio questo che potrebbe riguardare la volontà di tornare a correggere il sistema nel corso del 2022. Ma nell’ultimo summit tra governo e sindacati, in base alle richieste di questi ultimi, sembra che le distanze sono invariate tra le parti. Ed allora ipotizzare che ci vorrà più tempo rispetto ad aprile, non è esercizio azzardato.

Ma cosa potrebbe accadere nel 2023 al sistema previdenziale alla luce delle ipotesi di riforma più attendibili?

Leggi anche: Pensioni anticipate 2022: quando bastano 56 o 61 anni, ecco chi può

Riforma delle pensioni, i sindacati continuano sulla loro via

Serve una flessibilità in uscita maggiore di quella offerta oggi dal sistema pensionistico e si dovrebbe partire dai 62 anni di e dai 20 anni di contributi. E poi con 41 anni di contributi versati dovrebbe essere consentito andare in pensione a tutti, senza alcun limite di età. In ogni caso, per entrambe le misure, nessun collegamento al ricalcolo contributivo delle pensioni, perché nessuna penalizzazione deve essere imposta a chi esce prima. Sono queste le posizioni dei sindacati, ormai autentici cavalli di battaglia delle parti sociali.

Misure che già in passato sono state definite impossibili da adottare per evidenti questioni di sostenibilità. E così sarà anche stavolta, c’è da scommetterci visto che dal punto di vista dell’esecutivo, con tutti i tecnici e gli esperti che quotidianamente dicono la loro, occorre andare verso il sistema contributivo per il calcolo della pensione e verso misure a basso impatto sulle casse dello Stato.

In altri termini, occorre trovare misure che da un lato offrano flessibilità in uscita, e che dall’altro siano economiche dal punto di vista della spesa pensionistica.

Il rebus pensioni, due proposte sembrano godere di maggiori possibilità

In uno scenario del genere è evidente che parlare di penalizzazioni di assegno o di ricalcolo contributivo della prestazione non è una cosa strana. Difatti, sono sostanzialmente queste le strade che sembrano ad oggi più percorribili per riformare il sistema. E sono vie che non dovrebbero riscontrare un parere favorevole da parte dei sindacati, per evidenti ragioni.

La novità delle ultime ore è un ritorno al passato, perché si parla di misure di pensionamento anticipato, a partire da una determinata età (e forse su questo si può assecondare la volontà dei sindacati, partendo dai 62 anni), ma con tagli di assegno.

Si parla di un taglio del 3% annuo sulla quota retributiva, una specie di sistema contributivo mascherato, e forse anche peggio. In pratica si arriverebbe a prevedere quel taglio lineare in base agli anni di anticipo, che era alla base anche di vecchie proposte come quelle dell’allora Presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano e il suo DDL 857.

La pensione in due quote di Tridico

Non un taglio vero e proprio, ma una sorta di penalizzazione a tempo invece è alla base di una proposta che proviene direttamente dall’Istituto Previdenziale. È stato il Presidente dell’Inps Pasquale Tridico a produrre una idea alternativa per consentire, a partire dai 63 anni (ma l’età può essere ritoccata in più o in meno), di accedere alle quiescenze con una doppia quota di pensione.

Uscendo in anticipo si andrebbe così ad accettare solo la quota contributiva della pensione, con un taglio tanto più pensate quanti più sono gli anni di contributi versati nel sistema retributivo (prima del 1996 ndr). AL compimento della canonica età pensionabile dei 67 anni di età invece, la pensione verrebbe ricalcolata con l’aggiunta della parte retributiva, quella mancante alla data di liquidazione della pensione anticipata e flessibile.

Lavorare con Partita IVA e assunzione: come funziona?

In questa rapida guida torniamo nel mondo delle partite IVA, cercando di fare luce su alcune delle questioni più poste dai contribuenti. Come funziona lavorare e assumere con partita IVA? Scopriamolo insieme.

Collaboratori con partita IVA, come funziona

Assumere dipendenti con partita IVA è un sistema che permette alle aziende di risparmiare sui costi, in quanto si viene meno alla maggior parte di quegli oneri che spettano al datore di lavoro nel momento in cui assume un dipendente con altre forme contrattuali.

Usufruendo della collaborazione di un personale provvisto di partita IVA il datore di lavoro è quindi esonerato dal pagamento di:

  • Ferie;
  • TFR;
  • Contributi previdenziali;

Ma a parte questi vantaggi evidenti per chi assume un dipendente con partita IVA, cos’altro c’è da sapere? Scopriamolo nei prossimi paragrafi.

Partita IVA, cos’altro c’è da sapere

Innanzitutto partiamo dalle basi della questione, ovvero col precisare che la partita IVA è un numero di 11 cifre che identifica un determinato contribuente che può essere sia una società, oppure una persona fisica.

Delle quali undici cifre:

  • Le prime sette indicano il nome o la denominazione del titolare;
  • Le tre seguenti vanno a corrispondere a un codice identificativo dell’Agenzia delle Entrate;
  • L’ultima cifra ha una funzione di puro controllo.

E’ tenuto a dover aprire una partita IVA chiunque eserciti un’attività economica abituale e continuativa.

Assumere con partita IVA, quando è possibile

Occorre dire e sottolineare che la legge è molto severa in materia di assunzione con partita IVA, anche perché negli ultimi anni si è diffuso il fenomeno delle partite IVA fittizie, vale a dire quei veri e propri rapporti di lavoro subordinato che vengono mascherati da prestazioni occasionali in modo da aggirare gli oneri spettanti ai datori di lavoro in merito alle assunzioni.

La legislazione, perciò, si è fatta più attenta ed ha stabilito, in merito alla questione, che è possibile assumere dipendenti a partita IVA solo quando questi rientrano nelle seguenti categorie di lavoratori:

  • Soggetti iscritti ad albi professionali (medici, psicologi, giornalisti, architetti, ingegneri, notai, ecc.);
  • Soggetti che forniscono prestazioni lavorative grazie a un alto livello di formazione documentata da diplomi di maturità, o qualifiche conseguite al termine dell’apprendistato;
  • Soggetti che forniscono prestazioni lavorative grazie a un alto livello di formazione frutto di almeno 10 anni di esperienza nel settore in cui si opera;
  • Soggetti che posseggono un reddito annuo lordo da lavoro autonomo non inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali.

Per rendere semplice in sostanza il sopra citato elenco, ci si può avvalere di collaboratori a partita IVA solo se questi forniscono una prestazione lavorativa altamente qualificata.

Quando non è possibile assumere con partita IVA

Di controparte, occorre anche sapere quali sono quelle volte in cui non è possibile assumere dipendenti che posseggono partita IVA.

A causa del JOBS ACT si è stabilito che non si possono assumere collaboratori con partita IVA se ci troviamo dinnanzi a tre condizioni:

  • Se la collaborazione tra le parti, nel tempo di un anno, supera i 241 giorni, cioè di 8 mesi l’anno per due anni consecutivi;
  • Se l’80% del reddito del possessore di partita IVA è derivato da incarichi che provengono dallo stesso committente;
  • Se il collaboratore con partita IVA è in possesso di uno spazio di lavoro fisso all’interno dell’azienda del committente.

Questo, dunque, è quanto di più utile e necessario vi sia da sapere in merito alle possibilità e alle funzioni di assumere dipendenti con partita IVA, per un datore di lavoro che non vuole correre rischi.

Decreto sostegni ter, gli aiuti potrebbero non bastare

Il Decreto sostegni ter è già stato firmato da presidente del consiglio, ma non è detto che le risorse siano sufficienti alle imprese.

Decreto sostegni ter, cosa è stato approvato

Il nostro Paese vuole e deve tornare alla normalità se non vuole registrare un altro stop dell’economia. Così nonostante il 2022 parta sotto i più rosei auspici, c’è voglia di farcela. Nel frattempo il Governo ha determinato i nuovi aiuti a favore delle imprese in difficoltà. Così sono stanziati 3,3 miliardi per le imprese e per contenere i rincari nei primi mesi dell’anno.

Ma secondo gli studi fatti da Confindustria, queste misure potrebbero essere insufficienti a contenere i costi e i rincari che continua a lievitare anche nei beni di prima necessità come pasta, pane, latte e verdure che sono alla base della dieta alimentare di noi italiani. Non ultimo il caro-colazione in cui un caffè potrebbe arrivare a 1, 50 euro.

Decreto sostegni ter, facciamo un pò di conti

Il problema è che non si trovano le giuste risorse, molte aziende potranno trovarsi in gravi difficoltà. Le aziende potrebbero non poter più restare aperte e quindi licenziare i propri dipendenti. Sotto minaccia ci sono circa 500 mila lavoratori di vari settori economici. Questo vuol dire che i soldi pubblici dovranno essere impiegati per pagare le casse integrazioni o le misure idonee a sostegno delle famiglie in difficoltà.

Gli aumenti sono stimati in circa 90 miliardi per il 2022. Pertanto i soli soldi stimati riusciranno a coprire solo circa il 6% degli aumenti. Si capisce che occorre trovare un’alternativa e di farlo nel più breve tempo possibile. Perché tra costi dell’energia, personale dimezzato a causa dei contagi, la situazione economica del nostro paese potrebbe subire nell’ennesimo stop alla crescita.

A cosa sono destinati gli altri sostegni?

Oltre alla copertura degli aumenti dovuti al caro energia, i sostegni sono destinati alle imprese colpite dalla quarta ondata della pandemia. Tuttavia rischiano di non bastare i soldi per 1.6 miliardi destinati alle categorie più colpite. Non è neanche prolungato l’esenzione al pagamento dell’IMU per gli alberghi, che come è noto hanno risentito della mancata presenza di turisti, anche nelle grandi città.

Sul sito del Mise sono anche indicati a chi sono rivolti 390 milioni per le misure di sostegno ed attività del commercio al dettaglio, settore del tessile e dell’intrattenimento:

  • Fondo per il rilancio delle attività economiche per il commercio al dettaglio, con una dotazione di 200 milioni per l’anno 2022. Le imprese, per poter beneficiare dei contributi a fondo perduto, devono presentare un ammontare di ricavi riferito al 2019 non superiore a 2 milioni e aver subito una riduzione del fatturato nel 2021 non inferiore al 30% rispetto al 2019;
  • Fondo per il sostegno delle attività particolarmente compite, come l’intrattenimento, le discoteche, le piscine e le sale da ballo. Infatti è esteso al 2022 con uno stanziamento di 20 milioni da destinare ad interventi in favore dei parchi acquari, tematici, giardini zoologici e parchi geologici. Per il settore del wedding ed affini sono stanziati 40 milioni;
  • Il credito d’imposta del 30% sul valore delle rimanenze finali di magazzino delle attività manifatturiere e del commercio del settore tessile, della moda e degli accessori è esteso anche alle imprese che svolgono attività di commercio al dettaglio in esercizi specializzati di prodotti tessili, della moda, del calzaturiero e della pelletteria. Per la misura sono stanziati circa 100 milioni.

Somme che attualmente sono state stanziate, ma che dovranno essere poi destinate attraverso dei decreti attuativi e linee guida che permettono di presentare le domande da parte delle aziende.

Assegno unico, può essere richiesto i figli in affido?

L’assegno unico spetta per i figli a carico all’interno di un nucleo familiare, ma può essere richiesto anche per i figli in affido?

L’assegno unico e le famiglie affidatarie, cosa fare?

Il nuovo assegno unico spetta anche per i minori all’interno delle famiglie affidatarie. Prima di ogni cosa però è bene definire il concetto di famiglia affidataria. Si tratta di qualunque persona che, in coppia o singolarmente, a una valutazione tecnica psicosociale risulta idonea ad accudire, educare e tenere con se un minore. La famiglia affidataria collabora con le istituzioni e capace di gestire le diverse problematiche e solidarietà verso le altre culture ed etnie.

Tuttavia l’assegno unico spetta anche alle famiglie affidatarie per il minore che accolgono all’interno della loro casa. Quindi in caso di affidamento, occorre distinguere le varie ipotesi previste dall’articolo 3 del Dpcm 159/2013.  Infatti la scelta di collocare un minore in una nuova casa, dipende da un giudice del tribunale minorile:

  • il minore in affidamento preadottivo fa parte del nucleo familiare, anche se risulta nella famiglia anagrafica del genitore;
  • il minore in affidamento temporaneo è considerato nucleo familiare a sé. Anche se in questo caso il genitore affidatario può considerarlo parte della propria famiglia.

In entrambi i casi, nella domanda di richiesta dell’assegno unico sarà preso in considerazione l‘ISEE del nucleo familiare in cui risulta inserito il minore. 

La risposta dell’Inps per le famiglie affidatarie di figli minori

L’Inps si trova a dover rispondere di frequente alle varie domande che pongono i soggetti che sono interessati al contributo per i più piccoli. Riportando le stesse parole dell’ente di previdenza sociale, si può dire che:

Per le famiglie AFFIDATARIE di minori che hanno bisogno di sapere quale Isee utilizzare. La scelta di collocare il minore in un nucleo ai fini Isee piuttosto che in un altro, dipende dal tipo di affidamento che si evince dal provvedimento del giudice del tribunale minorile. Il minore in affidamento temporaneo oppure collocato presso una comunità è considerato nucleo familiare a sé (quindi si aggancia l’ISEE del minore). Però il genitore affidatario lo può considerare parte del proprio nucleo familiare. Il minore in affidamento preadottivo fa parte del nucleo familiare dell’affidatario, anche se risulta nella famiglia anagrafica del genitore. Ad ogni modo, noi abbiamo precisato che “prenderemo sempre l’ISEE del nucleo familiare in cui risulta inserito quel minore”.

La procedura per la richiesta dell’assegno unico

Per la presentazione della domanda dell’assegno unico si procede allo stesso modo per tutte le altre categorie. Dunque la domanda si presenta online con procedura semplificata accedendo con lo SPID, CIE o CNS. Anche in questo caso è possibile trasmettere la richiesta attraverso il Patronato.

In merito all’accredito si ricorda che deve essere inserito nel modulo l’IBAN del genitore che ne ha fatta richiesta o della persona che ha preso in affidamento il bambino, qualora sia single e non coppia.