Pensione anticipata da 58 a 61 anni, quando è possibile

Pensione anticipata tra i 58 e i 61 anni di età? Si, è possibile, anche se non certo facile. Infatti esistono misure particolari che permettono uscite incentivate dal punto di vista dell’età, ma con requisiti particolarissimi. Non per questo però sono misure impossibili da centrare. Ecco come si può fare e cosa occorre sapere al riguardo.

Uscire a 58 anni dal lavoro? Tre vie possibili

Per uscire dal lavoro a 58 anni esistono fondamentale tre vie. Una riguarda la generalità dei lavoratori, due solo uno spaccato della società. Hai iniziato a lavorare davvero in tenera età? Allora puoi uscire con la pensione anticipata ordinaria o con la quota 41. In entrambi i casi non esistono limiti di età. Per la pensione anticipata ordinaria, disco verde al raggiungimento di 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, un anno in meno per le donne.

Chi ha iniziato a lavorare poco dopo i 15 anni con carriera continua, può accedere a questa pensione se da limiti anagrafici. Ancora meglio quota 41, che da diritto alla pensione anticipata al raggiungimento di 41 anni di contribuzione versata. Occorre aver versati un anno, anche discontinuo, prima dei 19 anni di età ed essere alternativamente, invalidi al 74% almeno, caregivers che da sei mesi assistono un parente stretto disabile, disoccupati o lavoratori alle prese con i lavori gravosi. Solo le 15 categorie già previste al netto degli aggiornamenti validi solo per l’Ape sociale.

Sia per la pensione anticipata ordinaria che per quella con quota 41, finestra di 3 mesi. La decorrenza della prestazione pensionistica raggiunta non viene erogata dal primo giorno del mese successivo a quello in cui si completano i requisiti, ma viene posticipata di 3 mesi.

Opzione donna

Ancora più ridotta la platea a cui è destinata opzione donna, terza via che consente uscire dai 58 anni di età. Parliamo di una misura destinata esclusivamente alle donne. Possono uscire a 58 anni le lavoratrici che al 31 dicembre del 2021, hanno già completato i 58 anni di età. Parliamo però di lavoratrici dipendenti, tanto del settore privato che di quello pubblico. Per le lavoratrici autonome invece, l’età da aver già raggiunto al 31 dicembre scorso è pari a 598 anni.

In ogni caso con Opzione donna la quiescenza si centra se alla stessa data in cui andava raggiunta l’età anagrafica prevista, si completavano pure i 35 anni di contributi versati.

Va ricordato che parliamo di una misura diversa da quelle del paragrafo precedente anche come importo. Infatti opzione donna è una misura facoltativa e flessibile, ma non per il calcolo della prestazione. Infatti occorre accettare  che l’assegno previdenziale versato sia liquidato con il metodo contributivo. Significa per le donne che riusciranno a completare il doppio requisito, arrivare a perdere anche il 30% (se non di più), di pensione per via di questo ricalcolo.

Penalizzate in maniera evidente le lavoratrici che hanno accumulato una carriera lunga nel sistema retributivo, cioè prima del primo gennaio 1996. La misura prevede anche il sistema a finestra, nel senso che la decorrenza della prestazione non coincide con il primo giorno del mese successivo a quello di maturazione dei requisiti. Infatti per le dipendenti il primo rateo di pensione slitta di 12 mesi, mentre per le lavoratrici autonome slitta di 18 mesi.

Le pensioni a 59, 60 e 61 anni

Misure che prevedono uscite a 58 anni quindi, esistono e sono sostanzialmente quelle 3 prima citate. Va detto che con la pensione anticipata ordinaria o con la quota 41 di cui accennavamo nel primo paragrafo, possono uscire naturalmente e con più facilità, anche i soggetti con 59, 60 o 61 anni.

Dal momento che non centra l’età, evidentemente i requisiti contributivi bastano per accedere alla quiescenza ad una età inferiore rispetto alla quota 100 coi suoi 62 anni, alla quota 102 coi suoi 64 anni e all’Ape sociale con i suoi 63 anni.

Bisogna ricordare pure che con invalidità pensionabile certificata dall’Inps, a 61 anni possono uscire pure gli uomini che contestualmente centrano 20 anni di contributi versati. Per le donne questo vantaggio è ancora antecedente, visto che si può uscire lo stesso con 20 anni di contributi, ma a 56 anni. Per questa misura, che si chiama pensione di vecchiaia anticipata con invalidità pensionabile, finestra mobile di 12 mesi.

Pensione 2022 in anticipo per gli invalidi: le tutele ci sono, ecco come fare

In pensione prima è il sogno di tutti i lavoratori. Ed è l’argomento principale di una riforma delle pensioni che il governo, con l’ausilio dei sindacati, sembra sul punto di iniziare a varare. Il nostro sistema previdenziale è il peggiore o vicino ad esserlo come età di uscita rispetto ai Paesi Europei più vicini a noi come economia.

Ma è anche un sistema che ormai da anni è dotato di misure che anticipano la quiescenza per alcune particolari categorie di persone. Abbiamo infatti le donne a cui si applica il regime agevolato meglio conosciuto come opzione donna. Poi  abbiamo i lavori notturni e usuranti con il loro scivolo. E ancora, i lavori gravosi o i disoccupati o addirittura, chi assiste parenti disabili.

Infine abbiamo i disabili, i soggetti affetti da patologie invalidanti che possono godere di prestazioni assistenziali ma anche di prestazioni previdenziali. Ed è proprio su questo che oggi andiamo ad approfondire, parlando di due misure destinate a chi ha determinate invalidità, ma collegate anche ai contributi versati.

Misure che permettono di accedere alla pensione discretamente in anticipo. Parliamo dell’Ape sociale e della pensione di vecchiaia anticipata con invalidità pensionabile.

L’Ape sociale per invalidi, come funziona

L’Ape sociale è una misura che consente un anticipo di pensione a partire dai 63 anni di età. L’Anticipo pensionistico sociale è limitato a determinate categorie di lavoratori o soggetti in genere. Abbiamo infatti i disoccupati, i caregivers, i lavori gravosi e appunto gli invalidi. Tranne che per i lavori gravosi, per cui oltre ai 63 anni di età come soglia minima per accedere al trattamento pensionistico anticipato, servono 36 anni di contributi (32 per edili e ceramisti), per gli altri, invalidi compresi servono “solo” 30 anni di versamenti.

Per gli invalidi occorre anche avere un grado di invalidità certificato dalle competenti commissioni mediche delle Asl, superiore al 74%. Deve essere la Commissione medica delle Asl a certificare questo grado di invalidità, previo visita nei confronti del contribuente e dopo che il medico di base ha prodotto il certificato medico utile alle richieste delle prestazioni per disabili.

Ricapitolando, per ottenere l’Ape sociale come disoccupati servono i seguenti requisiti:

  • Almeno 63 anni di età;
  • 30 anni di contributi versati;
  • Percentuale di disabilità certificata dalla Commissione Medica Asl superiore al 74%.

La pensione anticipata per invalidità pensionabile

Ancora più vantaggiosa in termini di uscita è la pensione di vecchiaia con invalidità pensionabile. In questo caso deve essere la commissione medica Inps a certificare il grado di invalidità. Per questa misura serve una invalidità pensionabile pari ad almeno l’80%.

La commissione Inps certifica l’invalidità basandosi sulla riduzione della capacità lavorativa del soggetto interessato in base alle mansioni e all’attività lavorativa svolta dallo stesso. Si può uscire con questa misura a 61 anni se il richiedente invalido è maschio, mentre a 56 anni se invece si tratta di una lavoratrice invalida donna. Servono almeno 20 anni di contributi previdenziali versati, alla stregua di quelli necessari per le ordinarie pensioni di vecchiaia a 67 anni.

Va ricordato che la misura prevede 12 mesi di finestra. In altri termini la decorrenza della prestazione è posticipata di 12 mesi rispetto alla data in cui si maturano i requisiti previdenziali che sono:

  • 61 anni di età per gli uomini;
  • 56 anni di età per le donne;
  • 80% di invalidità pensionabile almeno;
  • 20 anni di contributi a qualsiasi titolo versati.

Pensione: quando la disoccupazione aiuta: via dal lavoro sue anni prima

Parlare di disoccupati che vanno in pensione sembra una assurdità dettata dal nostro sistema previdenziale che prevede l’obbligo di versare contributi per uscire dal lavoro con la quiescenza. Ma la disoccupazione, intesa come indennità può essere un valido veicolo per consentire a chi non riesce più a trovare le energie e la forza per continuare a lavorare, di lasciare il lavoro.

Pensioni e Naspi, un connubio che anche alcune misure prevedono

La Naspi è l’indennità per disoccupati Inps, quella che l’Istituto eroga a chi perde involontariamente il proprio lavoro. Si tratta di una indennità erogata mensilmente dall’Inps per un periodo massimo di 24 mesi. Infatti si può prendere al Naspi per la metà delle settimane lavorate nel quadriennio precedente la data in cui si perde il lavoro.

Il periodo indennizzato con la Naspi è coperto dal punto di vista contributivo, con la cosiddetta contribuzione figurativa, valida sia per il diritto alla pensione che per la misura. Ma attenzione, ci sono alcune misure pensionistiche che prevedono il raggiungimento di determinate soglie di contributi al netto di eventuali periodi di contribuzione figurativa, come può essere proprio la Naspi.

Quando i contributi da disoccupazione non servono per la pensione

Una di queste per esempio è la pensione anticipata ordinaria, per la quale servono 42 anni e 10 mesi di versamenti per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, ma di questi 35 devono sempre essere effettivi, cioè senza considerare i figurativi da disoccupazione e malattia.

La disoccupazione è stata anche collegata a due misure previdenziali in questi anni. Un collegamento evidente visto che tra i destinatari di Ape sociale e quota 41 ci sono proprio i disoccupati. Per esempio fino allo scorso anno, chi voleva prendere lo scivolo dell’Ape sociale in qualità di disoccupato, doveva aver terminato di percepire la disoccupazione indennizzata (la Naspi) da almeno 3 mesi.

Naspi, quando può diventare un valido accompagnamento alla pensione

Ma lasciando da parte i collegamenti che la Naspi ha con il mondo previdenziale, sia come requisito di accesso alla pensione che come contribuzione figurativa, la disoccupazione può tornare utile per un altro motivo.

Può diventare una sorta di assegno di accompagnamento alla quiescenza. Chi è stanco di lavorare, oppure a chi pesa dover attendere ancora due anni per accedere alla pensione, la Naspi può essere una soluzione.

Parliamo come è evidente, di soggetti che si trovano a due anni dal raggiungimento di una qualsiasi misura pensionistica. Una soluzione, quella di prendere due anni di Naspi e poi di andare in pensione, valida per molti. Infatti, opzione ok per chi compie 65 anni e vede lontana due anni la soglia dei 67 anni per la pensione di vecchiaia. Ma è utile anche per chi ha raggiunto già i 40 anni e 10 mesi di contributi versati, compresi i 35 anni effettivi prima citati (per le donne si parte dai 39 anni e 10 mesi). Come dicevamo, si tratta di una soluzione assolutamente valida per chi non la fa più a continuare a lavorare.

Bisogna prima verificare di avere diritto alla Naspi

In primo luogo va sottolineato che occorre fare bene i conti.  Se si vuole utilizzare questo escamotage, perfettamente legale, per lasciare prima il lavoro., occorre verificare alcune cose. Occorre verificare se si ha diritto alla Naspi, altrimenti si rischia di restare senza lavoro e senza sussidio.

Va detto che 24 mesi di Naspi spettano solo a coloro i quali hanno 4 anni di continuità lavorativa prima di perdere il posto di lavoro. Essendo la durata massima fruibile pari a due anni, è evidente che servono 4 anni pieni di lavoro per poterne passare due in disoccupazione. Inoltre occorre che sia il datore di lavoro a licenziare il lavoratore.

La perdita del lavoro deve essere involontaria, perché salvo che per quelle per giusta causa, le dimissioni volontarie non danno diritto alla Naspi. Occorre chiedere al datore di lavoro di essere licenziati. Solo così si potrà presentare domanda di Naspi all’Inps.

Alcune problematiche da tenere in considerazione, sia per il lavoratore che per il datore di lavoro

Va detto al riguardo che non sempre il datore di lavoro può concedere questa specie di favore al lavoratore. Occorre fare i conti con le esigenze del datore di lavoro e delle attività aziendali, ma anche con il ticket licenziamento che fa pagare al datore di lavoro una parte della Naspi spettante al lavoratore.

Inoltre, occorre fare i conti con altri aspetti, stavolta collegati non al datore di lavoro, ma al lavoratore. Come abbiamo detto prima, meglio verificare se il periodo di Naspi non influisca negativamente sul diritto alla pensione, magari per via del limite dei 35 anni effettivi da centrare. Va sottolineato che basta che manchino pochi mesi a questi 35 anni per rendere non fruibile la pensione anticipata per esempio.

Gli ultimi mesi di Naspi sono nettamente più bassi di importo rispetto ai primi

Da non sottovalutare poi la questione reddituale. La Naspi è pari al 75% dello stipendio medio ai fini contributivi degli ultimi 4 anni. Quindi, già di base si prende meno rispetto allo stipendio. E nel lungo periodo va ancora peggio. Oggi dal sesto mese di fruizione della Naspi, questa cala del 3% progressivo al mese. Infatti il 3% del settimo mese, viene calcolato sull’importo della Naspi del sesto mese, già a sua volta decurtato del suo 3% e così via fino al 24imo mese di fruizione.

Questo significa che alla fine dei 24 mesi la Naspi spettante arriva quasi a ridursi della metà, con gli ultimi 6/7 mesi che sono già drasticamente tagliati. Si tratta di mesi dove occorrerà fare i conti con una netta riduzione di reddito, che si risolverà solo a pensione raggiunta.

Pensioni quota 100: completare i contributi nel 2022 da diritto alla pensione, ecco quando

Se c’è una categoria di lavoratori che può essere considerata sfortunata in materia pensioni è senza dubbio quella dei nati nel 1959 che non sono riusciti ad entrare in quota 100.

Una specie di nuovi esodati come vedremo, perché sono quelli che oggi pagheranno dazio al fatto che si è deciso di interrompere la sperimentazione triennale di quota 100 e di introdurre la quota 102. Oggi però spiegheremo che è possibile ancora recuperare la quota 100 per chi non è riuscito a rientrare per via della carenza dei contributi maturati alla data di scadenza della quota 100.

Naturalmente si tratta di una possibilità non aperta a tutti perché altrimenti la quota 100 non sarebbe cessata come invece lo è. Ma qualcuno forse non è a conoscenza del fatto che anche se a ritroso, è possibile recuperare contributi validi per avere accesso alla quota 100 così come alle altre misure che magari oggi sono terminate.

Cosa succede alle pensioni per i nati nel 1959

Parliamo del nato nel 1959 perché è l’ultimo beneficiario della quota 102. L’ultimo che è riuscito a centrare i 62 anni durante la durata della quota 100. La quota 100 è terminata ufficialmente il 31 dicembre 2021. Come è noto, per completare il doppio requisito entro la fine dello scorso anno occorrevano almeno 62 anni di età ed almeno 38 anni di contributi.

E sono proprio i nati nel 1959 che non sono riusciti a completare il secondo requisito, quello dei 38 anni di contributi ad essere penalizzati sia dalla fine di quota 100 che dalla nascita di quota 102.

Il governo con la legge di Bilancio e con il pacchetto pensioni della stessa, ha deciso di sostituire la quota 100 con la quota 102. L’età anagrafica minima prevista è passata dai 62 ai 64 anni. La dote dei contributi necessari invece è rimasta quella dei 38 anni. Ma la quota 102 vale solo per un anno, in una specie di fase transitoria che il governo ha deciso di varare in attesa di riformare profondamente il sistema. Ciò significa che per i nati nel 1959, si è doppiamente penalizzati.

Come sono penalizzati i lavoratori nati nel 1959

A chi mancava solo un anno ai 38 necessari per quota 100, anche completandoli nel 2022, si è tagliati fuori dalla quota 102 perché nel 2022 questi lavoratori completeranno 63 anni di età e non i 64 anni come misura prevede.

E nel 2023 la quota 102 non ci sarà più, cioè questi lavoratori non potranno centrare la quota 102 al compimento del 64imo anno di età nel 2023 perché sparirà la quota 102.

In altri termini, ai nati nel 1959 con piccole carenze contributive, prima è stata tolta da sotto il naso la quota 100, e poi verrà tolta, altrettanto improvvisamente la quota 102. Al momento non resta che aspettare i 67 anni della riforma Fornero, cioè 5 anni di attesa rispetto a chi ha avuto la fortuna di rientrare nella quota 100.

La cristallizzazione del diritto alla quota 100

Chiunque è riuscito a centrare entrambi i requisiti per la quota 100 entro il 31 dicembre 2021 e chiunque riuscirà a fare altrettanto con la quota 102 entro il 31 dicembre 2022, potranno acquisire definitivamente il diritto alla pensione con entrambe le misure. Anche se non lasciano subito il lavoro alla maturazione del diritto alla pensione.

Potranno sfruttare la misura anche l’anno o gli anni successivi. Il meccanismo si chiama cristallizzazione del diritto. Una salvaguardia che serve affinché chi ha maturato un diritto ad una prestazione pensionistica non sia penalizzato dalla chiusura della misura per il solo fatto che ha deciso di restare al lavoro senza cogliere immediatamente l’occasione di andare in pensione.

Ma come detto per i nostri nati nel 1959, non avendo centrato entrambi i requisiti entro la fine dello scorso anno, la quota 100 non è diritto maturato per loro. DI penalità in penalità quindi, e tutto per via dei 38 anni di contributi mancanti.

Come riempire la carriera anche oggi ma con effetto retroattivo

Il sistema previdenziale italiano prevede numerosi strumenti utili a rendere validi ai fini pensionistici periodi pregressi e futuri per accedere a numerose misure. Ci sono i contribuiti volontari, che operano nel futuro però e non retroattivamente. In pratica si possono versare, a determinate condizioni, periodi di contribuzione per arrivare ad una determinata soglia in modo tale da centrare una pensione.

Non è il caso dei nostri nati nel 1959, perché ormai è passata la data ultima entro cui completare i 38 anni utili a quota 100. Ma ci sono anche i riscatti, la Pace contributiva, i corsi di studio universitari.

In pratica la normativa consente, sempre in base ad alcune specifiche situazioni, di riempire una carriera lavorativa, di periodi utili a completare la carriera, anche se trattasi di periodi passati.

Il riscatto dei contributi

La prima misura tra queste di cui parliamo oggi è senza dubbio il riscatto. Una misura già approfondita da noi con una guida dettagliata. Ed è una misura che può tornare utile a chi adesso è duramente penalizzato dalla cancellazione si quota 100.

Si tratta di uno strumento che permette al lavoratore, dietro pagamento di un onere, di recuperare periodi ai fini della pensione e di altre prestazioni previdenziali. Grazie al riscatto non sono pochi i lavoratori che possono anticipare la pensione.

Basti pensare a chi vorrebbe raggiungere i 42 anni e 10 mesi di contributi utili alla pensioni anticipate. La misura è distaccata da qualsiasi limite di età e pertanto, se mancano due anni al raggiungimento di quella soglia e ci sono due anni di studio universitario che è possibile riscattare, ecco che la misura torna utile per anticipare la quiescenza di 2 anni.

Pensioni quota 100, buoni anche i contributi da riscatto

La pensione anticipata con quota 100 rispetto alle anticipate ordinarie, prevede un limite di età. Essa può essere ottenuta con un minimo di 62 anni di età e 38 anni di contributi versati di cui almeno 35 devono risultare effettivi, cioè  al netto di eventuali periodi di disoccupazione e malattia.

Per il tramite del riscatto, la pensione quota 100 si può centrare, ma solo se non sono stati ancora completati i 38 anni di contributi.

Quindi, per chi si trovava al 31 dicembre scorso privo dei 38 anni di contributi, se nella carriera ha periodi riscattabili la soluzione può essere ancora centrata, evitando di dover attendere i 67 anni di età per la pensione di vecchiaia ordinaria.

Come opera il riscatto dei contributi per le pensioni

Va ricordato che si possono riscattare solo i periodi non coperti da altra contribuzione. Questa via è fattibile dal momento che conta la collocazione di questi periodi. Il riscatto infatti opera in maniera particolare, andando a collocare temporalmente i contributi versati negli anni o nei periodi in cui questi dovevano essere versati. A dispetto dei contributi volontari che sono successivi, cioè che valgono per i periodi successivi a quelli in cui sono stati pagati, nel riscatto la data di pagamento non fa testo.

In altri termini, riscattare 12 mesi da gennaio a dicembre del 1997, riempie il 1997. A chi mancava magari solo un anno per completare i 38 anni utili alla quota 100, facendo questa operazione e pagando qualcosa, i benefici di quota 100 possono ancora essere sfruttati. E lo stesso vale per chi vorrebbe uscire subito con la pensioni anticipate, per la quale magari manca solo un anno al completamento dei 42 anni e 10 mesi necessari.

Gestione Separata INPS: come vengono accreditati i contributi?

I professionisti non iscritti a un albo professionale, e quindi a una cassa previdenziale specifica, sono tenuti a versare i contributi alla Gestione Separata INPS, molti si chiedono: come vengono accreditati i contributi alla Gestione Separata INPS?

La disciplina prevista per accreditare i contributi alla Gestione Separata INPS

Sappiamo tutti che per maturare il diritto alla pensione è necessario versare i contributi e che un anno di contributi corrisponde a 52 settimane con contratto full time. Diventa però difficile determinare il valore dei contributi quando si tratta di professionisti che non hanno un contratto che prevede un numero di ore specifico di lavoro. In questo caso occorre tenere in considerazione il reddito prodotto cercando di determinare una sorta di tariffa che faccia maturare diritti mensili. Ricordiamo che i contributi alla Gestione Separata INPS sono pagati in percentuale al reddito prodotto.

La prima norma a cui far riferimento è la legge 335 del 1995 che all’articolo 2 comma 29 prevede che il lavoratore iscritto alla Gestione Separata INPS ha diritto all’accreditamento dei contributi mensili relativi a ciascun anno solare a cui si riferisce il versamento. La  base su cui effettuare il calcolo è la stessa utilizzata per il calcolo delle imposte dul reddito.

Affinché però sia accreditato l’intero mese è necessario che l’importo corrisposto non sia inferiore al minimale di reddito previsto dall’articolo 1 comma 3 della legge 233 del 1990. Il comma stabilisce che “Il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali dovuti alle gestioni di cui al comma 1 da ciascun assicurato e’ fissato nella misura del minimale annuo di retribuzione che si ottiene moltiplicando per 312 il minimale giornaliero stabilito, al 1 gennaio dell’anno cui si riferiscono i contributi”.

Il minimale e il massimale contributivo

Facendo l’esempio concreto, il minimale contributivo previsto per il 2022 è di 15.953 euro, mensilmente 1.329,42 €. Versando i contributi corrispondenti a tale reddito, si ottiene l’accreditamento di un anno di contributi INPS . Tali importi variano di anno in anno in base all’inflazione, le revisioni sono normalmente fatte dall’INPS. Nel caso in cui si maturi un importo inferiore, le somme vengono accreditate in proporzione alla somma versata a partire dall’inizio dell’anno solare. Questo implica che può capitare di lavorare per 12 mesi, ma maturare contributi corrispondenti a un periodo inferiore, ad esempio 10 mesi. Tali 10 mesi vanno poi sommati ai mesi accumulati in precedenza e in futuro ai fini della maturazione dei diritti previdenziali e assistenziali.

La normativa prevede anche che, nel caso in cui il contribuente riceva redditi superiori al minimale, basteranno solo una parte dei mesi dell’anno per maturare il requisito contributivo annuale. Nella Gestione Separata INPS è inoltre previsto un massimale contributivo, lo stesso subisce modifiche di anno in anno, attualmente 103.055 euro. Raggiunta tale somma, il contribuente non è più tenuto al versamento dei contributi alla Gestione Separata INPS.

Se nello stesso anno sono instaurati anche altri rapporti di lavoro subordinato o che danno diritto all’iscrizione in gestioni speciali, i redditi non sono cumulati e gli assicurati hanno massimali distinti.

Quanto occorre versare per avere l’accreditamento di un anno di contributi?

Dobbiamo ricordare che la Gestione Separata INPS prevede diverse aliquote contributive a seconda della situazione del singolo soggetto. Vedremo ora quanto spetta versare come contributi INPS al fine di avere l’accreditamento di un anno di contributi.

Le aliquote sono:

  • 34,23% per i professionisti non assicurati presso altre forme pensionistiche e che hanno diritto a percepire la DIS-COLL. Costoro dovranno versare € 5.460,71 per avere l’accreditamento di un anno di contributi alla Gestione Separata INPS;
  • 33,72% per collaboratori e figure assimilate non iscritti ad altre gestioni pensionistiche e che non versano la maggiorazione DIS-COLL, in questo caso il versamento per veder accreditato un anno di contributi è 5.379,35 ;
  • 25,98% per professionisti non assicurati ad altre forme pensionistiche obbligatorie, in questo caso il contributo minimo è € 4.144,59;
  • 24% per professionisti che siano titolari di pensione o con altra tutela pensionistica obbligatoria. Il contributo previsto è di € 3.828,72.

Se vuoi sapere se devi iscriverti alla Gestione Separata INPS, leggi l’articolo: Gestione Separata INPS: chi deve iscriversi?

Per ulteriori approfondimenti: Pensione Gestione Separata INPS: misure, requisiti e particolarità

 

Riforma pensioni: si va verso i 63 anni per tutti, ma come sarebbe?

La riforma delle pensioni inizia a prendere sempre più forma. E si va sempre più su un potenziamento dell’Ape sociale. Lo hanno dimostrato anche i legislatori quest’anno, col pacchetto pensioni della legge di Bilancio. La misura è state estesa a molte più categorie di lavoratori. I lavori gravosi sono stati estesi come platea. E potrebbe essere questa la strada principale che si intraprenderà per portare a casa il risultato di una riforma che resta prioritaria per il governo.

Pensioni, ritocchi nel Def?

Cosa accade adesso? Le vie restano due. O si riesce ad intervenire subito, magari nel Documento di economia e finanza o si aspetta a fine anno, con la solita manovra finanziaria.

Il Def è in aprile, e potrebbe essere una possibilità. Difficile ma possibile. Anche perché se davvero è l’Ape sociale l’indirizzo, con la sua pensione a 63 anni, i lavori sono già allo stato avanzato.

La Commissione sui lavori gravosi ha già prodotto una graduatoria con una serie di attività che andrebbero tutelate come pensionamento. È da questa lista che sono già state estrapolate le attività che adesso sono finite tra le beneficiare dell’Anticipo Pensionistico Sociale.

E da questo elenco che probabilmente si attingerà in futuro. Una graduatoria basata sull’incidenza numerica di malattie professionali e infortuni sul lavoro.

L’obiettivo del governo quindi è che si deve arrivare ad aprile in vista del Documento di economia e finanze, quanto meno con un piano da proporre ai sindacati. Per una riforma che entrerà in vigore il 31 dicembre 2022, se davvero verrà introdotta.

Appuntamento al 7 febbraio per un primo nuovo appuntamento governo-sindacati

Sarà il giorno 7 febbraio il primo appuntamento in cui tra governo e sindacati si tornerà a parlare di pensioni per davvero. L’incontro del 3 febbraio serve solo per andare a fissare alcuni paletti di quelli di cui si parla da giorni. Pensione di garanzia per i giovani e tutele per le donne in prima linea. Ma ripetiamo, l’indirizzo sempre ormai assodato. SI va verso il potenziamento dell’Anticipo pensionistico sociale.

Anche perché gli studi sull’età media dei pensionamenti in Italia ha dimostrato che pur se si poteva uscire a 62 anni con la quota 100, pochi di coloro che si trovavano anche ad aver raggiunto i 38 anni di contribuzione hanno colto l’occasione. Infatti si esce più vicini ai 64 anni che ai 62, come media.

In questo ambito la pensione con l’Ape sociale, su cui magari si può ritoccare il parametro dei contributi necessari come accaduto nella legge di Bilancio per i ceramisti e gli edili (si è passati solo per queste categorie dai 36 ai 32 anni di versamenti necessari).

Resta fermo il fatto che si viaggia in direzione di utilizzare l’Ape sociale come alternativa ai canali ordinari di uscita, compresa naturalmente al pensione di vecchiaia dai 67 anni.

Come funziona l’Ape sociale

Parlare di Ape sociale come misura alternativa alla pensione di vecchiaia, nel regime della flessibilità, è argomento che necessita di alcuni passaggi tecnici. Va bene collegare le uscite agevolate alle attività svolte, perché da sempre si parla di differenziare le uscite in base alla pesantezza del lavoro.

Ma è altrettanto vero che occorre innanzi tutto limare l’Anticipo Pensionistico Sociale e portarlo più vicino alle altre misure. E non parliamo di requisiti di accesso, ma di struttura della misura.

Non si può lasciare come alternativa alla pensione di vecchiaia a 67 anni, una uscita dai 63 anni con l’Ape sociale, così come è fatta oggi questa particolare misura. Senza maggiorazioni, senza tredicesima, senza assegni familiari, non reversibile. Per renderla davvero una misura di pensionamento anticipato, non c’è altra via che eliminare questi paletti.

Aumento pensioni dal 1 gennaio 2023 per rivalutazione retroattiva

L’INPS comunica l’aggiornamento dell’inflazione dell’ISTAT. L’aumento pensioni ci sarà solo dal 1° gennaio 2023 con la rivalutazione retroattiva che consentirà di avere un buon conguaglio.

Aumento pensioni: come si calcola?

Annualmente l’importo della pensione ha un adeguamento in base all’inflazione. La rivalutazione viene fatta in base ai dati ISTAT che rileva l’aumento dei prezzi e determina quindi l’aumento del costo della vita e l’inflazione. L’adeguamento dell’INPS avviene in due fasi. La prima determina un adeguamento provvisorio, basato sulle stime dell’ISTAT provvisorie e applicato dal primo gennaio dell’anno successivo rispetto a quello in cui è stata valutata l’inflazione. Il secondo è definitivo, basato sui dati definitivi e applicato però dopo due anni rispetto a quello a cui l’inflazione si riferisce.

Perché l’aumento delle pensioni ci sarà dal primo gennaio 2023?

Il meccanismo di rivalutazione delle pensioni può effettivamente sembrare macchinoso, in realtà è più semplice di ciò che potrebbe sembrare. Andando nel concreto, nel mese di novembre 2021 l’Istat ha determinato l’inflazione dell’anno 2021 basandosi però sui dati a quel momento disponibili, cioè i primi 9 mesi dell’anno.

L’inflazione in quel momento registrata era all’1,7%, ma l’INPS nell’adeguare gli importi delle pensioni da erogare al primo gennaio 2022 ha applicato l’1,6%.

L’ISTAT ha poi rilevato che in realtà negli ultimi tre mesi del 2021 l’inflazione ha continuato la sua corsa, raggiungendo l’1,9%. L’INPS a questo punto attraverso la Circolare 15/22 ha reso noto che dal primo gennaio 2023 adeguerà gli importi alla reale inflazione del 2021 e di conseguenza verserà ai pensionati i conguagli.

Nel frattempo ha reso noto che invece nei prossimi mesi adeguerà gli importi versati ai pensionati all’iniziale stima dell’ISTAT permettendo così ai pensionati di recuperare lo 0,1%, si tratta di un piccolissimo ritocco.

Cosa succederà con la rivalutazione delle pensioni dal 1° gennaio 2023?

In base a quanto comunicato dall’INPS, dal 1° gennaio 2023 sarà applicato un nuovo aumento. In pratica per un assegno di 1.000 euro l’aumento sarà di circa 2 euro. A questo deve essere aggiunto il conguaglio per i 12 mesi precedenti, questo dovrebbe essere di 2 euro, sempre per una pensione di 1.000 euro  ma calcolato su 13 mensilità.

Chi ora percepisce 1.000 euro, riceverà dal mese di gennaio 2023 1.002 euro a cui si aggiungono ulteriori 26 euro di conguaglio per l’adeguamento all’inflazione definitiva calcolata dall’ISTAT. Nel mese di febbraio 2023 riceverà nuovamente 1.002 euro. Occorre però sottolineare che nel caso in cui i prezzi dovessero continuare a salire, l’importo percepito a gennaio 2023 vedrà anche l’aumento determinato dal tasso di inflazione provvisorio determinato dall’ISTAT sulle stime del 2022.

Naturalmente i calcoli devono essere fatti sul proprio assegno di pensione, ad esempio per chi percepiva 2.000 euro nel 2021, l’aumento ulteriore sarà di 4 euro mensili e il conguaglio sarà di 4 euro per 13 mensilità, cioè 52 euro.

Occorre però sottolineare che l’aggiornamento dell’ISTAT all’1,9% si applica invece fin da subito ai datori di lavoro che vedranno aumentare la spesa contributiva, il minimale giornaliero e le varie tariffe corrisposte ai lavoratori.

Per i pensionati ci sono però ulteriori buone notizie in particolare per coloro che ricevono importi alti, per informazioni c’è l’articolo: Contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro: addio dal 2022

Pensioni: il piano del governo, cosa accade per quota 41 e uscita a 62 anni

 

Presto si tornerà a parlare di pensioni e soprattutto di riforma delle pensioni. Scampato il pericolo di dover rivedere il tutto alla luce di un nuovo Presidente della Repubblica e magari di un nuovo governo, adesso si dovrà affrontare l’argomento.

La riconferma al Quirinale di Sergio Mattarella e la conferma in pieno del governo Draghi, vuoi anche per l’evidente attaccamento alle poltrone dei parlamentari, lascia presupporre che si arriverà a fine legislatura. Ciò significa che se davvero la riforma delle pensioni deve vedere i natali quest’anno, sia con un provvedimento ad hoc o solo con la prossima manovra di fine anno, sarà questo esecutivo ad occuparsene.

Ci eravamo lasciati all’ultimo incontro governo sindacati con le solite richieste delle parti sociali e le solite aperture del governo, pur con tutte le limitazioni del caso dovute alla necessità di assecondare le direttive UE per poter godere dei soldi del Recovery Plan.

Il punto della situazione al momento resta questo. Ma cosa c’è da aspettarsi sulle pensioni e sulla loro riforma?

La posizione dei sindacati

Le richieste dei sindacati sembrano sempre le stesse, e così ormai da anni ed anni. I sindacati chiedono la pensione flessibile per tutti e senza penalizzazioni di assegno. Una misura monstre che consentirebbe, a scelta dei diretti interessati, di lasciare il lavoro una volta arrivati a 62 anni di età ed una volta arrivati a 20 anni di contributi versati.

Sarebbe il lavoratore a scegliere in base alle sue esigenze e ai suoi fabbisogni, se accontentarsi o meno di andare in pensione prima.

Infatti se è vero che più si lavora più si prende di pensione, il lavoratore che opta per una uscita anticipata è già di per se penalizzato. Inutile quindi prevedere tagli lineari di assegno, per anno di anticipo o per ricalcolo contributivo della prestazione.

Altro punto cardine delle richieste dei rappresentanti dei lavoratori è la quota 41 per tutti.

Si tratterebbe di una autentica, nuova, pensione anticipata. Infatti senza alcun limite di età, ed anche in questo caso senza penalizzazioni, con 41 anni di contributi secondo i sindacati si dovrebbe uscire dal lavoro.

Il metodo contributivo come principio base delle nuove pensioni

Ciò che il governo potrà fare è il respingere al mittente le richieste dei sindacati. Non è immaginabile che si arrivi a dire di si a queste misure, con la UE che chiede di ridurre la spesa pubblica e di tornare alla piena attuazione della riforma Fornero.

Il governo deve mettere a terra i soldi del Pnnr del governo. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che l’esecutivo ha prodotto per sfruttare le risorse assegnate all’Italia dalla UE e dal Recovery Plan.

Occorre fare i compiti a casa, e farli bene per ottenere quello che all’Italia è stato assegnato, soprattutto con lo sguardo attento dei Paesi Frugali che già in passato hanno contestato i troppi aiuti all’Italia.

In aiuto a questa necessità, senza dubbio il metodo contributivo. Non c’è metodo di calcolo delle pensioni che non sia più virtuoso del sistema contributivo in fatto di contenimento della spesa pubblica. Ed è lì che il governo, come scrivono anche sul quotidiano “Il Giornale”, il governo andrà a parare.

Cosa intende fare il governo sulle pensioni

L’esecutivo si prepara quindi ad una nuova serie di incontri coi sindacati. Incontri dove c’è da giurarci, le posizioni resteranno quelle prima descritte. L’anno corrente segna il primo anno del post quota 100 e l’unico anno di funzionamento della quota 102.

E si parla di una nuova riforma a partire dal 2023. L’idea del governo, che poi è quella che da anni ha già intrapreso il sistema pensioni nostrano, è quello del contributivo. Non ci sono proposte, idee o misure che proposte da fonti vicine al governo, non  prevedono penalizzazioni di assegno. E se i tagli lineari sono poco popolari, allora meglio riversarsi sull’altra grande soluzione per rendere sostenibile la riforma e le eventuali misure. Il metodo contributivo per calcolare gli assegni.

Come già detto infatti, la UE da tempo chiede all’Italia questa soluzione, o meglio una soluzione low cost che per i vertici europei è la riproposizione fedele della riforma Fornero, senza necessariamente trovare scorciatoie. SI arriva per esempio, alla soluzione della pensione flessibile con taglio lineare di assegno, che poi a conti fatti è esattamente una applicazione, celata del metodo contributivo. In questo modo i futuri pensionati, a fronte di una uscita anticipata, subiranno almeno 3 livelli di penalizzazione.

I tre punti cardine di un autentico salasso per i futuri pensionati

Il primo è la penalizzazione del 3% per anno di anticipo. Ipotizzando una misura che permette di uscire a 62 anni, significa il 15% in meno di pensione.

E se la pensione teoricamente spettante è pari a 1000 euro, significa subito un taglio di 150 euro, con assegno che passa ad 850 euro. Ma c’è da fare i conti con il taglio derivante dai peggiori coefficienti di trasformazione applicati alla pensione per le uscite anticipate. Come è noto infatti, prima si esce dal lavoro più penalizzanti sono i coefficienti di trasformazione.

Questi parametri sono quelli per cui si passa il montante dei contributi e tra 62 e 67 anni c’è quasi un punto. Significa perdere un’altra fetta di pensione, stavolta variabile in base agli importi dei contributi. Infine, c’è da fare i conti con i 5 anni in meno di contributi versati, cioè quelli che il lavoratore avrebbe versato se fosse rimasto in servizio fino ai 67 anni.

Pensioni: quando 18 anni di contributi aumentano l’assegno

La carriera di un lavoratore è molto importante per maturare una pensione dignitosa, lo era nel sistema retributivo e lo è anche nel sistema contributivo. L’incrocio di questi due sistemi è quello che oggi viene adottato in sede di calcolo della pensione per la stragrande maggioranza dei cittadini.

Infatti solo chi ha iniziato a lavorare nel sistema contributivo (dopo il 1995), ha diritto ad un calcolo basato sul montante dei contributi versati e non sulle retribuzioni.  Certo, ci sono anche i lavoratori cosiddetti optanti, che scelgono misure e opportunità per uscire anticipatamente con misure che obbligano ad accettare un calcolo meno favorevole della pensione. Ma la maggior parte hanno diritto al calcolo misto.

Ma per tutti questi, 18 anni di contributi versati prima o dopo una determinata data possono fare la differenza in termini di pensione.

Le pensioni con il sistema misto, come funziona il calcolo

Andare in pensione nel 2022 per nove lavoratori su dieci significa andarci con una pensione calcolata con il sistema misto. Di fatto l’importo della pensione viene calcolato con il sistema misto, in parte retributivo ed in parte contributivo.

Come è noto il metodo retributivo si basa essenzialmente sulle retribuzioni degli ultimi anni di carriera. Invece il sistema contributivo si basa sui contributi versati durante la carriera, cioè sul montante contributivo.

Questo montante contributivo è il salvadanaio dove un lavoratore accumula tutti i versamenti durante la carriera. Dal montante, opportunamente rivalutato, passato per dei coefficienti di trasformazione che sono tanto più favorevoli al pensionato quanto più in avanti con gli anni ci si pensiona, esce fuori la pensione spettante.

Nel sistema misto, in base alla carriera prima del 1996, si determina la parte di carriera che andrà poi trattata in termini di pensionamento, con uno dei due sistemi e la rimanente parte che andrà trattata con l’altro.

Perché 18 anni di versamenti prima della riforma Dini possono valere di più

Con l’avvento della riforma Fornero, dal 2012, è stato stabilito che i soggetti che hanno una carriera lunga almeno 18 anni al 31 dicembre 1995, possono godere del favorevole calcolo retributivo della pensione fino al 2012. Per contro, chi invece ha una carriera inferiore a questi 18 anni, alla stessa data, gode del calcolo retributivo solo fino al 31 dicembre 1995.

Una differenza notevole, di 17 anni che può andare ad incidere in maniera notevole sul rateo di pensione. A tal punto che per chi si trova con pochi anni di differenza rispetto alla soglia dei 18 anni, non è azzardato suggerire di verificare la presenza di eventuali periodi da riscattare per poter arrivare alla fatidica soglia.

Va ricordato infatti che i 18 anni sono quelli a qualsiasi titolo versati. E per questo che anche quelli da riscatto potrebbero essere utili, anche se prevedono l’esborso di una determinata cifra. Va sottolineato che non si possono  utilizzare i contributi volontari che guardano solo al futuro e non al passato. Non si possono usare versamenti volontari per i periodi passati.

Esempi pratici di calcolo della pensione nel misto

Come già detto, possono essere notevoli le differenze in termini di assegno previdenziale tra sistema retributivo e sistema misto. Ne è la prova ciò che accade alle lavoratrici optanti. Sono quelle che scelgono opzione donna con uscite a 58 o 59 anni rispettivamente per lavoratrici dipendenti e lavoratrici autonome.

Un esempio pratico riguarda queste lavoratrici che per uscire dal lavoro a quelle età (con finestra di 12 mesi), devono maturare 35 anni di contributi e scegliere il ricalcolo contributivo della prestazione. Un sistema che produce per chi ha più di 18 anni di carriera antecedenti il 1° gennaio 1996, un taglio medio di assegno tra il 20% ed il 30%.

Perché il sistema contributivo della pensione penalizza i pensionati

Evidente che il sistema contributivo sia meno vantaggioso, e non di poco. La pensione nel misto si divide come detto,  in due quote, una retributiva ed una contributiva. La quota retributiva è costituita da una media delle retribuzioni percepite, soprattutto negli ultimi anni di carriera.

Detta media vale  circa il 2% per ogni anno di carriera svolto. Diverso il meccanismo del sistema contributivo,  perché si accantona una quota dello stipendio mensile. Nello specifico, il 33% della Retribuzione Annua Lorda (RAL). Questi accantonamento vengono poi rivalutati ogni anno che passa fino alla data in cui questi versamenti si utilizzano per la propria pensione.

Quando andrai in pensione? Il servizio INPS Pensione a Misura te lo svela

Quando andrai in pensione? E’ la domanda che tutti prima o poi si fanno nella vita. Ma il nuovo servizio INPS pensione misura, lo rileva.

Quando andrai in pensione? Vediamo come scoprirlo

La pensione è sempre un pò incerta. Tra continui cambi, decreti, riforme ci si chiede sempre quando si andrà in pensione. Ma in soccorso l’Inps, nel proprio sito, ha inserito un simulatore che potrebbe risolvere l’incertezza. Lo scopo del simulatore è solo di tipo informativo.

Tuttavia funziona sulla base delle informazioni inserite e così è solo una simulazione. E’ tanto più veritiera quanto è prossima la pensione. Mentre più lontana è la risposta, più è incerta la sua risposta. Ma in ogni caso non ha bisogno di registrazione o di accesso con particolari credenziali.

Ecco come funziona il simulatore

È online “PensAMi” il nuovo simulatore ideato per affiancare e accompagnare gli utenti a comprendere il proprio futuro pensionistico. Il simulatore è formato da tre livelli. Per ogni livello occorre rispondere ad alcune domande. In base alle risposte si può definire uno scenario più chiaro ai fini pensionistici. Alla fine di ogni livello si accede al riepilogo delle risposte fornite ed andare avanti fino al terzo livello. Tuttavia, si può così scoprire:

  • al primo livello a quali pensioni si ha diritto sulla base contributiva ed il sistema di calcolo applicato;
  • al secondo livello la data in cui si può andare in pensione tenendo conto della contribuzione presente in ciascuna gestione;
  • infine al terzo livello se si può anticipare l’entrata in pensione.

Quando andrai in pensione? Altre informazioni sul simulatore

Prima d’iniziare, però, è importante che sappiate che il suddetto servizio fornisce informazioni esclusivamente sui trattamenti pensionistici diretti relativi alle seguenti gestioni previdenziali gestite dall’INPS:

  • (Fondo pensioni lavoratori dipendenti (FPLD)
  • Gestione esercenti attività commerciali (COM)
  • Gestione artigiani (ART)
  • Gestione coltivatori diretti, mezzadri e coloni (CD/CM)
  • Gestione separata
  • Cassa pensioni dei dipendenti delle amministrazioni dello Stato (CTPS)
  • Cassa pensioni dei dipendenti degli Enti locali (CPDEL)
  • Cassa pensioni degli ufficiali giudiziari (CPUG)
  • Cassa pensioni insegnanti (CPI)
  • Cassa pensioni sanitari (CPS).

PensAMi” è stato progettato mettendo l’utente al centro, in modo da garantire la massima facilità d’uso. Durante tutto il percorso, sono presenti note informative per chiarire dubbi e link alle schede prestazioni per approfondire. Il servizio è aggiornato alle ultime novità legislative (legge 30 dicembre 2021, n. 234) in materia di accesso alla pensione anticipata (Opzione donna e pensione “Quota 102”). Ma attenzione, si ricorda che è solo una simulazione.